Euclione –Strobilo.
L’avaro esce dal tempio trascinando Strobilo per un orecchio
“I foras lumbrice, qui sub terra erepsisti modo,
qui modo nusquam comparebas; nunc cum compāres peris,
ego edepol te, praestigiator, miseris iam accipiam modis”. (628-630), vieni fuori, lombrico, che poco fa hai strisciato sotto terra tu che poco fa non apparivi in nessun luogo: ora quando appari, crepi.
Per Polluce io ti accoglierò facendo strame di te, impostore.
Euclione entra in scena con l’aggressività del bullo stagionato e pure irriflessivo come un ragazzo. Strobilo di fatto è un ladro e proprio per questo il vecchio non dovrebbe scoprire le sue carte. Del resto promettere maltrattamenti invece che infliggerli è segno di debolezza.
Strobilo risponde infatti senza dargli troppo peso, cioè manifestandogli sovrano disprezzo, come quando nelle baruffe televisive uno dice all’avversario “stai calmo”: quae te mala crux agitat? 631, quale pena ti mette in croce?
Quid tibi mecum est commerci , senex?, che hai a che fare tu con me, vecchio?
Poi pero il senex viene alle mani e lo schiavo gli fa: “quid me adflictas?, quid me raptus? Qua me causa verberas? 632, perché mi colpisci? Perché mi trascini? Per quale motivo bastoni?
Non dovrebbero essere botte forti altrimenti Strobilo non avrebbe perso tempo con queste domande.
Euclione risponde: “Verberabilissime, etiam rogitas, non fur sed trifur? (633; cfr. v. 326 Tu trium litterarum homo- Me vituperas?) fur ),
bastonabilissimo, me lo chiedi anche, non ladro ma tre volte ladro.
Bastonabilissimo l’ho scelto ricordando il V capitolo del romanzo di Manzoni: “un messo il quale ardisce di porre in mano a un cavaliere una sfida, senza avergliene chiesta licenza, è un temerario, violabile, violabilissimo, bastonabile, bastonabilissimo” (I promessi sposi). Probabilmente anche Manzoni aveva presente il superlativo verberabilissime e lo fa dire allo “spensierato” conte Attilio.
Il servo domanda che cosa abbia rubato, e il vecchio per non scoprirsi non glielo dice. Gli chiede solo la restituzione. Spera che il sospettato si scopra. Ma Strobilo rimane coperto: “Quid tibi vis reddam?”, che cosa vuoi che ti renda?
Euclione insiste con rogas? Me lo domandi? Il servo è già giudicato senza nessuna prova e non deve fingere di non sapere. I due giocano una partita a scacchi con le parole simulando e dissimulando-cuius rei simulatores ac dissimulatores-
Strobilo proclama la propria innocenza: “Nihil equidem tibi abstuli” 635 quello che dice è vero anche se non è tutta la verità.
Pare di assistere a certi dibattiti televisivi.
Euclione non tiene conto di queste parole e insiste a dire che vuole indietro la sua roba. In siffatte discussioni l’uno non ascolta l’altro o comunque non tiene conto delle ragioni opposte alle proprie.
I due dicono un paio di parole a testa ripetendo uno l’accusa, l’altro la propria estraneità.
Euclione continua a non nominare la pentola: “pone hoc sis”, 638, metti giù questa cosa per favore. Strobilo chiede di nominare la cosa quidqid est suo nomine (639) qualunque essa sia con il suo nome.
Mi viene in mente quando il PCI voleva rinnovarsi chiamando la novità appunto “la cosa” e Moretti chiedeva ai dirigenti di dire qualcosa di sinistra. Quando si resta sul generico in ogni campo significa che mancano conoscenze, competenze e idee chiare.
Quando sento un relatore magari professore presentato come esperto che menziona titoli di libri e nomi di autori senza citare una frase precisa, penso che sia un cialtrone. Succede spesso.
Anticipazione del prossimo post sull’Aulularia di Plauto
Verità- ajlhvqeia, utile- sumfevron e kalokajgaqiva.
Euclione nasconde la pentola con l’oro: i tecnocrati e gli aspiranti tecnocrati di oggi vogliono celare la verità della loro ignoranza camuffandola da saccenteria, ma l’ ajlhvqeia prima o poi viene fuori siccome è “non latenza”.
La tendenza di oggi è nascondere l’ignoranza della lingua sotto gli acronimi, la non conoscenza della letteratura e della filosofia menzionando autori e libri senza averli letti, l’indifferenza per il bene comune spacciando come tale il proprio “particulare”; il disprezzo dell’umanesimo che è amore dell’umanità celebrando l’impero della tecnologia lodata anche nei suoi aspetti disumani.
