mercoledì 29 dicembre 2021

Terenzio, "Adelphoe". 11

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III, 3. Seconda e ultima parte della terza scena

 
Demea domanda a Syro notizie su Bacchide definendola psaltria - 387 - suonatrice di cetra.
Le ragazze proprietà dei lenoni dovevano imparare a suonare la cetra per rallegrare i banchetti.
Quindi il vecchio vuole sapere se Eschino intenda tenersela in casa
Syro conferma, mentendo: Credo, ut est dementia 390, lo credo matto com’è.  Lo  schiavo poi asseconda Demea biasimando  la  sua  debolezza inepta lenitas e l’indulgenza depravata facilitas prava  di Micione
Demea se ne vergogna e addolora- fratris me quidem pudet pigetque.
Syro blandisce Demea notando quanto sia  diverso dal fratello: “tu quantus quantu’s nihil nisi sapientia es”(394);  per il catoniano elogi sperticati e finti ; per Micione critiche dure: “ille somnium”, quello dorme in piedi
Quindi lo schiavo tasta il terreno per vedere se Demea sa tutto e gli domanda: sineres vero illum tu tuum facere hoc? tu gli lasceresti fare questo?  E’ una domanda retorica con il tempo della irrealtà.
Demea risponde con lo stesso verbo ugualmente coniugato: Sinerem illum?  Lo saprei subito e glielo impedirei.  Pare nascondere  il sospetto che c’entri pure il proprio pupillo.
Infatti domanda a Syro se abbia visto Ctesifone. Lo schiavo prende tempo: “Tuum filium?, poi dice tra sé: “abigam hunc rus” (401),  spedirò costui in campagna. In effetti è l’ambiene adatto a Demea.
 
Nell’opinione dei cittadini nimium chi vive ruri è appunto
 Rusticus,  rusticus  nimium.
 
Ovidio rappresenta con questo tono anticampagnolo le donne Sabine
Il poeta Peligno contrappone formosae audaci cittadine del suo tempo alle Sabine poco curate delle origini di Roma : “Forsitan inmundae Tatio regnante Sabinae/noluerint habiles pluribus esse viris;/nunc Mars externis animos exercet in armis,/at Venus Aeneae regnat in urbe sui./Ludunt formosae: casta est quam nemo rogavit;/aut si rusticitas non vetat, ipsa rogat " (Amores, I, 8, 39-44), forse le sporche Sabine sotto il regno di Tazio non avranno voluto essere disponibili per più uomini; ora Marte tiene occupati gli animi in guerre straniere, ma è Venere che regna nella città del suo Enea. Le belle si divertono: è casta quella cui nessuno ha fatto proposte; oppure se non lo impedisce la selvatichezza, è lei che fa le proposte.
 
Syro dunque dice a Demea: “iamdudum aliquid ruri agere arbitror”, penso che oramai stia facendo del lavoro in campagna.
Demea vuole essere rassicurato e Syro aggiunge che ne è certo perché ve lo ha spinto lui.
Demea ne è consolato.
Syro per rassicurarlo ancora si inventa che il buon Ctesifone se l’è presa con quello scapestrato di Eschino che contava il denaro da dare per la  psaltria: lo ha ripreso con impeto dicendogli: “Haec te admittere indigna genere nostro!” (408). Avrebbe  rimproverato al fratello l’indegnità rispetto alla razza padrona cui appartiene.
 
Demea esclama: “Oh lacrumo gaudio!” 409 , piango di gioia!
 
Talora le lacrimesi associano al piacere
Cfr l’associazione tra gioia e lacrime nelle Troiane e nell’Elena di Euripide.
Il piangere, come scarso controllo, come uscita dalla realtà, può essere consolatorio: nelle Troiane (del 415) il Coro commenta le lacrime sopra lacrime (davkruav t j ejk dakruvwn, v. 605) versate per le case distrutte, in tale modo: "come sono dolci le lacrime (wJ" hJdu; davkrua) per quelli che vivono male/e i lamenti dei pianti e una musa che narri il dolore"(vv. 608-609).
 
Nell'Elena (del 412) Menelao afferma: "le lacrime sono la mia gioia: hanno più /grazia che dolore"(654-655). "Non è  casuale che alla perdita di contatto con la realtà politica del suo tempo si accompagnasse in Euripide una sempre più decisa teorizzazione di una poetica che poneva al centro della creazione tragica lo sfogo del personaggio attraverso il pianto"[1].
Enea vedendo che  ci sono lacrime per le sventure (Eneide, I, 462), prima piange, poi si consola, quindi geme a lungo: tum vero ingentem gemitum dat pectore ab imo (Eneide, I, v. 485).
 
Un’eco di questa “gioia delle lacrime” si trova nella Tebaide di Stazio, ricca di risonanze tragiche: “amant miseri lamenta malisque fruuntur” (XII, 45), amano i lamenti gli infelici e si compiacciono dei mali. Il poeta commenta la visita dei Tebani al campo di battaglia dove sono caduti gli assalitori e i difensori di Tebe.
 
