NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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giovedì 2 dicembre 2021

Rovigo VII parte. I caratteri,


 

Vediamo invece quanto prescrive Aristotele riguardo ai caratteri (peri; de; ta; h[qh, 1454a, 16 ).

“Per il filosofo il carattere è la disposizione alla virtù o al vizio quale si rivela nella  proairesis, ossia nell’intenzione etica che il soggetto, attraverso l’azione o le parole, consapevolmente esprime quando si trova ad affrontare scelte significative (Poet. 6, 1450 b 8 s.): “carattere è ciò che rivela quale sia il proponimento (perciò non hanno carattere quei discorsi da cui manca ogni riferimento a ciò che il parlante si propone o vuole evitare)”[1].

 

Insomma il carattere di una persona è dato dal suo orientamento, dalla sua preferenza, dal suo modo di scegliere (proaivresi~ appunto).

I caratteri devono innanzitutto essere buoni (crhstav). Anche la donna e lo schiavo, ammette generosamente il filosofo, possono esserlo, benché, precisa poi, la donna sia una creatura inferiore (cei'ron 1454a, 21) e lo schiavo una cosa di poco conto (fau'lon).

“Aristotele è, al contrario di Platone, un cultore del senso comune anche se, come lui, è un tantino antidemocratico. Ed è forse proprio il suo senso comune quello che più annebbia la sua visione”[2].

Il senso comune è quasi sempre reazionario

 

La seconda qualità del carattere è che sia appropriato. Alla donna per esempio non si addice essere tanto virile e terribile (oujc aJrmovtton gunaiki; ou{tw~ ajndreivan h] deinh;n ei\nai, 1454a, 23).

Quanto all’essere deinhv della donna, Medea impersona queste terribilità: così la presenta la Nutrice nel Prologo della tragedia: “ Siccome è tremenda (deinh; gavr): nessuno certo che abbia stretto/odio con lei, intonerà facilmente il canto della vittoria (Medea, vv. 44-45). 

 

La terza qualità del carattere è la somiglianza (to; o{moion, 1454a, 24). Aristotele non dice a cosa e non fa esempi; sarà la verosimiglianza, ossia la somiglianza al vero, secondo il principio della mimesi.

O forse piuttosto la somiglianza a se stesso senza la quale la persona è sconcia-ajeikhv"- cfr. il mito di Er nella Repubblica di Platone.

Quindi viene la coerenza (to; oJmalovn, 1454a, 26).

Aristotele procede indicando modelli negativi: Menelao nell'Oreste[3] di Euripide costituisce un esempio di malvagità di carattere non necessaria, mentre la ragazza protagonista dell’ Ifigenia in Aulide[4] è un paradigma di incoerenza (tou' de; ajnwmavlou, 1454a, 31).

Tornerò su questi aspetti del dramma, ma intanto chiarisco che Euripide è incline a caricare di vizi e crudeltà i personaggi identificabili come “Spartani" nelle tragedie rappresentate durante gli anni della Guerra del Peloponneso[5], con lo scopo di dare un'immagine negativa della città nemica di Atene. 

Quanto a Ifigenia, quella "che supplica (hJ iJketeuvousa) non assomiglia per niente alla successiva" (1454a, 32).

Nella tragedia di Euripide la fanciulla prima piange e prega il padre suo di risparmiarla (Ifigenia in Aulide, vv. 1211-1252) arrivando a dire, come Achille nell’Ade, che vivere male è meglio che morire bene (kakw'~ zh'n krei'sson h] kalw'~ qanei'n, v. 1252)[6],  poi cambia idea e, con tutta l’anima nobile della quale Achille infatti si innamora (gennaiva ga;r ei\, v. 1411), offre il suo corpo per l’Ellade: “ divdwmi sw'ma toujmo;n    jEllavdi”, v. 1397.     

“In realtà è tutta la tragedia nel suo complesso che sembra voler esplorare il tema della mutevolezza psichica. Nella prima parte del dramma, infatti, a cambiare due volte parere circa l’alternativa di fronte a cui sono posti-o rinunciare alla guerra contro Troia o sacrificare Ifigenia-sono addirittura i due capi della spedizione, Agamennone e Menelao, che in maniera quasi paradossale a turno sostengono tesi speculari ed opposte”[7].

