Nell’Hecyra di Terenzio, Panfilo quando apprende del parto di Filomena,
prima di sapere che il figlio è proprio
suo, dice che riprenderla in casa non sarebbe conforme alle leggi del decoro l'honestum (Terenzio, Hecyra , 403-404) e dunque
non può farlo "etsi amor me graviter
consuetudoque eius tenet " sebbene l’amore e il tempo passato insieme
mi tenga ancora mentalmente legato.
La cortigiana Bacchide è generosa fino all'inverosimile: ha un significato provocatorio il fatto che un personaggio emarginato dalla moralità perbenista sappia superare le convenzioni e obbedire alle leggi dell'umanità:"numquam animum quaesti gratia ad malas adducam partes "(Hecyra, 836), non mi lascerò mai indurre a una cattiva azione per il profitto. Bacchide è stata l’amante di Panfilo prima del matrimonio di lui e forse potrebbe recuperarlo ma si adopera perché i due sposi tornino insieme. Va a casa di Myrrina, la madre della puerpera e le mostra l’anello che le aveva regalato Panfilo dopo averlo strappato alla donna violentata e messa incinta da ubriaco, la stessa Filomena che poi averebbe sposato senza riconoscerla.
Tutti i pregiudizi misogini espressi da Lachete (il padre di Panfilo) sono contraddetti dal comportamento delle donne: Sostrata ( sua moglie e suocera di Filomena), Filomena (la nuora) e Bacchide (la cortigiana).
C'è il rifiuto della misoginia tradizionale (Esiodo, Semonide, Teognide).
L’honestum diverso per i maschi e le femmine in Tacito
"Feminis lugere honestum est, viris meminisse " (Tacito, Germania 27, 1), per le donne è bello piangere, per gli uomini ricordare.
Ricordo la condanna della lagna come ignobile ne Il Gattopardo :" L'ira e la beffa sono signorili; l'elegia, la querimonia, no"(p. 135).
Vediamo dal De officiis di Cicerone che cosa è il decōrum, il prevpon, ciò che si addice a una persona per bene.
Coincide con l’honestum.
Quello che decet è agire prudenter, considerate, con prudenza e ponderazione, mentre dedecet falli, errare, labi lasciarsi andare, decipi (cfr. to deceive).
E’ decorum quello che si compie viriliter animoque magno (I, 94). Del decorum fanno parte moderatio et temperantia, moderazione ed equilibrio. La natura ha assegnato al personaggio uomo le partes constantiae, moderationis, temperantiae, verecundiae, e ci insegna a non trascurarle.
La pulchritudo corporis è data dall’apta
compositio membrorum (I, 98), dalla proporzionata disposizione delle membra, quando inter se omnes partes cum quodam lepōre consentiunt, costituiscono un insieme armonico con una certa piacevolezza. Così lo stile di una persona deve essere caratterizzato ordine et constantia et moderatione dictorum omnium et factorum. Dunque il decorum, quod decēre dicimus, è non violare, non offendere homines. Mancanza di u[bri".
Fondamentale è l’armonia con la natura quam si sequemur ducem, numquam aberrabimus (I, 100). Bisogna approvare motus corporis qui ad naturam apti sunt e pure motus animi qui item ad naturam accomodati sunt, appropriati. L’appetitus, oJrmhv, deve obbedire alla ratio. Non siamo bruti e non dobbiamo vivere “seguendo come bestie l’appetito”[1].
Procediamo con il De officiis. L’argomento del secondo libro è l’utile che spinge tra l’altro alla gloria (sulla quale Cicerone, sempre nel 44, scrisse un trattato, De gloria appunto, purtroppo perduto).
Il terzo libro tratta dell’eventuale conflitto tra honestum e utile, un contrasto che l’autore considera solo apparente in quanto non è possibile, non è nemmeno naturale che possa diventare veramente utile ciò che non è moralmente buono e viceversa : “Ut enim, quod turpe est, id, quamvis occultetur, tamen honestum fieri nullo modo potest, sic, quod honestum non est, id utile ut sit effici non potest adversante et repugnante natura” (De officiis, III, 78). In altre parole: “Non vi è profonda felicità senza morale profonda”[2].
