Il sorriso leonardesco di Kaisa invece sembrava esprimere compiacimento.
Conosceva discretamente il latino e disse che non aveva bisogno della traduzione, che le piaceva sentirlo inserito nel mio inglese già pieno di sinonimi neolatini usati invece dei termini germanici, e pronunciati con un forte accento italiano.
“Anzi, pesarese”, corressi con la dovuta sorridente modestia.
Sorrise anche lei con aria interrogativa, da Sfinge questa volta, poi aggiunse, da linguista seria qual era: “chi non conosce il latino non può avere piena coscienza delle lingue derivate da questa, compreso l’inglese che è una neolatina ad honorem, siccome ha il 75 per cento di termini derivati dalla lingua madre dell’italiano”.
Ora alzava arditamente, ora abbassava lo sguardo, timida o pudibonda, non so. Certo era che questo mio corteggiamento non le spiaceva.
Sicché continuai spinto dalla potenza demoniaca della sensualità.
Non credere che simulassi, lettore. Io quella donna la desideravo e le parole scaturivano dalla sorgente ricca e vivace della libidine. Cupidinem tene, verba sequentur.
Questa mi rendeva eloquente[1], o per lo meno loquace.
Per giunta la bellina a un tratto disse: “quando mi sono sposata, due anni fa, mi sembrò di fare la scelta migliore possibile, ma ora non ne sono più tanto sicura”.
“Melius est nubere quam uri, suggerisce l’apostolo[2]; secondo me poiuttosto, , optimum est amare; e pure Kaisa a questo punto forse l’ha capito. Si vis amari, ama”, pensai.
Poi dissi: “Che tu sia benedetta, creatura e ti possa portare ogni bene per sempre il fatto che hai teso la mano a me, un supplice che Dio ti ha mandato, uno bisognoso di te! Io ti amo anche perché hai avuto compassione di me rispondendo al mio invito”.
Sorrise di nuovo e disse: “non è pietà questa mia, non per te” e mi toccò un’altra volta, delicatamente, la mano destra. Poi aggiunse “la mano che ti porgo è un munus: donum est quod officii causa do”.
Un dono che ti faccio per dovere di contraccambio intendeva.
Le feci i complimenti per questa sua frase allusiva, che di sicuro riferiva qualche testo studiato, anche se non sapevo a quale. Glielo domandai. Rispose che si trattava di Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee il cui autore, Benveniste, citava Festo, un epitomatore del II-III secolo il quale aveva riassunto un’opera lessicale di Valerio Flacco, grammatico antiquario dell’età di Augusto.
Tanta scienza in una ragazza così giovane e bella mi eccitò dalla punta dei piedi a quella dei capelli che si rizzarono quasi.
Allora azzardai i novissima verba, le parole conclusive e risolutive: “Omnia vincit amor et nos cedamus amori”.
Capì benissimo e non disse di no. Abbassò il capo probabilmente per significare: sia fatta la tua volontà che è anche la mia.
“Magnifica, sorridente e delicata provocazione - pensai - Questa ragazza reclama tutto il mio ardore e così sia”.
Il suono dei violini sembrava accompagnare un coro di angeli.
Bevemmo mezza bottiglia di sangue di toro di Eger a testa. Ne diventammo allegramente inebriati. Capisco che la vicenda amorosa che sto raccontando dà qualche segno di tendere alla dismisura rasentando il comico. Ma non è il momento. Questa è solo la prima parte della seconda storia della trilogia.
Neppure qui l’elemento tragico manca. Pure questa deliziosa donna, dopo un mese tutto intero di amore, salirà su un treno celeste alla stazione orientale di Budapest. Mi guardava intensamente commossa mentre la osservavo, commota mente anche io, cercando di fissare nella memoria oculos numquam ad visus redituros meos. Dopo Elena avevo capito che queste storie vanno così, devono andare, dolorosamente, così.
Ma dal dolore poi, se non ci uccide, scaturidscono la comprensione e la bellezza.
Il dramma satiresco che chiuderà la quaterna drammatica sarà la storia con Ifigenia che verrà dopo la terza tragedia, la più tremenda: quella con Päivi.
Ma ogni cosa a suo tempo.
Tieni conto lettore, mentre leggi le citazioni e le iperboli, che eravamo parecchio giovani all’epoca e che il tempo di allora era tanto diverso da questo. Io per giunta avevo un braccio ingessato e, se tutto fosse andato come speravo, avrei dovuto impegnarmi per abbracciarla da monco qual ero e come mi chiamavano alcuni sinistri rompiscatole dandomi la baia con strafottenza.
Ma torniamo a noi due quella sera.
Tutto lì intorno era allegro: gli zigani suonavano bene e ci sorridevano, o perché eravamo carini e sorridenti anche noi, o perché speravano in qualche fiorino di mancia, o per entrambi i motivi. Musica e sorrisi inviavano onde concentriche di un’anticipata riconoscenza. Io la trasmettevo alla donna già sintonizzata con me e ringraziavo pure il destino buono che me l’aveva fatta incontrare.
Avevamo bevuto il sangue di toro di Eger mangiando poco per non prendere peso e pure perché eravamo riempiti dalla piacevolezza dell’evento che aveva scacciato fami di giorni invernali rabbuiati e scontenti . Spingono all’obesità molti infelici.
Le sedie erano rivestite di velluto amaranto, i tavoli adorni e variopinti di fiori, veri nei vasi, ricamati nelle tovaglie. Poi Kaisa era proprio bellina e per niente stupida, anzi. Parlava con buona competenza di linguistica e io l’ascoltavo imparando in certi momenti, in altri simulavo un enorme attenzione, mentre, contornato com’ero da tanti colori, pensavo: “anche la vita mia dovrà essere variopinta. Un poco lo è già. Grazie a te Elena e anche a te Kaisa spero. Nemmeno l’oblio che dovrò sorseggiare con l’acqua del Lete potrà farmi scordare di voi, benedette tra tutte le donne ”.
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[1] fac tantum cupias, sponte disertus eris " (Ovidio, Ars amatoria I, 608), pensa solo a desiderarla, e sarai facondo senza sforzo.
[2] Paolo, Ai Corinzi I 7. 9
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