In effetti Euripide ama raffigurare slanci repentini e inopinati di giovani mossi da impulsi generosi e irrazionali. Ma Aristotele pretende che l'rrazionale (a[logon, 1454b, 5) rimanga fuori dall’azione tragedica come nell'Edipo di Sofocle. La Medea di Euripide viene criticata poiché la soluzione del racconto non avviene per effetto del racconto stesso ma attraverso una macchina (ajpo; mhcanh'~, 1454b, 2).

 Contro questa pretesa di ridurre in termini di logica il dramma dove coesistono apollineo e dionisiaco in una coincidentia oppositorum, insorgerà Nietzsche, come vedremo.

Cfr. anche lo qumov" di Medea che dice. “Kai; manqavnw me;n oi|a  dra'n mevllw kakav,-qumo;" de; kreivsswn tw'n ejmw'n bouleumavtwn,-o{sper megivstwn ai[tio" kakw'n brotoi'""(Euripide, Medea vv. 1078-1080), capisco quale abominio sto per compiere, ma più forte dei miei ragionamenti è la passione, che è causa dei mali più grandi per i mortali". 

O anche quanto dice Fedra nell’Ippolito di Euripide:"bisogna considerare questo:/il bene lo conosciamo e riconosciamo,/ma non lo costruiamo nella fatica (oujk ejkponou'men: il bene topicamente costa povno", fatica), alcuni per infingardaggine (ajrgiva" u{po),/ alcuni anteponendogli qualche altro piacere./ E  sono molti i piaceri della vita:/lunghe conversazioni, l'ozio, diletto cattivo[8], (scolhv, terpno;n kakovn) l'irrisolutezza (aijdwv" te, una forma brutta di aijdwv" ) "(vv.379-385).

 

 

Interessante è anche la condanna del mostruoso, to;  teratw'de~ ( 1453b, 9): coloro che lo mettono al posto del legittimo pauroso ( to; foberovn) , "non hanno nulla in comune con la tragedia".

Ho riferito questa affermazione poiché, invece è tipico del decadentismo, e di quasi tutta l'arte del Novecento, evidenziare gli aspetti patologici e deformi della realtà, insomma il ritorno e la rivincita del Caos:"se l'umanità fosse capace di fare un sogno collettivo, sognerebbe Moosbrugger"[9] che era un idiota squartatore di prostitute, pensa il raffinato e indolente protagonista del romanzo di Musil.

 

 Notevole è pure la prescrizione secondo la quale il racconto va composto e il linguaggio  rifinito avendo sempre situati davanti agli occhi (pro; ojmmavtwn) la composizione (1455a, 23 ), ossia il poeta deve calarsi negli eventi, "come se fosse in mezzo ai fatti stessi". Su questo punto, che costituisce sempre un ottimo monito per chi scrive, insistono  diversi autori: Nietzsche, per esempio, in La  nascita della tragedia afferma che il genio nell'atto della creazione artistica “è contemporaneamente soggetto e oggetto, contemporeanamente poeta, attore e spettatore”[10].

Stanislavkij che studia l'altro versante, quello dell’attore , sostiene che il testo debba essere esperienzializzato, siccome "il vero artista arde con ciò che gli succede intorno, è attratto dalla vita che è divenuta oggetto del suo studio e della sua passione, si pasce avidamente di ciò che vede, si sforza di marcare quanto riceve dall’esterno"[11].

E ancora: “Ricordate il mio consiglio: non si può entrare a teatro con le scarpe sporche. Pulitevi le suole prima di entrare, lasciate il fango fuori dalla porta. Lasciate in anticamera insieme alle soprascarpe, tutte le piccole preoccupazioni, i fastidi, le meschinità che avviliscono la vita quotidiana,  e vi distraggono dall’arte”[12].

Tuttavia nella tragedia greca non si richiedeva l’adeguamento emotivo dell’attore al personaggio perché gli attori non erano più di tre e ciascuno attore recitava più di una parte.