Già Sofocle nell' Edipo re aveva negato che l' u{bri" del tiranno o di chiunque altro potesse essere utile:"La prepotenza fa crescere il tiranno, la prepotenza/se è riempita invano di molti orpelli/che non sono opportuni e non convengono (mhde; sumfevronta)/salita su fastigi altissimi/precipita nella necessità scoscesa/dove non si avvale di valido piede (vv. 873-878).
Seneca : Quid est ergo ratio? Naturae imitatio. Quod est summum hominis bonum? Ex naturae voluntate se gerere (Ep. 66., 39).
Bonorum unum propositum est consentire naturae (…) idem de virtutibus dico: omnes naturae adsentiuntur” (Ep 66,. 41)
Di nuovo Tacito
Nel secondo capitolo dell'Agricola Tacito ricorda altri scrittori martiri: Aruleno Rustico[3] ed Erennio Senecione[4], condannati a morte sotto Domiziano poiché avevano lodato Trasea Peto e il marito di sua figlia Fannia, Elvidio Prisco che a sua volta aveva difeso il suocero e dopo essere stato esiliato da Nerone e richiamato da Galba, venne ucciso per ordine di Vespasiano[5].
“Neque in ipsos modo auctores, sed in libros quoque saevitum”, non si incrudelì solo sulle persone ma anche sulle loro opere.
I triumviri capitali ricevettero l’ordine di bruciarle pubblicamente nel foro.
A questa notizia segue il commento dello storiografo: “Scilicet illo igne vocem populi Romani et libertatem senatus et conscientiam generis humani aboleri arbitrabatur, expulsis insuper sapientiae professoribus atque omni bona arte in exilium acta, ne quid usquam honestum occurreret”, evidentemente con quel fuoco credevano di sopprimere la voce del popolo romano e la libertà del senato e la coscienza del genere umano, espulsi per giunta i maestri di filosofia e cacciata in esilio ogni forma di cultura, perché non si incontrasse in alcun luogo alcunché di bello e morale. Consentire la parresìa fa parte dell’honestum.
Quindi l’autore nota che l'estremo della schiavitù è non poter parlare né ascoltare: come l'antica età vide quid ultimum in libertate esset, il culmine della libertà, "ita nos quid in servitute :"adempto per inquisitiones etiam loquendi audiendique commercio" (Agricola, 2), così noi l'estremo della servitù poiché per mezzo di spie fu tolta anche la facoltà di parlare e di ascoltare. Il capitolo si chiude con la considerazione che la memoria tuttavia non può essere abolita né si può sopprimere con la volontà: “Memoriam quoque ipsam cum voce perdidissemus, si tam in nostra potestate esset oblivisci quam tacere”, avremmo perso anche la stessa memoria con la voce, se fosse in nostro potere dimenticare quanto tacere.
Della serie delle matrone romane di altissimo rango, e corrotte, fa parte il ritratto schizzato da Tacito di Poppea Sabina che fu moglie di Rufrio Crispino, quindi di Otone, il futuro imperatore, infine di Nerone che la uccise con un calcio. Ricorda un poco la Sempronia di Sallustio: "cariora semper omnia quam decus atque pudicitia fuit" ( Bellum Catilinae , 25), cui tutto fu sempre più caro del decoro e della pudicizia.
