Liconide replica alla attactam (da attingo-metto le mani su) del verso precedente dicendo: “Ergo quia sum tangere ausus, haud causificor quin eam-ego habeam potissimun” (755-756), allora siccome ho osato toccala, non cerco scuse per non tenerla nel modo migliore.
C’è sempre il doppio senso di eam nella testa del giovane innamorato- la ragazza- e in quella del vecchio spilorcio-la pentola.
L’avaro ribadisce la propria opposizione al furto: “Tu habeas me invito meam?” , tu terresti contro la mia volontà quella che è mia?
Il giovane dice al vecchio di non volerla te invito, contro il tuo volere, sed meam illam oportere arbitror, ma penso che quella sia opportunamente mia.
Una ragazza moderna replicherebbe non sono tua né sua dicendo: “io sono mia”. E farebbe bene.
Euclione minaccia Liconide di trascinarlo dal pretore se non resttituisce…
Il giovane lo interrompe: “quid tibi ego referam? 760, che cosa dovrei restituirti?
Segue uno scambio di battute sempre male intese per via dell’equivoco
Finalmente Euclione nomina la pentola fatale: aulam auri, inquam, te reposco, quam tu confessu’s mihi –te abstulisse-, dico che reclamo da te la pentola dell’oro che tu hai confessato di avermi rubata.
Si noti come questo latino parlato sia meno lontano dall’italiano rispetto a quello paludato del Cicerone “filosofo” o a quello molto elaborato e limato di Orazio. Questa lingua colloquiale si ritrova nel Satyricon. Un linguaggio che suggerisce le actiones, le mosse dell’attore, quasi sermo corporis, quasi il linguaggio del corpo (cfr. Cicerone, De oratore, 3, 22).
Liconide respinge decisamente l’accusa: non sa di che cosa il vecchio stia parlando: “neque ego aurum neque istaec aula quae siet scio nec novi” (765).
Euclione insiste rinfacciando a Euclione che ha portato via la pentola dal bosco di Silvano. Disperato com’è, gli promette la metà dell’oro se restituirà l’ aula con il tesoro. Gli promette anche l’impunità: Tam etsi fur mihi’ s, molestus non ero. I vero, refer (768) Sebbene tu sia un ladro del fatto mio, non ti darò noie. Avanti, dai, restituiscimela.
Il giovane risponde che la faccenda di cui è necessario occuparsi è tutt’altra e vorrebbe parlarne.
Euclione fa giurare al ragazzo su Giove stesso che non è stato lui a rubare la pentola.
Finalmente Euclione gli crede e lo lascia parlare di quanto preme a lui: “sat habeo: age nunc loquere quidvis (777) mi basta: avanti, ora puoi dire quello che vuoi.
Liconide prende il discorso un po’ da lontano nominando lo zio Megadoro e il padre Antimaco.
Euclione allora gli domanda direttamente che cosa voglia.
Il giovane comincia con timidezza e un certo imbarazzo: filiam ex te tu habes (781).
La ripetizione del pronome in poliptoto vuole dire al vecchio che la ragazza è prima di tutto del padre.
Liconide procede cautamente: “Eam tu despondisti, opinor, meo avuncolo?”, mi sbaglio ho l’hai promessa a mio zio?
Euclione non può che confermare.
Allora il ragazzo annuncia che lo zio ha rinunciato.
Il vecchio si inquieta per questo voltafaccia di Metrodoro che si era impegnato. Oltretutto nel trambusto ha perduto l’oro per colpa del mancato genero e questo non può dimenticarlo: “Quem propter hodie auri tantum perdidi infelix, miser” (786)
Licone lo invita a non dire parole male ominose, anzi pronunci quelle di buon augurio per se stesso e per la figlia: “Bono animo es, et benedice. Nunc quae res tibi et gnatae tuae-bene felicieterque vortat: ita di faxint, inquito”
Euclione inaspettatamente ma opportunamente obbedisce. Ita di faciant!
Licone ripete la formula che augura il bene Et mihi ita di faciant! Audi nunciam (789). Ora ascolta.
Continua . Ora c’è un intervallo senza pubblicità
giovanni ghiselli
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