martedì 14 dicembre 2021

Plauto Aulularia Atto quarto scena nona. La grandezza dell’avaro nel dolore.

 

Euclione poi Liconide

 

Euclione entra in scena tragicamente: “Perii, interii, occĭdi. Quo curram? Quo non curram? Tene, tene! Quem? Quis?” (713), sono morto, sono andato in malora, sono spacciato. Dove correre, dove non correre? Prendilo, prendilo. Chi va preso e chi prende?

Il vecchio sembra avere perduto l’orientamento e addirittura la sensazione di essere vivo.

Lo dichiara subito dopo: “Nescio, nihil video, caecus eo atque equidem quo eam, aut ubi sim, aut qui sim” (714) non vede niente, non sa dove va, dove si trovi o chi sia.

 

Evidentemente ricavava la propria identità dalla pentola e dall’oro che conteneva.

 

Vedo che oggi la maggior parte degli uomini e delle donne deduce dal denaro la propria identità e quella del prossimo .

 

Poi Euclione si rivolge al pubblico e gli chiede aiuto pregando e ripregando con abbondanza di ripetizioni. Quindi indica uno spettatore e lo interpella non senza una captatio benevolentiae.

 

Quid ais tu?  Tibi credere certum est; nam esse bonum ex voltu conosco” (717),  che cosa dici tu? Credere a te è cosa sicura; infatti capisco dallo sguardo che sei buono.

 

Ho tadotto con lo sguardo perché voltus è la parte del viso che guarda. Os invece è quella che parla.

 

Sentiamo Maurizio Bettini

Le due parti più significative del viso  sono la bocca, os, e gli occhi oculi. Nel voltus determinanti sono gli occhi. "Possiamo quindi ritenere che, quando dicono vultus, i Romani concentrino il senso della faccia non nella parte bassa del viso, come nel caso di os, ma in quella alta. Alla faccia/bocca, sembra dunque contrapporsi una faccia/occhi"[1]. Quindi Bettini cita " il celebre passo in cui Plinio descrive le virtù degli occhi negli animali, e soprattutto nell'uomo". Ne riporto solo le parole essenziali:"Profecto in oculis animus habitat"[2], certamente l'animo abita negli occhi.

"Che siano proprio gli occhi che, nel vultus, svolgono questa funzione di finestra dell'animo, ci è del resto confermato esplicitamente anche da Quintiliano:"In ipso vultu plurimum valent oculi, per quos maxime animus emanat"[3] (nel vultus hanno particolare importanza gli occhi, attraverso i quali l'animo soprattutto si esprime)"[4].

 

 

Poi euclione cambia tono e canzona gli honestiores i cittadini più ragguardevoli vestiti di bianco e seduti nelle prime file, davanti al palcoscenico.

Quid est? Quid ridetis? Novi omnis scio fures esse hic complures- qui vestitu et creta occultant sese atque sedent quasi sint frugi” (718-719)  Che c’è? Perché ridete? Vi  conosco tutti: so che qui ci sono parecchi ladri che si nascondono sotto una toga imbiancata a gesso e stanno seduti come fossero dei galantuomini.

 

Sono gli optimates  che Cicerone identifica con gli abbienti :" Omnes optimates sunt qui neque nocentes sunt, nec natura improbi nec furiosi, nec malis domesticis impediti ", (Pro Sestio, 45) sono ottimati tutti quelli che non fanno del male, né sono malvagi né squilibrati per natura, né impacciati da difficoltà domestiche. 

 

Euclione riprende a lamentarsi con toni tragici dopo l’intermezzo scherzoso: heu me misere miserum, perii! Male perditus, pessime ornatus eo- tantum gemiti et mali mestitiaeque  hic dies mi optulit, famem et pauperiem!  (721-722) , ahimé disgraziatamente disgraziato, sono andato in malora, sono conciato malissimo, questo giorno mi ha portato così tanto pianto e male e afflizione, fame e miseria!

Perditissimus ego sum omnium in terra” (723), sono il più disperato di tutti sulla terra.

 

Euclione arriva alla auutomitizzazione: anche lui è un magnus, anzi un maximus, sia pure nella disgrazia.

 

L’unica ragione della sua vita era custodire l’oro- era un guardiano, un fuvlax- e ha fallito e ora che l’oro non ha più bisogno di lui, egli non ha più bisogno di vivere- “nam quid mi opust vita?” (723).

Anche questo vecchio considera degna di essere vissuta la vita solo se è un’occupazione utile in qualche modo.

 

La mia è servita all’educazione prima di me stesso poi dei miei allievi. E serve ancora.

Sono anche io, come Federigo Borromeo di Manzoni, fin da fanciullo  “persuaso che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto” (I promessi sposi, capitolo XXII)

La formulazione latina di tale principio si trova in un'epistola di Seneca:" Vivit is qui multis usui est, vivit is qui se utitur " (Epist. 60, 4.) vive chi si rende utile a molti, vive chi  impiega se stesso.

 

Egomet me defraudavi -724- ho truffato me stesso animunque meum genium meum- il mio animo il mio spirito (725). E’ quello che si dovrebbe pensare quando si fallisce uno scopo prefissato, piccolo o grande. Ora altri godono della mia rovina. Pati nequeo (726), non ce la faccio a sopportarlo.

Questo avaro che prima era meschino sta diventando grande nel dolore: tw'/ pavqei mavqo".

 

Liconide esce dalla casa dello zio e sente Euclione che piange e si dispera. Teme che abbia scoperto il segreto della figlia che sta partorendo il loro figlio e si sente perduto. Non sa cosa fare: se andare via o affrontarlo Quid agam edepol nescio 731.

 Così si chiude questa nona scena del quarto atto dell’Aulularia.

Bologna 14 dicembre 2021 ore 9, 52

p. s.

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[1] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 328.

[2] Plinio, Naturalis historia, 11, 145.

[3] Quintiliano, Insitutio oratoria, 11, 3, 75.

[4] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 329.

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