Vediamo la donna imperiale "evoluta" o "perduta", secondo i punti di vista, descritta da Tacito:"Huic mulieri cuncta alia fuere praeter honestum animum. Quippe mater eius, aetatis suae feminas pulchritudine superegressa, gloriam pariter et formam dederat; opes claritudini generis sufficiebant. Sermo comis nec absurdum ingenium: modestiam praeferre et lascivia uti. Rarus in publicum egressus, idque velata parte oris, ne satiaret aspectum, vel quia sic decebat. Famae numquam pepercit, maritos et adulteros non distinguens; neque adfectui suo aut alieno obnoxia, unde utilitas ostenderetur, illuc libidinem transferebat. Igitur agentem eam in matrimonio Rufri Crispini equitis Romani, ex quo filium genuerat, Otho pellexit iuventa ac luxu et quia flagrantissimus in amicitia Neronis habebatur: nec mora quin adulterio matrimonium iungeretur" (Annales, XIII, 45), questa donna ebbe tutto tranne un animo onesto. Certamente sua madre che per la bellezza superava le donne della sua generazione, le aveva trasmesso parimenti rinomanza e un bell'aspetto; le ricchezze erano adeguate alla distinzione della stirpe. La conversazione era piacevole e l'ingegno non insignificante: mostrava pudore e praticava dissolutezza. Rare le uscite in pubblico, e questo dopo essersi velata una parte del volto, per non stancare lo sguardo, oppure perché così le stava bene. Non risparmiò mai la reputazione, non facendo differenza tra mariti e amanti; non fu sottomessa a una passione sua o di un altro: dove si presentasse l'utile, là volgeva la libidine. Perciò mentre era sposata con Rufrio Crispino cavaliere romano, dal quale aveva avuto un figlio, la adescò Otone con la giovinezza e il fasto e poiché era considerato ardentissimo nell'amicizia con Nerone: né ci fu indugio che all'adulterio seguisse il matrimonio.-Famae numquam pepercit (da parco con il dativo): questa affermazione è contraddittoria con la taccia di ipocrisia assegnata da modestiam praeferre et lascivia uti (infiniti storici).
utilitas: è la stessa filosofia di Giasone: pragmatica, senza carità.
In ogni modo la donna, anzi l'umano che non si cura della reputazione ha qualche cosa di positivo siccome dà prova di identità non gregaria rispetto a quanti si lasciano condizionare dalla reputazione. Abbiamo già segnalato donne libere come Saffo e la Nora di Ibsen che hanno dichiarato questa forma di indipendenza. Tra gli uomini abbiamo indicato Socrate del Critone di Platone (44C e sgg.) e il dottor Stockmann di Un nemico del popolo di Ibsen.-
Pesaro 3 settembre 2022 ore 10, 08
giovanni ghiselli
La cortigiana Bacchide è generosa fino all'inverosimile: ha un significato provocatorio il fatto che un personaggio emarginato dalla moralità perbenista sappia superare le convenzioni e obbedire alle leggi dell'umanità:"numquam animum quaesti gratia ad malas adducam partes "(Hecyra, 836), non mi lascerò mai indurre a una cattiva azione per il profitto. Bacchide è stata l’amante di Panfilo prima del matrimonio di lui e forse potrebbe recuperarlo ma si adopera perché i due sposi tornino insieme. Va a casa di Myrrina, la madre della puerpera e le mostra l’anello che le aveva regalato Panfilo dopo averlo strappato alla donna violentata e messa incinta da ubriaco, la stessa Filomena che poi averebbe sposato senza riconoscerla.
Tutti i pregiudizi misogini espressi da Lachete (il padre di Panfilo) sono contraddetti dal comportamento delle donne: Sostrata ( sua moglie e suocera di Filomena), Filomena (la nuora) e Bacchide (la cortigiana).
C'è il rifiuto della misoginia tradizionale (Esiodo, Semonide, Teognide).
L’honestum diverso per i maschi e le femmine in Tacito
"Feminis lugere honestum est, viris meminisse " (Tacito, Germania 27, 1), per le donne è bello piangere, per gli uomini ricordare.
Ricordo la condanna della lagna come ignobile ne Il Gattopardo :" L'ira e la beffa sono signorili; l'elegia, la querimonia, no"(p. 135).
Vediamo dal De officiis di Cicerone che cosa è il decōrum, il prevpon, ciò che si addice a una persona per bene.
Coincide con l’honestum.
Quello che decet è agire prudenter, considerate, con prudenza e ponderazione, mentre dedecet falli, errare, labi lasciarsi andare, decipi (cfr. to deceive).
E’ decorum quello che si compie viriliter animoque magno (I, 94). Del decorum fanno parte moderatio et temperantia, moderazione ed equilibrio. La natura ha assegnato al personaggio uomo le partes constantiae, moderationis, temperantiae, verecundiae, e ci insegna a non trascurarle.
