lunedì 6 dicembre 2021

Quintessenze di Euripide quinta parte.


 

Scontri fra culture nella Medea (cfr. il film Medea di Pasolini).

La barbara arcaica ieratica si confronta con il sistema privo di carità del mondo (pre) borghese e diviene donna ricca di espedienti. Medea, come Odisseo  polumhvcano" , è piena di risorse e anche la sua forza sarà quella della "complicità con il reale"[1].

 

In una intervista a J. Duflot, Pasolini dichiara che nel suo film ha voluto mettere in evidenza il contrasto tra la cultura razionale e pragmatica di Giasone e quella arcaica e ieratica della barbara:" Ho riprodotto in Medea  tutti i temi dei film precedenti (...) Quanto alla pièce  di Euripide, mi sono semplicemente limitato a qualche citazione (...) Medea è il confronto dell'universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l'eroe attuale (la mens  momentanea) che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del genere. E' il "tecnico" abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo (...) Confrontato all'altra civiltà, alla razza dello "spirito", fa scattare una tragedia spaventosa. L'intero dramma poggia su questa reciproca contrapposizione di due "culture", sull'irriducibilità reciproca delle due civiltà (...) potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del Terzo Mondo, di un popolo africano, ad esempio[2]".  

 

 La consolazione delle lacrime (Troiane, Elena).

 

Il piangere, come scarso controllo, come uscita dalla realtà, può essere consolatorio: nelle Troiane (del 415) il Coro commenta le lacrime sopra lacrime (davkruav t j ejk dakruvwn, v. 605) versate per le case distrutte, in tale modo: "come sono dolci le lacrime (wJ" hJdu; davkrua) per quelli che vivono male/e i lamenti dei pianti e una musa che narri il dolore"(vv. 608-609).

 

 Enea vedendo che  ci sono lacrime per le sventure (Eneide, I, 462), prima piange, poi si consola, quindi geme a lungo: tum vero ingentem gemitum dat pectore ab imo (Eneide, I, v. 485).

 

Nell'Elena (del 412) Menelao afferma: "le lacrime sono la mia gioia: hanno più /grazia che dolore"(654-655). "Non è  casuale che alla perdita di contatto con la realtà politica del suo tempo si accompagnasse in Euripide una sempre più decisa teorizzazione di una poetica che poneva al centro della creazione tragica lo sfogo del personaggio attraverso il pianto"[3].

 

Un’eco di questa “gioia delle lacrime” si trova nella Tebaide di Stazio, ricca di risonanze tragiche: “amant miseri lamenta malisque fruuntur” (XII, 45), amano i lamenti gli infelici e si compiacciono dei mali. Il poeta commenta la visita dei Tebani al campo di battaglia dove sono caduti gli assalitori e i difensori di Tebe. 

 

 

 

Rifiuto o pentimento del potere: Ione, Ifigenia in Aulide.

Superiorità della vita privata

Euripide ricorre spesso la fuga dai luoghi e dai tempi, insomma dalla storia quale "favola mentita".

Il drammaturgo prefigura il  lavqe biwvsa~ di Epicuro

 

Ione  sostiene la superiorità della vita ritirata su quella impegnata o tesa al potere che viene smontato[4] :"del potere lodato a torto/l'aspetto è dolce, ma dentro il palazzo/c'è il dolore  (tajn dovmoisi de;- luphrav): chi infatti è felice, chi fortunato/se, temendo e guardando di traverso (dedoikw;" kai; parablevpwn), trascina/il corso della vita? Preferirei vivere/da popolano felice piuttosto che essendo tiranno ("dhmovth" a]n eujtuch;"-zh'n a]n qevloimi ma'llon h] tuvranno" w[n"),/il quale si compiace di avere amici malvagi,/mentre odia i generosi per paura di attentati " (Ione, vv. 621-628).

 

Nell’ Ifigenia in Aulide , l’a[nax , il grande capo Agamennone Invidia un vecchio servo che passa una vita ajkivndunon , priva di rischi, rimanendo  ajgnw;~  ajklehv~ (18) sconosciuto e oscuro.

Meno invidiabile è la vita di chi sta ejn timai`~, tra gli onori.

 

Una maledizione del "bene fallace" costituito dal potere si trova nell'Oedipus  di Seneca:"Quisquamne regno gaudet? O fallax bonum,/quantum malorum fronte quam blanda tegis "(vv. 6-7), qualcuno gioisce del regno? O bene ingannevole, quanti mali copri sotto un'apparenza così lusinghiera!. Nelle Fenicie , Seneca fa dire a Giocasta che Eteocle pagherà il fio a caro prezzo con il fatto di essere re:"poenas, et quidem solvet graves: regnabit "(v.645).

