Potevo fare la fine del martire sulla croce dell’amore non contraccambiato. Non credevo che la mia sarebbe stata la croce dove Dio fa inchiodare i suoi figli prediletti.
Pensavo piuttosto che una preghiera nera formulata da spiriti maligni avesse richiesto e ottenuto il ritorno del Caos dove volteggiano i mostri.
Nel prato della sventura tutto si era sciolto dal vincolo dell’armonia: giravano teste senza collo, facce prive di occhi, braccia senza spalle né mani.
Perfino il sole, il primo fra tutti gli dèi, la luce più bella apparsa sul grande bosco di Debrecen, perdeva i suoi raggi vitali, e si scoloriva, spandeva un lume fioco e afflitto, fino a sparire annientato da una densa caligine afosa.
Senza Elena il sole non era più il sole. L’ombra non stava più dentro se stessa: dilagava dappertutto e offuscava la bellezza del prato, del bosco, perfino quella delle ragazze fiorenti, il meglio del meglio nell’intero cosmo.
Il verso, altre volte gradito, delle tortore mi sembrava il lamentoso singhiozzo ripetuto, ossessivo, di un uomo morente e non rassegnato a lasciare la vita. La faccia del cielo mi si mostrava deforme.
Oscene cornacchie profetizzavano l’avverarsi di qualche remoto sfacelo, mai visto prima dalla terra e dal cielo, ripetendo continuamente il loro lamentevole kár kár (1).
Note
Le prime sei sono
relative al capitolo precedente
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1) Kár in ungherese significa “peccato”. Imre Madách nel poema La tragedia dell’uomo (Az ember tragediája, 1826) ha scritto che il campo della disfatta magiara di Mohács da parte del sultano ottomano Solimano I (1526) era sorvolato da corvi che ripetevano questo verso.
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