La pulchritudo corporis è data dall’apta
compositio membrorum (I, 98), dalla proporzionata disposizione delle membra, quando inter se omnes partes cum quodam lepōre consentiunt, costituiscono un insieme armonico con una certa piacevolezza. Così lo stile di una persona deve essere caratterizzato ordine et constantia et moderatione dictorum omnium et factorum. Dunque il decorum, quod decēre dicimus, è non violare, non offendere homines. Mancanza di u[bri".
Fondamentale è l’armonia con la natura quam si sequemur ducem, numquam aberrabimus (I, 100). Bisogna approvare motus corporis qui ad naturam apti sunt e pure motus animi qui item ad naturam accomodati sunt, appropriati. L’appetitus, oJrmhv, deve obbedire alla ratio. Non siamo bruti e non dobbiamo vivere “seguendo come bestie l’appetito”[1].
Procediamo con il De officiis. L’argomento del secondo libro è l’utile che spinge tra l’altro alla gloria (sulla quale Cicerone, sempre nel 44, scrisse un trattato, De gloria appunto, purtroppo perduto).
Il terzo libro tratta dell’eventuale conflitto tra honestum e utile, un contrasto che l’autore considera solo apparente in quanto non è possibile, non è nemmeno naturale che possa diventare veramente utile ciò che non è moralmente buono e viceversa : “Ut enim, quod turpe est, id, quamvis occultetur, tamen honestum fieri nullo modo potest, sic, quod honestum non est, id utile ut sit effici non potest adversante et repugnante natura” (De officiis, III, 78). In altre parole: “Non vi è profonda felicità senza morale profonda”[2].
Già Sofocle nell' Edipo re aveva negato che l' u{bri" del tiranno o di chiunque altro potesse essere utile:"La prepotenza fa crescere il tiranno, la prepotenza/se è riempita invano di molti orpelli/che non sono opportuni e non convengono (mhde; sumfevronta)/salita su fastigi altissimi/precipita nella necessità scoscesa/dove non si avvale di valido piede (vv. 873-878).
Seneca : Quid est ergo ratio? Naturae imitatio. Quod est summum hominis bonum? Ex naturae voluntate se gerere (Ep. 66., 39).
Bonorum unum propositum est consentire naturae (…) idem de virtutibus dico: omnes naturae adsentiuntur” (Ep 66,. 41)
Di nuovo Tacito
Nel secondo capitolo dell'Agricola Tacito ricorda altri scrittori martiri: Aruleno Rustico[3] ed Erennio Senecione[4], condannati a morte sotto Domiziano poiché avevano lodato Trasea Peto e il marito di sua figlia Fannia, Elvidio Prisco che a sua volta aveva difeso il suocero e dopo essere stato esiliato da Nerone e richiamato da Galba, venne ucciso per ordine di Vespasiano[5].
“Neque in ipsos modo auctores, sed in libros quoque saevitum”, non si incrudelì solo sulle persone ma anche sulle loro opere.
I triumviri capitali ricevettero l’ordine di bruciarle pubblicamente nel foro.
A questa notizia segue il commento dello storiografo: “Scilicet illo igne vocem populi Romani et libertatem senatus et conscientiam generis humani aboleri arbitrabatur, expulsis insuper sapientiae professoribus atque omni bona arte in exilium acta, ne quid usquam honestum occurreret”, evidentemente con quel fuoco credevano di sopprimere la voce del popolo romano e la libertà del senato e la coscienza del genere umano, espulsi per giunta i maestri di filosofia e cacciata in esilio ogni forma di cultura, perché non si incontrasse in alcun luogo alcunché di bello e morale. Consentire la parresìa fa parte dell’honestum.
Quindi l’autore nota che l'estremo della schiavitù è non poter parlare né ascoltare: come l'antica età vide quid ultimum in libertate esset, il culmine della libertà, "ita nos quid in servitute :"adempto per inquisitiones etiam loquendi audiendique commercio" (Agricola, 2), così noi l'estremo della servitù poiché per mezzo di spie fu tolta anche la facoltà di parlare e di ascoltare. Il capitolo si chiude con la considerazione che la memoria tuttavia non può essere abolita né si può sopprimere con la volontà: “Memoriam quoque ipsam cum voce perdidissemus, si tam in nostra potestate esset oblivisci quam tacere”, avremmo perso anche la stessa memoria con la voce, se fosse in nostro potere dimenticare quanto tacere.