 

Manzoni nell' Adelchi  (V, 8) rappresenta il protagonista ferito che dice al padre sconfitto:"Godi che re non sei; godi che chiusa/all'oprar t'è ogni via: loco a gentile,/ad innocente opra non v'è: non resta/che far torto, o patirlo. Una feroce/ forza il mondo possiede, e fa nomarsi/Dritto”".

 

Simpatia e compassione per i giovani che muoiono ante diem (Ifigenia in Aulide;  Ecuba (Polissena);  Alcesti; Fenicie  (Meneceo):  Eraclidi (Macaria).

Particolarmente bella è la morte di Polissena nell’Ecuba: una sacrificio che può illustrare il tema della bellezza nella morte: la principessa Troiana antepone una morte dignitosa a una vita senza onore:"to; ga;r zh'n mh; kalw'~ mevga~ povno~, (Ecuba , v. 378),  vivere senza bellezza è un grande tormento".

 

 

 

Rimpianto  della giovinezza (Eracle).

 

Un aspetto della bellezza è la giovinezza.

La giovinezza  è preferibile alla ricchezza, ed è bellissima tanto nella prosperità quanto  nella povertà: “kallivsta me;n ejn o[lbw/, -kallivsta d j ejn peniva/”,  Euripide, Eracle, vv. 647-648. Se gli dèi avessero intelligenza e sapienza (xuvnesi"-kai; sofiva) secondo i criteri umani donerebbero una doppia giovinezza (divdumon h{ban) come segno evidente di virtù a quanti la posseggono, ed essi, una volta morti, di nuovo nella luce del sole (eij" aujga" pavlin aJlivou), percorrerebbero una seconda corsa, mentre la gente ignobile avrebbe una sola possibilità di vita (Euripide, Eracle, vv.661-669).

 

Marziale afferma che l’uomo buono, privo di  rimorsi, gode del frutto del suo passato e accresce lo spazio della propria esistenza: “ampliat aetatis spatium sibi vir bonus: hoc est/vivere bis, vita posse priore frui” (X 23, 7-8).

 

 

Aspetti di tradizionalismo:  contro gli uomini straordinari  e sofisticati nelle Baccanti;   la bella semplicità di Achille allevato dal pio Chirone nell’Ifigenia in Aulide).

 

Il Coro delle Baccanti  nel Primo Stasimo canta che Dioniso odia chi non si prende cura di tenere il cuore e la mente lontani dagli uomini straordinari: "ajpevcein prapivda frevna te;;;;;;-perissw'n para; fwtw'n"(vv.427-428).

Sembra una scelta delle credenze popolari, contro il reo dolor che pensa, i sofismi e il pretenzioso sapere degli intellettuali.

 

In Delitto e castigo  di Dostoevskij secondo il protagonista Raskolnikov, "gli uomini si dividono in -ordinari- e -straordinari-.Quelli ordinari devono vivere nell'obbedienza e non hanno diritto di violare la legge, perché essi, vedete un pò, sono appunto ordinari. Quelli straordinari, invece, hanno il diritto di compiere delitti d'ogni specie e di violare in tutti i modi la legge, per il semplice fatto d'essere straordinari" (p.290).

 

Chirone, dikaiovtato" Kentauvrwn[5], il più giusto dei Centauri, "nodrì Achille"[6] insegnandogli quella naturalezza e semplicità di costumi che è la quintessenza dell'educazione sana.

Agamennone nell’Ifigenia in Aulide chiarisce a Clitennestra che Chirone educò il Pelide: “ i{n j h[qh mh; mavqoi kakw'n brotw'n” (v. 709), perché non imparasse gli usi degli uomini malvagi. Più avanti Achille  riconosce tale alta paideia all'uomo piissimo che l'ha allevato:"ejgw; d  j, ejn ajndro;" eujsebestavtou trafei;"-Ceivrwno", e[maqon tou;" trovpou" aJplou'" e[cein" (vv. 926-927), ho imparato ad avere semplici i costumi. L’antitesi del semplice, schietto Achille in questa tragedia, e non solo, è Odisseo del quale Agamennone dice: “Poikivlo~ ajei; pevfuke tou' t j o[clou mevta” (v. 526), è molteplice per natura e sempre dalla parte della massa.-hjnavgkasen (v. 530):

 

Bologna 6 dicembre 2021

giovanni ghiselli

 

 



[1]M. Detienne-J. P. Vernant, Le astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia , p. 3 e sgg.

[2]J. Duflot, Pier Paolo Pasolini. Il sogno del centauro, Roma 1983, in Naldini, Pasolini, una vita , p. 81.

[3] V. Di Benedetto, op. e p. citate sopra.

[4] Il potere verrà demonizzato del tutto da Seneca, " per questo uomo di potere…il potere è un nucleo irriducibile di male-insieme fatto e subìto, avviluppato nelle rispondenze tra violenza oggettiva e angoscia soggettiva" G. Paduano (a cura di), Edipo, p. 9.

[5]  Iliade,  XI, 832.

[6] Dante, Inferno, XII, 71.

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