lunedì 13 dicembre 2021

Plauto Aulularia. Atto quarto scena settima. Il dolore del parto.


 

 

Liconide (nipote di Megadoro), Eunomia (sorella di Megadoro  e madre di Liconide), la voce di Fedria che partorisce (figlia di Euclione)

 

Liconide esce di casa con la madre cui ha detto di essere innamorato di Feria dopo averla messa in cinta da ubriaco e la prega di parlarne con il Magadoro, il fratello di lei e lo zio di lui.

fac mentionem cum avunculo , mater mea” (684)

 

La storia della violenza dell’ubriaco su una ragazza che poi sposerà si trova già nel Dyskolos di Menandro dove tale violenza porta prima pavqo"  poi mavqo", come vedremo.

 

La madre è molto comprensiva con il figlio e promette di intercedere con il fratello. Lo fa per amore di madre e per rendere giustizia alla ragazza violentata: “et causa iusta est, siquidem ita est ut praedicass- te eam compressisse vinolentum virginem” (866-867).

Liconide replica: “Egŏne ut te avorsum mentiar, mater mea?”.

 

Si tratta dunque di una famiglia di persone non cattive, a parte il comprimere del ragazzo vinolentus che è un atto delinquenziale, non una ragazzata.

 

Dall’interno si sente la voce straziata della ragazza in preda alle doglie del parto: “Perii, mea nutrix! obsecro te,  uterum dolet,-Iuno Lucina, tuam fidem!”

Fedria chiede aiuto alla nutrice e protezione alla dea che aiuta le partorienti.

 

 

La sofferenza del parto.

La Medea di Euripide  che il parto può essere più tremendo della guerra.

Dicono di noi che viviamo una vita senza pericoli

 in casa, mentre loro combattono con la lancia,

 pensando male: poiché io tre volte accanto a uno scudo

 preferirei stare che partorire una volta sola.

 ( Medea, vv, 248-251)

 

 Medea risponde che preferisce la guerra al parto  inaugurando un tovpo" che arriva alle soldatesse di oggi ed è  passato attraverso Ennio (239-169 a. C.) il quale fa dire alla sua Medea exul :"nam ter sub armis malim vitam cernere/quam semel parere, infatti preferirei decidere la vita sotto le armi che partorire una volta sola.

 

 Le sofferenze del parto sono ricordate nell' Elettra di Sofocle da Clitennestra quando tenta di giustificarsi per il tradimento e l'assassinio del marito il quale sacrificò Ifigenia dopo averla seminata senza avere passato il travaglio della madre quando la partorì:"oujk i[son kamw;n[1] ejmoi;-luvph", o{t' e[speir' , w{sper hJ tivktous' ejgwv" (Elettra, vv. 531-532).

 

Nelle Fenicie di Euripide la Corifea commenta la pena di Giocasta per Polinice dicendo:"deino;n gunaixi;n aiJ di' wjdivnwn gonaiv,-kai; filovteknovn pw" pa'n gunaikei'on gevno"" (vv. 355-356), sono terribili per le donne i parti attraverso le doglie, e tutta la razza femminile è amante dei figli.

Giocasta lo è stata anche troppo (di Edipo); Medea evidentemente fa eccezione.

 

Nell' Ifigenia in Aulide la Corifea comprende la pena di Clitennestra per la figliola  ricordando quale prova terribile sia il parto:"deino;n to; tivktein kai; fevrei fivltron mevga-pa'sivn te koino;n w{sq' uJperkavmnein tevknwn" (vv. 917-918), tremendo è partorire e comporta una grande magia comune a tutte, tanto da lottare per i figli. 

 

Nei Memorabili di Senofonte, Socrate, ricordando al figlio Lamprocle i benefici dei genitori alle proprie creature e il loro dovere gratitudine, fa presente che il nascimento è rischio di vita della madre:" hJ de; gunh; uJpodexamevnh te fevrei to; fortivon tou'to, barunomevnh te kai; kinduneuvousa peri; tou' bivou" (II, 2, 5), la donna dopo avere concepito porta questo peso, aggravata e con rischio della vita.       

 

In Anna Karenina c'è  il parto doloroso della giovane moglie di Levin il quale partecipa, mentalmente, alla sua sofferenza, forse ingrandendola :" La faccia di Kitty non c'era più. Al posto dov'era prima, c'era qualcosa di terribile e per l'aspetto di tensione e per il suono che di là usciva. Egli lasciò cadere la testa sul legno del letto, sentendo che il cuore gli si spezzava. L'orribile urlo non taceva, si era fatto ancora più orribile, e, come se fosse arrivato all'ultimo limite dell'orrore, a un tratto si spense" (L. Tolstoj, Anna Karenina (del 1877), p. 720)

 

 

Rachele, moglie di Giacobbe e madre di Giuseppe, soffrì e morì di parto nel dare alla luce la seconda creatura: “Quando il dolore travalicò ogni limite umano, ella gridò e fu un gridare terribilmente selvaggio, che non si accordava con il suo volto e non si addiceva alla piccola Rachele. In quell’ora, infatti, in cui ancora una volta fu giorno, ella non era più in sé, non era più lei, lo si udiva da quel suo orrendo muggito: non era più lei, la sua era una voce completamente estranea (…) Erano doglie spasmodiche che non affrettavano l’opera, ma serravano soltanto in una morsa di tormenti infernali quella povera santa, così che la maschera del suo volto contratta nell’urlo era divenuta cianotica e le sue dita artigliavano l’aria (…) E poi da Rachele si levò un ultimo grido, come l’esplosione estrema di una furia demoniaca, quale non si può lanciare una seconda volta senza morire, quale non si può udire una seconda volta senza perdere la ragione (…) il figlio di Giacobbe era uscito, il suo undicesimo e il suo primo, venuto fuori dall’oscuro grembo insanguinato della vita, Dumuzi-Absu, il vero figlio dell’abisso”  (T. Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, Le storie di Giacobbe, pp. 413- 414)

 

Ora torniamo a Plauto.

Liconide  fa notare a Eunomia le grida della ragazza: un fatto che vale più delle parole. “Tibi rem potiorem verbo: clamat, partŭrit” (693).

 

Questo è un grande insegnamento: la parola vale molto fino a quando non è smentita dai fatti: dopo non vale più niente.

Penso alle troppe parole di tanti politici e non pochi “scienziati”, le cui immaginazioni  nutrite dal lucro sono stare  ripetutamente sbugiardate dalla “realtà effettuale della cosa”.

 

Eunomia invita il figlio a seguirla nella casa dello zio. Cercherà di impetrare dal fratello quanto il nipote desidera

Eunomia entra e il Liconide la segue.

Il giovane si chiede Strobīlum ubi sit : gli aveva detto di aspettarlo lì davanti alla casa di Megadoro.

Del resto non è irato con il suo servo: “Si mihi dat operam, me illi irasci iniurum est- (699).

Questa è l’eterna giustizia del padrone sul servo e più in generale del forte sul debole. Non è giusto adirarsi con il sottoposto finché questo dat operam, si dà da fare in favore di chi lo comanda.

 

Bologna 13 dicembre 2021 ore 10, 08

giovanni ghiselli

 

p. s.

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[1] Participio aoristo di kavmnw, "fatico", "soffro".

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