Della serie delle matrone romane di altissimo rango, e corrotte, fa parte il ritratto schizzato da Tacito di Poppea Sabina che fu moglie di Rufrio Crispino, quindi di Otone, il futuro imperatore, infine di Nerone che la uccise con un calcio. Ricorda un poco la Sempronia di Sallustio: "cariora semper omnia quam decus atque pudicitia fuit" ( Bellum Catilinae , 25), cui tutto fu sempre più caro del decoro e della pudicizia.
Vediamo la donna imperiale "evoluta" o "perduta", secondo i punti di vista, descritta da Tacito:"Huic mulieri cuncta alia fuere praeter honestum animum. Quippe mater eius, aetatis suae feminas pulchritudine superegressa, gloriam pariter et formam dederat; opes claritudini generis sufficiebant. Sermo comis nec absurdum ingenium: modestiam praeferre et lascivia uti. Rarus in publicum egressus, idque velata parte oris, ne satiaret aspectum, vel quia sic decebat. Famae numquam pepercit, maritos et adulteros non distinguens; neque adfectui suo aut alieno obnoxia, unde utilitas ostenderetur, illuc libidinem transferebat. Igitur agentem eam in matrimonio Rufri Crispini equitis Romani, ex quo filium genuerat, Otho pellexit iuventa ac luxu et quia flagrantissimus in amicitia Neronis habebatur: nec mora quin adulterio matrimonium iungeretur" (Annales, XIII, 45), questa donna ebbe tutto tranne un animo onesto. Certamente sua madre che per la bellezza superava le donne della sua generazione, le aveva trasmesso parimenti rinomanza e un bell'aspetto; le ricchezze erano adeguate alla distinzione della stirpe. La conversazione era piacevole e l'ingegno non insignificante: mostrava pudore e praticava dissolutezza. Rare le uscite in pubblico, e questo dopo essersi velata una parte del volto, per non stancare lo sguardo, oppure perché così le stava bene. Non risparmiò mai la reputazione, non facendo differenza tra mariti e amanti; non fu sottomessa a una passione sua o di un altro: dove si presentasse l'utile, là volgeva la libidine. Perciò mentre era sposata con Rufrio Crispino cavaliere romano, dal quale aveva avuto un figlio, la adescò Otone con la giovinezza e il fasto e poiché era considerato ardentissimo nell'amicizia con Nerone: né ci fu indugio che all'adulterio seguisse il matrimonio.-Famae numquam pepercit (da parco con il dativo): questa affermazione è contraddittoria con la taccia di ipocrisia assegnata da modestiam praeferre et lascivia uti (infiniti storici).
utilitas: è la stessa filosofia di Giasone: pragmatica, senza carità.
In ogni modo la donna, anzi l'umano che non si cura della reputazione ha qualche cosa di positivo siccome dà prova di identità non gregaria rispetto a quanti si lasciano condizionare dalla reputazione. Abbiamo già segnalato donne libere come Saffo e la Nora di Ibsen che hanno dichiarato questa forma di indipendenza. Tra gli uomini abbiamo indicato Socrate del Critone di Platone (44C e sgg.) e il dottor Stockmann di Un nemico del popolo di Ibsen.-
Pesaro 3 settembre 2022 ore 10, 08
giovanni ghiselli
p. s.
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Questo mese539
Il mese scorso5545
[1] Dante, Purgatorio, XXVI, 84.
[2] R. Musil, L’uomo senza qualità, p. 846.
[3] Fu condannato a morte da Domiziano perché aveva scritto un elogio di Trasea Peto .
[4] Fu condannato a morte da Domiziano perché aveva scritto un elogio di Elvidio Prisco, richiesto dalla vedova Fannia.
[5]
Svetonio, Vita di Vespasiano, 15.
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