sabato 25 dicembre 2021

La storia di Päivi. 4


Il coro dei reduci da una guerra persa.


Dirigeva il coro di reduci vinti, da sopra una seggiola zoppa, Antonella, una ragazza romana, intelligente e carina sebbene claudicante anche lei. Era venuta a Debrecen per la prima volta e, siccome tutte le cose e le persone ritornano, non solo eternamente nel cosmo, ma anche in una rapida, precipitosa vita mortale, la incontreremo di nuovo sei anni più tardi, nella primavera del 1980, a Roma, in casa sua, dove mi ospiterà con Ifigenia.

Ma questo devo raccontarlo più avanti.
Suonava il pianoforte, e in veste di ierofante guidava il nostro coro di confratelli e compagni comunisti delusi, un austriaco cieco, o non vedente come si dice adesso ipocritamente. Fatto sta che, mentre suonava, quell’uomo muoveva furiosamente gli inutili occhi, scuoteva la testa grossa e ricciuta, sbuffava da froge enormemente dilatate e ogni tanto apriva le fauci, facendo uscire dalla chiostra dei denti e dalle tumide labbra, una lingua piena di brame. Credo di non togliergli niente ricordandolo come appariva.

 Era comunque un bravo suonatore di piano e una cara persona.

 Anzi, mi fece pure pensare a opere d’arte: a diversi quadri di Picasso e al prato della sventura di Empedocle, l’Agrigentino morto in odore di santità.
In quel nostro cantare così accompagnato e diretto dai movimenti della testa del pianista, c’era qualcosa di stanco e penoso: un poco perché la fede politica cui inneggiavamo si era affievolita nelle coscienze, e ancora di più poiché sentivamo che una fase dell’esistenza, i venti anni, le brevi avventure amorose, le bevute con chiacchiere prolungate fino alle luci dell’alba, le ragazzate goliardiche, stava finendo, e bisognava trovare qualche cosa di nuovo da fare, di cui emozionarci o appassionarci, se non volevamo morire.

 

L’apparizione

 

“Facciamo tesoro di sentimenti cari e soavi i quali ci ridestino per tutti gli anni, che ancora forse tristi e perseguitati ci avanzano, la memoria che non siamo sempre vissuti nel dolore” (Foscolo, Ultime lettere di Iacopo Ortis, 12 novembre  1797.

 
Avevamo appena finito di cantare "Bandiera rossa" e “Bella ciao” con euforia forzata, quando vidi entrare nell’ombroso cortile una giovane donna dai capelli rossi, tanto lunghi che le arrivavano al seno: sul volto serio, da persona abituata a pensare, aveva grandi occhiali da vista; sul corpo ben fatto portava una giacca e dei pantaloni di velluto rosso con negligenza elegante. Poi, indizio non senza significato per me in quel tempo e in quel luogo, aveva l’aria da finnica, ossia l’incarnato straordinariamente bianco che risaltava sotto il rosso delle chiome e degli indumenti, e per giunta aveva gli occhi meravigliosamente obliqui, pieni di forza espressiva.

La finnica rossa aveva per giunta natiche e cosce floride che mi fecero pensare alle gioie del sesso, e pure un bel seno fiorente la cui fresca magnificenza mi costrinse a mormorare abbacinato da tanta opulenza: “Dio mio, come la voglio!”.

Duravo fatica a trattenere la lingua che già guizzava pronta a parlare, a suggere, a proporre la mia persona quale amante intelligente e festoso. Il tempo dei lunghi corteggiamenti era passato. La caviglia snella e il ginocchio scalpitavano impazienti verso la meta agognata. Mi sembrava di sentire il profumo di quella carne di femmina umana dotata di tutto. Mi scrollavo di dosso gli acciacchi della tristezza e degli anni passati non senza spreco di tempo.
Le finlandesi conservano molto della loro facies asiatica originaria: quelle non troppo germanizzate dalla contaminatio con gli svedesi, hanno più l’aria delle orientali che delle nordiche. Fatto sta che tale esotismo contribuisce al mistero e al fascino di tali creature. Nell’aspetto, nel modo di camminare, nello stile di questa ragazza c’era  per giunta  qualcosa di intelligente e di nobile che mi attirava con forza. Aveva una forma piena di carattere.

Senza averla ancora ascoltata parlare sentivo però che questa donna significava molto, quasi tutto, per me e per la mia vita futura.  Intuivo che se avessi fatto l’amore con lei, avrei indagato me stesso, entrando in me stesso

Non mi sbagliavo: se sono diventato uno studioso serio e utile a molti umani lo devo a lei, al mese passato ascoltandola, parlandole e facendo l’amore con lei. 
Mi sentivo attirato come può esserlo un giovane uomo dal proprio destino. Mi chiesi subito se, e come, avrei potuto farmi contraccambiare.

Bologna 25 dicembre 2021 ore 11, 45.

 

giovanni ghiselli

 

p. s.

 

Sto raccontando un altro Natale per me, un Natale in luglio quando vidi questa rossa vestita di rosso come guardo il sole quando esce dal mare Adriatico mentre pedalo in direzione di Ancona per imbarcarmi verso la Grecia. E mi arride la vita con tutti i suoi sorrisi più belli.

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