lunedì 16 agosto 2021

La storia di Elena Sarjantola. XXXVII capitolo. La matita restituita. Il riguardo per la donna incinta

Saturninus, Mme Chauchat


Ma torniamo all’era di Debrecen, precisamente alla sera del 4 agosto del 1971, ai miei ventisei anni e otto mesi. 
Diedi retta al mio demone che non voleva il male della donna pregna, né quello del feto, né il mio. Sarebbe stata azione non degna di me. Mi scusai con la ragazzetta francese che mi salutò citando a sua volta La montagna incantata: “N’oubliez pas de me rendre mon crayon”[4]. Forse era l’incoraggiamento che avevo cercato. Mi aveva allungato una matita perché le scrivessi un verso di Euripide che avevo citato e le era piaciuto. You are quoting from Thomas Mann, le dissi con un sorriso di approvazione. Avevo riconosciuto l’allieva[5]. 

Le restituii la matita, la salutai, poi andai in fretta da Elena che aveva osservato e, probabilmente, compreso. “Ciao cara, come vanno la salute e l’umore?” Le domandai non senza imbarazzo. “Non bene”, rispose con serietà. “Ti voglio parlare, ma non qui tra la gente e il chiasso. Andiamo via”. Aveva visto e capito che ero stato lusingato e attirato dalle moine, le parole e i vezzi di quella adolescente liscia e fresca come una prugna, spregevolmente da parte mia, dopo tutti i giuramenti d’amore e di stima impiegati per convincere lei, la donna di un altro, di uno lontano, a venire a letto con me, l’uomo che diceva di amarla quanto una persona buona ama la vita. Le proposi di andare in collegio, in camera mia, dove si poteva parlare stando seduti e guardandoci in faccia. Sentivo anche io il bisogno di una spiegazione chiara e completa. Il collegio era deserto, la camera vuota. Ci sedemmo sul letto ordinato, e casto, di Fulvio, l’onesto Fulvio. Nemmeno con se stesso fornicava l’amico innamorato della futura moglie. “Senti Gianni”, cominciò andando direttamente al centro della questione, “se la mia presenza ti pesa, io posso tornare in Finlandia domani”. Aveva gli occhi gonfi, rossi, cerchiati, e l’aria infelice. Ancora una volta, con la sua capacità di arrivare subito al nocciolo, con la sua calma, pur nel dolore, mi dava una lezione di intelligenza e di stile. La guardavo pensando quanto era diversa dalla gente rozza e affettata, che frequentavo di solito; quanto mi rendeva migliore. Riflettevo, esitavo a rispondere. Allora si mise a piangere sommessamente. 

Finalmente parlai. Dissi: “Elena, non piangere, ti prego, mi dispiace, non piangere. Fammi capire che cosa ti rende infelice. Io voglio aiutarti”. Si asciugò gli occhi, poi mi guardò con fermezza e disse: “A me dispiace di essermi lasciata andare ad amarti troppo presto. Ti ho creduto quando dicevi che ti piacevo, che mi volevi bene, e mi sono sbagliata”. “Non ti sei sbagliata”, la confutai, ma senza la convinzione e la forza necessarie a lenirne la pena. Allora disse: “Non essere falso almeno. Ho visto quanto ti attirava la ragazza francese e quanto avresti voluto essere libero per lasciarti andare con lei. Ebbene, puoi farlo, o puoi continuare a farlo. Non preoccuparti per me: considerati libero, come se non mi avessi mai conosciuta; io adesso torno in camera mia e domani sparisco dalla tua vita. Addio”. E si mosse per andare via. 


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4. Sono le ultime parole, dette in francese da Madame Chauchat, del V capitolo (Notte di Valpurga) 
5. Tre anni più tardi, nel tempo della storia di Päivi, Josiane mi porterà un fiore con la dedica “Magister, tibi”. L’ho raccontato nella Storia di Päivi presente nel blog giovanni ghiselli

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