Il coro dei reduci da una guerra persa.
Dirigeva il coro di reduci vinti, da sopra una seggiola zoppa, Antonella, una
ragazza romana, intelligente e carina sebbene claudicante anche lei. Era venuta
a Debrecen per la prima volta e, siccome tutte le cose e le persone ritornano,
non solo eternamente nel cosmo, ma anche in una rapida, precipitosa vita
mortale, la incontreremo di nuovo sei anni più tardi, nella primavera del 1980,
a Roma, in casa sua, dove mi ospiterà con Ifigenia.
Ma questo devo
raccontarlo più avanti.
Suonava il pianoforte, e in veste di ierofante guidava il nostro coro di confratelli
e compagni comunisti delusi, un austriaco cieco, o non vedente come si dice
adesso ipocritamente. Fatto sta che, mentre suonava, quell’uomo muoveva
furiosamente gli inutili occhi, scuoteva la testa grossa e ricciuta, sbuffava
da froge enormemente dilatate e ogni tanto apriva le fauci, facendo uscire
dalla chiostra dei denti e dalle tumide labbra, una lingua piena di brame.
Credo di non togliergli niente ricordandolo come appariva.
Era comunque un bravo suonatore di piano e una cara persona.
Anzi, mi fece pure pensare a opere d’arte: a
diversi quadri di Picasso e al prato della sventura di Empedocle, l’Agrigentino
morto in odore di santità.
In quel nostro cantare così accompagnato e diretto dai movimenti della testa
del pianista, c’era qualcosa di stanco e penoso: un poco perché la fede
politica cui inneggiavamo si era affievolita nelle coscienze, e ancora di più
poiché sentivamo che una fase dell’esistenza, i venti anni, le brevi avventure
amorose, le bevute con chiacchiere prolungate fino alle luci dell’alba, le
ragazzate goliardiche, stava finendo, e bisognava trovare qualche cosa di nuovo
da fare, di cui emozionarci o appassionarci, se non volevamo morire.
L’apparizione
“Facciamo tesoro di sentimenti cari e soavi i quali ci ridestino per tutti gli anni, che ancora forse tristi e perseguitati ci avanzano, la memoria che non siamo sempre vissuti nel dolore” (Foscolo, Ultime lettere di Iacopo Ortis, 12 novembre 1797.
Avevamo appena finito di cantare "Bandiera rossa" e “Bella ciao” con
euforia forzata, quando vidi entrare nell’ombroso cortile una giovane donna dai
capelli rossi, tanto lunghi che le arrivavano al seno: sul volto serio, da
persona abituata a pensare, aveva grandi occhiali da vista; sul corpo ben fatto
portava una giacca e dei pantaloni di velluto rosso con negligenza elegante.
Poi, indizio non senza significato per me in quel tempo e in quel luogo, aveva
l’aria da finnica, ossia l’incarnato straordinariamente bianco che risaltava
sotto il rosso delle chiome e degli indumenti, e per giunta aveva gli occhi
meravigliosamente obliqui, pieni di forza espressiva.
La finnica rossa aveva per giunta natiche e cosce floride che mi fecero pensare alle gioie del sesso, e pure un bel seno fiorente la cui fresca magnificenza mi costrinse a mormorare abbacinato da tanta opulenza: “Dio mio, come la voglio!”.
Duravo fatica a
trattenere la lingua che già guizzava pronta a parlare, a suggere, a proporre
la mia persona quale amante intelligente e festoso. Il tempo dei lunghi
corteggiamenti era passato. La caviglia snella e il ginocchio scalpitavano
impazienti verso la meta agognata. Mi sembrava di sentire il profumo di quella
carne di femmina umana dotata di tutto. Mi scrollavo di dosso gli acciacchi
della tristezza e degli anni passati non senza spreco di tempo.
Le finlandesi conservano molto della loro facies asiatica
originaria: quelle non troppo germanizzate dalla contaminatio con gli
svedesi, hanno più l’aria delle orientali che delle nordiche. Fatto sta che
tale esotismo contribuisce al mistero e al fascino di tali creature.
Nell’aspetto, nel modo di camminare, nello stile di questa ragazza c’era per giunta qualcosa di intelligente e di nobile che mi
attirava con forza. Aveva una forma piena di carattere.
Senza averla ancora ascoltata parlare sentivo però che questa donna significava molto, quasi tutto, per me e per la mia vita futura. Intuivo che se avessi fatto l’amore con lei, avrei indagato me stesso, entrando in me stesso
Non mi sbagliavo: se
sono diventato uno studioso serio e utile a molti umani lo devo a lei, al mese
passato ascoltandola, parlandole e facendo l’amore con lei.
Mi sentivo attirato come può esserlo un giovane uomo dal proprio destino. Mi
chiesi subito se, e come, avrei potuto farmi contraccambiare.
Bologna 25 dicembre 2021 ore 11, 45.
giovanni ghiselli
p. s.
Sto raccontando un altro Natale per me, un Natale in
luglio quando vidi questa rossa vestita di rosso come guardo il sole quando
esce dal mare Adriatico mentre pedalo in direzione di Ancona per imbarcarmi verso
la Grecia. E mi arride la vita con tutti i suoi sorrisi più belli.
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