La loro teocrazia è quella dell’utile-sumfevron-.
La kalokajgaqiva per tali uomini e donne non è un valore se non quando riescono a mercificarla.
Assimilo costoro ai già menzionati idolatri: “Gli idoli dei popoli sono argento e oro, opera delle mani dell'uomo. Hanno bocca e non parlano; hanno occhi e non vedono; hanno orecchi e non odono; non c'è respiro nella loro bocca. Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida" (Antico Testamento, Salmi, 135, 15-18).
Ma torniamo alla commedia di Plauto
Strobilo assicura che non ha toccato niente, Euclione gli fa: ostende huc manus (641), mostra le mani sotto i miei occhi.
Il servo le apre entrambe ma all’avaro sospettosissimo non bastano: “video, age, ostende etiam tertiam” (642).
Neanche fosse l’ecatonchiro Briareo.
Strobilo dice tra sé che il vecchio è completamente pazzo.
Quindi domanda al suo inquisitore se non gli stia facendo un torto: “facisne mihi iniuriam an non?’ (643).
Euclione rincara la dose come fanno tutti i persecutori quando si chiede loro ragione della loro prepotenza.
Gli dice che l’unico torto fatto a Strobilo è quello di non impiccarlo, atque id quoque iam fiet, nisi fatēre” (644) e anche questo avverrà presto, se non confessi.
Con certa gente l’unica ragione è quella della forza.
Lo capisce don Abbondio: “Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione: si tratta di forza” Manzoni, I promessi sposi, capitolo II)
Lo affermano gli Ateniesi in procinto di massacrare gli abitanti della piccola isola di Melo: “ " riteniamo infatti che la divinità, secondo la nostra opinione, e l'umanità in modo evidente, in ogni occasione, per necessità di natura, dove è più forte, comandi". Questa sarebbe un'eterna legge di natura:
"noi non abbiamo imposto questa legge né l'abbiamo utilizzata per primi quando vigeva, ma avendola ricevuta che c'era, e pronti a lasciarla rimanere per sempre, ce ne avvaliamo, sapendo che anche voi e altri, se vi trovaste nella stessa condizione di potenza in cui siamo noi, fareste lo stesso". (Tucidide, V, 105, 2).
Credo che anche se il nostro scopo è fare del bene, aiutare chi ne ha bisogno, sia necessario acquisire del potere.
Euclione continua ad accusare e per essere certo che il servo non ha rubato, lo tasta e lo manipola in ogni modo. Gli fa aprire di nuovo le mani e lo incalza perché continui a giustificarsi.
Ho imparato a non giustificarmi quando sono certo di non avere torto. Farlo, significa sottomettersi al proprio calunniatore e persecutore.
Conclusa la rinnovata ispezione, il maniaco dice: “iam scrutari mitto: redde huc”, snetto di frugarti ormai. Rendimela qua.
E il servo “quid reddam?” (652).
Ma come dicevo, con certi matti prepotenti bisogna chiudere il dialogo.
Infatti Euclione nega l’evidenza dicendo certe habes.
E Strobili: “habeo ego? Quid habeo?” (652)
Euclione non ha potuto trovare la pentola sul servo che tuttavia deve essere accusato, quindi l’imputazione deve diventare generica: “Id meum quidquid habes, redde” (653).
Abbiamo visto diversi imputati inocenti venire condannati in questo modo. Avviene tutte le volte che la ferocia dell’eterno Caifas ripete: “expedit vobis ut unus moriatur homo pro populo,et non tota gente pereat” (N. T. Giovanni, 11, 50). In greco expedit fa sumfevrei. E’ il sumfevron di cui abbiamo detto sopra.
Penso all’assassinio di Aldo Moro commesso dai sicari e lasciato commettere dallo Stato.
Strobilo ricorda al vecchio pazzo che non ha mancato di frugarlo dappertutto. A questo punto Euclione pensa a un complice e chiede di lui, ma poi non ha altri argomenti e lascia andare via l’inquisito. Il quale gli manda un accidente: “Iuppiter te dique perdant! ” (658). Bel ringraziamento fa Euclione, poi annuncia che entrerà nel tempio e strozzerà il complice interstringam gulam (659)
Infine caccia in malo modo Strobilo: “fugin hinc ab oculis? Abin hinc an non?”
Il servo non vuole certo rimanere, come Euclione vuole fare credere, e conclude cave sis te videam (661) non farti più vedere per favore.
giovanni ghiselli
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