NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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martedì 10 agosto 2021

La storia di Elena Sarjantola. XXX capitolo. La lettera insignificante. Il posto delle mutande. La grazia di Priapo

Un pomeriggio, forse era il primo di agosto[1], Elena venne al solito incontro amoroso, verso le 17, con una lettera in mano. Disse che l’aveva appena ricevuta dal suo “amico” finlandese e si scusò poiché doveva finire di leggerla. Ne tremai nell’ombra ormai lunga del pomeriggio avanzato della tarda estate. Temevo che ne avrei pianto al lume bianco della luna. Quando la ripiegò, io, con tutta la calma possibile, simulando anzi noncuranza sovrana, domandai: “novità?”

Rispose: “No. Ho letto parole talmente banali e scontate che potevo scrivermele da sola”.

Rusticus coniunx”, pensai tutto ringalluzzito. La paura si capovolse subito in ardire e il mio istinto erotico ne fu potenziato.

“Andiamo a fare l’amore”, le dissi. “Ho predisposto lo sgombro della camera da parte degli altri tre e ho fatto anche cambiare le lenzuola da un’inserviente doverosamente pregata. Saremo felici non una volta ma dieci. Facciamo tesoro di questa opportunità meravigliosa, vero dono di Dio”.

Priapo mi ispirava una follia più saggia della saggezza del mondo.

Italian always arrange”, commentò lei, assai compiaciuta del resto.

Io ero felice del pericolo scampato e volevo festeggiare l’evento.

Sicché andammo in camera e facemmo l’amore parecchie volte, una decina come avevo promesso, non meno. Mi aiutava un dio grande, pieno di grazia, non il Viagra dei disgraziati colpiti dall’ira santa del grande nume.

Sostituivo il noioso servizio militare della caserma terminato due mesi prima con il gioioso servizio erotico a Priapo, a Venere e a suo figlio Cupido. Ero ancora un soldato ma di tutt’altro esercito: "Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido; /Helena, crede mihi, militat omnis amans"[2].

Era anche questa un’ascesi. Ogni ascetismo è un esercizio fatto di impegno grande e di soddisfazione ancora maggiore, di piacere non senza fatica.

Imparai anche un piccolo artificio, io homo amatoriusmulierosus quam qui maxime, dalla mulier amatoria che mi insegnò a non perdere tempo prezioso frugando dappertutto in cerca delle mutande sparite che finiscono chissà dove quando ce le togliamo con mani frenetiche: Elena mi fece vedere che bastava infilarle sotto il cuscino. Con altre avevo sciupato diversi minuti della mia breve vita mortale andando a cercarle fin sotto il letto, ed era successo che il tempo maltrattato aveva poi a sua volta trattato male me, come sempre succede. Le mutande delle mie amanti: trofei dolcissimi da rammentare nota 2bis.

“Brava, bravissima - feci - sei un genio: sei più brava di me!”


Fu un grande piacere dei sensi ma fu anche una gioia spirituale. Ci sentivamo del tutto beati.

 Dopo l’ultima di questa serie meravigliosa, Elena, ammirata, mi disse che  non ero normale, e che lei del resto era un’amante comoda poiché, data la sua condizione, il rapporto amoroso non richiedeva cautele.

 Non c’era nemmeno l’impiccio delle mestruazioni.

La sua voce fluttuava in una dolce sensualità.

“Con te lo farei innumerevoli volte anche insanguinandomi. Voglio arrivare a una fusione totale tra noi, un’endiadi umana”, replicai.

“Allora facciamolo ancora, prima di andare a cena” disse, simulando un furore non meno menadico che erotico. Da menade iperborea.

Erano già passate le otto e io ero affamato. I tre contubernali e humiles amici[3], con Fulvio in testa, dovevano per giunta tornare in camera a momenti, secondo l’arrangiamento concordato. L’amico magari vedendo la porta chiusa, avrebbe capito e tenuto a bada gli altri, desiderosi di una pausa dall’errante vagabondaggio cui li avevo indotti con varie e vaghe promesse.

Ma per quanto tempo ci sarebbe riuscito l’amico più caro? Era già quasi notte e i compagni di camerata dovevano prepararsi per la cena. Feci questa obiezione alla sua richiesta di iterare ancora l’atto che portava a conoscerci.

 “Allora non mi ami quanto sostieni e millanti”, scherzò Helena.

 

If you are hungry, I could be angry, with you”, aggiunse con lepido bisticcio[4].

E io: “I am hungry just of you. Only you can keep me from starving[5].

Stimolato dalla sua magnifica provocazione, eccitato, come lei, dal buon umore, feci, facemmo l’amore ancora un paio di volte, trionfalmente. Un trionfo coribantico, da orgia sacra e santa, sacrosanta insomma.

Lo ricordo alla faccia non bella dei  fantasmi drogati dal viagra.

Quindi andammo a cena tutti contenti, a mangiare carne non cruda[6], a bere il “Sangue di toro di Eger” e a goderci un ozio da paradiso nel ristorante dell’hotel Aranybika, “Toro d’oro”, nel centro della città, dove avevo dormito la notte del luglio del 1966, quando, con una scassata Fiat Seicento, arrivai per la prima volta, spaesato e spaventato come un coniglio bolso, nella sconosciuta cittadina ungherese dove avrei passato alcuni tra i mesi più belli di questa mia rapida vita mortale. Ma allora, nel ’66, non lo sapevo. Era già buio e non fui nemmeno capace di trovare l’Università nascosta nel grande bosco. Un portiere esoso e losco mi aveva ingannato per farmi dormire lì.

Sicché passai in quell’albergo la prima notte di Debrecen in una solitudine desolata e nello sconforto da giovane sprovveduto di quasi tutto, quale ero in quel tempo. Quella fu davvero una notte di pianto. Senza luna per giunta. Il giorno dopo però, con il sole, incontrai Fulvio che mi rincuorò poi mi fece rinascere  

Ma questo l’ho già raccontato[7].  

 

 

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[1] Ricordo che eravamo nell’anno di nostra redenzione 1971

[2] Cfr Ovidio, Amores, I, 9, 1-2. E’ un soldato ogni amante; anche Cupido ha il suo campo di guerra; Elena, credimi, ogni amante è un soldato.

2 bis Nota a “rammentare”: “Facciamo tesoro di sentimenti cari e soavi i quali ci ridestino per tutti gli anni, che ancora forse tristi e perseguitati ci avanzano, la memoria che non siamo sempre vissuti nel dolore” (Ugo Foscolo, Ultime lettere di Iacopo Ortis, 26 ottobre

[3] Cfr. Seneca: “Servi sunt”, Immo contubernales. “Servi sunt”. Immo humiles amici. (Lettere a Lucilio, 47, 1). E’ la lettera sugli schiavi, una delle più note.

Dissi che avevo fame e che potevamo riprendere più tardi, magari subito dopo cena.

[4] Se tu sei affamato, io potrei essere arrabbiata con te.

[5] Io ho fame solo di te. Solo tu puoi salvarmi dal morire di fame.

[6] Come le baccanti che praticavano l’wjmofagiva, il mangiare la carne cruda.

[7] Cfr. L’arrivo a Debrecen presente in questo blog, un capitolo bello assai

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