martedì 17 agosto 2021

La storia di Elena Sarjantola. XXXIX capitolo. L’orto botanico. Summertime

“Magnifica” pensai. La stimai e l’amai ancora di più per questa bella affermazione della sua dignità di donna e di persona; quindi vidi con chiarezza maggiore quanto fossi stato volgare, crudele e immorale civettando con la ragazza francese. “Non tutte le femmine dunque”, pensai, “sono creature contraffatte, segugi sagaci a caccia di nozze convenienti, maschere prive di interiorità: leziose e smancerose, o tetre e arrabbiate, parassitarie o prepotenti, istrioni tragiche o guitte comiche, volgari mime arcisfrontate o ipocrite perbeniste pudibonde, quali le considerano, e spesso le condizionano a essere, i maschi frustrati nell’amore e nel lavoro. Se ci sono nemiche, siamo noi uomini che spesso le rendiamo tali[1]. 
Guarda questa finlandese: una donna autentica, una che ti mette addosso la vergogna di essere rozzo e sozzo, egoista, immaturo e ti fa crescere con l’esempio di un comportamento, di uno stile elevato”.

Quindi le dissi: “Elena, oltre all’amore e al rispetto, io per te provo ammirazione poiché tu sei capace di aprirmi ogni giorno nuovi spiragli sull’anima mia. Davvero tu non sei soltanto né soprattutto materia, anche se bella. Prima di tutto sei spirito: mente, cuore, stile sei. La tua parte materiale è spiritualizzata, mentre lo spirito traspare nelle tue forme, tesoro. Ti prego, non andare via, non lasciarmi troppo per tempo, ante diem, amore mio! Da te ho imparato più che dai libri. Quello che tu mi hai insegnato, lo insegnerò. Quod a te didici, docebo”. Così, con l’amore, le contraccambiai pure il latino. Rispose con un sorriso di gratitudine e gioia. Qualche giorno più tardi mi rese felice dicendo che mi amava anche perché, quando ne avevo avuto l’occasione e la possibilità, non le avevo fatto del male. Come fa la canaglia di tutte le classi sociali, le caste, le religioni, i partiti. Così la sera del 4 di agosto del 1971 le chiesi perdono e facemmo la pace, poi parlammo a lungo e facemmo l’amore nel letto dei nostri colloqui e dei nostri sospiri; quindi tornammo a ballare sulla terrazza sotto il cielo colmo di astri. Eravamo felici. 

Prima di andare a dormire, ciascuno nel suo edificio del collegio immerso nella grande foresta di Debrecen, passeggiammo in mezzo alle piante strane dell’orto botanico. Notavo con gioia e meraviglia l’originalità della vita in tutto quanto osservavo. Volevamo stare insieme ancora del tempo, sebbene oramai l’alba cedesse all’aurora. Elena cantava: “Summertime and the living is easy, fishes are jumping and the cotton is high”, con voce calma e calda; e bruna com’era, vestita della tunica bianca, calzata di sandali neri con fibbia, sembrava un’antica poetessa greca che recita una sua lirica in lode della bella stagione, dell’amore e della vita. Quella donna, di sensibilità aristocratica, possedeva l’eleganza nella propria memoria e nel sangue suo. Quella musica e quelle parole mi commuovono ancora quando le sento. Nessun disincanto me le ha fatte obliare. Già sulle prime note sorge il ricordo con Elena, il bosco, i fiori, il cielo, con tutto il meglio della vita insomma.


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1. Cfr. Seneca, non habemus illos hostes sed facimus (Lettere a Lucilio, 47, 5), non abbiamo quelli (gli schiavi) quali nemici, ma li rendiamo tali. 

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