“Una tarda testimonianza di Apuleio (Flor. 18 comoedus sermocinatur, tragoedus vociferatur) differenzia in modo netto la recitazione degli attori comici e degli attori tragici: di tipo fortemente colloquiale l’una, fortemente sostenuta e incline alla declamazione potente l’altra”[13].

Qualche cosa di analogo dice Ovidio a proposito dello stile tragico e di quello comico: “Grande sonant tragici: tragicos decet ira coturnos; usibus e mediis soccus habendus erit[14], i tragici hanno un suono forte: l’ira si addice ai coturni tragici: la commedia va tratta dall’esperienza quotidiana.

Euripide sarà imitato dagli autori della Commedia nuova: Filemone, Difilo e Menando.

 

 

Anche il coro, afferma Aristotele, deve essere parte del tutto e partecipare all'azione, al pari di uno degli attori, non come in Euripide, ma come in Sofocle (1456a, 27).

Dopo Euripide le parti cantate non sono connesse al racconto, e dopo l’esempio dato da Agatone ejmbovlima a{/dousin (1456a, 29) si cantano intermezzi. ù

Bologna 2 dicembre 2021 ore 11, 04

giovanni ghiselli

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[1] Di Marco, Op. cit., p. 137.

[2] G. Murray, Le origini dell’Epica Greca, p. 30.

[3] Del 408 a. C.

[4] Rappresentata postuma, nel 405 a. C.

[5] 431-404 a. C. Fa eccezione l’Elena (del 412), una tragedia anomala, a lieto fine, che evidenzia l’assurdità della guerra di Troia combattuta per un fantasma.  Tale giudizio contro la guerra si trova anche

alla fine dell’Elettra euripidea, quando Castore annuncia a Oreste che Elena sta arrivando, insieme con Menelao, dall'Egitto, dalla casa di Proteo, poiché a Troia non è mai andata, “Zeu;~ d  j,  wJ" e[ri" gevnoito kai; fovno" brotw'n,- ei[dwlon JElevnh~  ejxevpemy j ej~  [Ilion ” ( Elettra, vv. 1282-1283),  ma Zeus mandò a Ilio un'immagine (ei[dwlon) di lei, affinché ci fosse guerra e strage dei mortali.

 

 

[6] E' il ribaltamento della sapienza silenica che considera primo bene non essere nati, poi, come secondo, morire appena nati . "Per esprimere con impressionante efficacia il suo rimpianto per la vita, il morto Achille dice a Odisseo che lo incontra nell'oltretomba: vorrei lavorare come un thes ( qhteuevmen, Od. XI, 489)" F. Codino, Introduzione a Omero , p. 128.

Sentiamo una formulazione dostoevskijana di questo rovesciamento: “Dove ho mai letto”, pensò Raskolnikov proseguendo il cammino, “ dove posso mai aver letto che quel condannato a morte, un’ora prima dell’esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna e l’eterna procella, e rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita, per mille anni, per l’eternità, ebbene preferirebbe vivere così piuttosto che morire all’istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualche modo, ma vivere!...Che verità, Signore Iddio, che verità! L’uomo è un vigliacco! Ed è un vigliacco chi, per questo, lo chiama vigliacco, “ aggiunse subito dopo” F. Dostoevskij, Delitto e castigo, p. 178.

[7] Di Marco, Op. cit., p. 139.

[8] Il piacere dell'ozio come sirena che distoglie dal fare cose egregie è denunciato anche da Tacito nell'Agricola:"subit quippe etiam ipsius inertiae dulcedo, et invisa primo desidia postremo amatur " (3), infatti si insinua  anche il piacere della stessa passività, e alla fine si ama l'accidia dapprima odiosa.

L'ozio che fa male si trova pure nel carme 51 di Catullo:"Otium, Catulle, tibi molestum est (v.13), lo star senza far niente ti fa male, Catullo. 

 

[9] L'uomo senza qualità,  p.71.

[10] La nascita della tragedia , p. 43.

[11] K. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, p. 133.

[12] Op. cit, p. 176.

[13] M Di Marco, Op. cit., p. 90.

[14] Remedia amoris, 375-376.

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