domenica 15 agosto 2021

Excursus la caccia II parte

 


 La caccia in altri autori

  Su questo tema vale la pena fare qualche riferimento ad altri autori.

 Platone alla fine del VII libro delle Leggi  prende in considerazione la caccia "come una forma legittima di paideia...affermando l'alto valore di questa attività per la formazione del carattere"[1]. Il filosofo del resto fa delle distinzioni nell' ampio ambito semantico indicato dalla parola qhvra. E' positiva e degna di lode (e[paino~) solo la caccia che rende migliori le anime dei giovani (823d), mentre merita biasimo (yovgo~)  quella che agisce in modo contrario.

Dunque non va approvata la caccia in mare, né la pesca con l’amo, né l’ oziosa caccia con le reti (kuvrtoi~ ajrgo;n qhvran), da svegli o da addormentati.

Qualsiasi forma di qhvra in mare, compresa la pirateria, che rende gli uomini qhreuta;~ wjmou;~ kai; ajnovmou~ (823e) cacciatori crudeli e fuorilegge viene disapprovata. La caccia agli uccelli non è del tutto degna di un uomo libero.

La cattura di un animale deve essere la vittoria di un'anima che ama la fatica: allora rimane, migliore e unica, la caccia diurna ai quadrupedi, con i cavalli, con i cani, con le proprie forze fisiche, sui quali hanno la meglio  quanti si prendono cura del divino coraggio,  cacciando di  propria mano, con corse, colpi e lanci.

 Quindi la legge, conclude l’Ateniese, non impedisca a questi che sono davvero cacciatori sacri di andare a caccia dove e come vogliono, ma non permetta mai e in nessun luogo di cacciare al cacciatore notturno che confida nei lacci e nelle reti; al cacciatore di uccelli  non si impedisca di cacciare nei campi incolti e sui monti, ma non deve farlo nei campi coltivati[2] e sacri; il pescatore infine può pescare ovunque tranne che nei porti, nei fiumi, negli stagni e nei laghi sacri, ma non deve servirsi di misture torbide di succhi vegetali (824). Le quali, ovviamente, avvelenavano i pesci.

 Si può immaginare come Platone considererebbe il cacciatore armato di fucile!

"Nel vietare l'uso di reti e trappole il codice di caccia platonico va anche al di là di quello di Senofonte"[3].

 Platone in definitiva considera la caccia un mezzo per temprare il carattere e anche per curare la bellezza naturale che, leggiamo nel Gorgia , si ottiene solo attraverso la ginnastica, mentre è falsa la bellezza cercata con la cosmesi la quale è malvagia e pure fallace e ignobile e servile "kakou'rgov" te kai; ajpathlh; kai; ajgennh;" kai; ajneleuvqero""(465 b) , poiché inganna attraverso l'apparenza, i colori, gli unguenti i vestiti.

  

Isocrate nell'Areopagitico (44) ricorda che gli abbienti del buon tempo antico si dedicavano alla cinegetica oltre che all'ippica, alla ginnastica e alla filosofia, mentre I più poveri venivano indirizzati all'agricoltura e al commercio, in una concezione della paideia come gioco elevato espressa pure da Callicle nel Gorgia di Platone. Menandro nella comedia L'arbitrato  pone il cacciare i leoni ("qhra'n levonta"", v. 148) tra le imprese degne di un uomo libero e nobile, insieme con il portare le armi ("o{pla bastavzein") e correre negli agoni ("trevcein- ejn ajgw'si", vv. 149-150).

Un autore nostro che raccomanda la caccia come "esercizio della guerra" è Machiavelli:"E quanto alle opere, oltre al tenere bene ordinati et esercitati li sua, debbe stare sempre in sulle caccie, e mediante quelle assuefare el corpo a' disagi". Il che non toglie niente all'esercizio intellettuale:"Ma, quanto allo esercizio della mente, debbe el principe leggere le istorie, et in quelle considerare le azioni delli uomini eccellenti"[4].

Molti sono stati i prìncipi dediti alla caccia: Sallustio racconta che Giugurta non imputridiva nell’ozio , ma cavalcava, si addestrava con l’arco, gareggiava nelle corse con i coetanei “ad hoc, pleraque tempora in venando agere, leonem atque alias feras primus aut in primis ferire, plurimum facere, minimum ipse de se loqui” (Bellum Iugurthinum, 6, 1), inoltre passava la maggior parte del tempo nella caccia, colpiva per primo o tra i primi i leoni o altre fiere, agiva moltissimo, parlava pochissimo di sé. 

A favore della caccia per altre ragioni, evidentemente legate a Eros, è anche Ovidio, il poeta mulierosus . Questa attività viene consigliata, in tutte le sue branche, tra i Remedia amoris , sulla linea di Teofrasto che considerava l'amore "pavqo" yuch'" scolazouvzh""[5], un'affezione dell'animo disoccupato:"...Venus otia amat; qui finem quaeris amoris,/cedit amor rebus; res age: tutus eris "[6], Venere ama il tempo libero; tu che cerchi la fine di un amore, datti a delle attività e sarai sicuro: l'amore si ritira davanti alle attività. Tra quelle raccomandate c'è anche la caccia:"Vel tu venandi studium cole; saepe recessit/turpiter a Phoebi victa sorore Venus "[7], oppure tu coltiva la passione per la caccia; spesso si è ritirata con vergogna Venere vinta dalla sorella di Febo[8].

Del resto già nell'Ecloga X  di Virgilio, Cornelio Gallo[9] cerca di sfuggire alla sofferenza amorosa, che Licoride gli infligge, col proposito di percorrere  le montagne dell'Arcadia  a caccia di aspri cinghiali mescolato alle Ninfe :"Interea mixtis lustrabo Maenala Nymphis,/aut acris[10] venabor apros "(vv. 55-56).

 



[1]Jaeger, Op. cit., pp. 308-309

[2] Cfr. Cinegetico: “Quando si va a caccia in luoghi coltivati, ci si tenga lontano dai frutti delle stagioni  (V, 34)

[3]Jaeger, Op. cit., p. 309.

[4]Il Principe , cap. XIV.

[5]In Stob. 4, 20, 66.

[6]Ovidio, Remedia amoris , vv. 143-144.

[7]Ovidio, Op. cit., vv. 199-200.

[8] Diana.

[9] E' il primo elegiaco del canone di Quintiliano che attribuisce grande credito a questi poeti:"elegia quoque Graecos provocamus"( Institutio oratoria, X, 10, 93), anche  nell'elegia sfidiamo i Greci. Noi lo conosciamo attraverso la mediazione di Virgilio e per pochi versi che contengono già le parole chiave dell'elegia latina: domina, servitium amoris, nequitia.

[10] =acres.

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