Syro si inventa pure che Ctesifone avrebbe detto a Eschino: “Non tu hoc agentum perdis, sed vitam tuam” 410
Questa battuta inventata strappa l’applauso di Demea al figlio non degenere come l’altro: “Salvos sit! Spero, est similis maiorum suom”. Intende che i loro predecessori in famiglia erano frugali, casti e probi.
 
Ricordo che un secolo e mezzo più tardi Augusto con le sue leggi contro l’adulterio e con la propaganda degli scrittori protetti Orazio e Virgilio cercherà di ripristinare il mos maiorum e i loro antiqui mores.
 
Syro adula ancora il padre educatore di Ctesifone: “Domi habuit unde disceret” (413), ha avuto in casa da dove imparare. L’educazione buona  si attua attraverso l’esempio di un padre buono e severo.
Tutt’altra cosa è stato lo zio permissivo che ha diseducato Eschino.
 
Platone attribuisce tale mala educazione alle donne della casa reale persiana del tempo di Ciro il Vecchio il quale, sempre impegnato in operazioni militari, delegò alle femmine la cura dei figli. Queste li viziarono impartendo loro una trofh;n gunaikeivan (Leggi, 694d) , una cura da donne, per giunta donne del re  divenute ricche da poco.
I padri combattevano e conquistavano, ma non insegnavano ai figli la disciplina persiana, quella di pastori e guerrieri molto resistenti alle fatiche. Insomma: “periei'den uJpo; gunaikw'n te kai; eujnouvcwn paideuqevnta~ auJtou' tou;~ uJei'~(Leggi, 695a), Ciro il Vecchio permise che i suoi figli, Cambise e Smerdi, fossero educati da donne e da eunuchi. Sicché essi crebbero come ci si doveva aspettare, dato il loro essere stati allevati trofh'/ ajnepiplhvktw/ (695b) in maniera licenziosa. E quando i due giovani ereditarono il regno, trufh'~ mestoi; kai; ajnepiplhxiva~, gonfi di lussuria e di sregolatezza, per prima cosa uno uccise l’altro perché non sopportava uno stato di parità, quindi costui, ossia Cambise, mainovmeno~[2] uJpo; mevqh~ te kai; ajpaideusiva~, pazzo in seguito al bere smodato e alla mancanza di educazione, perse il potere a opera dei Medi e del cosiddetto “eunuco”[3], che aveva disprezzato la stupidità del re.    
 
Demea non manca di autoelogiarsi come ottimo educatore: ha indotto il giovane a guardare nella vita degli altri come in uno specchio per trarne esempi da imitare o da evitare: hoc facito (…) hoc fugito. L’educazione, ogni paideia, anche quella linguistica deve constare di esempi.
Lo dice pure Seneca_
“Longum iter est per praecepta, breve et efficax  per exempla” (Ep.
6, 5)
 Plutarco  nella prefazione alle vite parallele Timoleonte - Emilio Paolo   scrive: il mio lavoro mi appare proprio come un conversare, un vivere quotidianamente in intimità con costoro, quando, per narrarne le vicende, io li ricevo quasi e li accolgo a turno come ospiti uno per uno, e considero  quanto  grande e quale sia ("oJvsso" e[hn oi'Jov" te"[4]), scegliendo fra le loro azioni quelle che furono le più importanti e le belle per la conoscenza:"ta; kuriwvtata kai; kavllista pro;" gnw'sin ajpo; tw'n pravxewn lambavnonte"".
Insomma "il biografo si rimira nello specchio della storia per accordare la propria esistenza ai grandi paradigmi di virtù fornitigli dai suoi personaggi, vive anzi con loro (come poi Montaigne), desideroso di preservare nell'animo la memoria fragrante di ciò che varrà poi ad espellere l'ignobile sentore della quotidianità. Gli exempla virtutis  costituiscono il più sicuro esercizio di virtù per l'autore"[5].
Quindi Plutarco cita un frammento di Sofocle[6]:"feu' feu', tiv touvtou cavrma mei'zon aj;n lavboi"", ah, ah, quale gioia potresti prendere maggiore di questa, e, aggiunge, quale più efficace per il raddrizzamento dei costumi?
 
Quindi Demea seguita: “hoc laudi est (…) hoc vitio datur” 419
Andrebbe ancora avanti l’anziano compiaciuto e loquace “Porro autem”, e poi…, ma Syro lo interrompe: “Non hercle otiumst –nunc mihi auscultandi” 419-420, non ho il tempo libero di ascoltati.
Ha trovato i pesci che voleva e non vuole che vadano a male.
 
A Roma c’era allora e c’è ancora la cultura gastronomica del pesce. Scrivo questo per informare i miei lettori che a Bologna non c’è. E’ un cibo troppo leggero per questi padani, grandi allevatori e consumatoi di maiali, vitelli e vitelloni.
Quelli che hanno voglia di pesce devono fare almeno 80 chilometri per arrivare al mare. L’Italia bizantina conservò la cultura ittica, quella invasa e tenuta a lungo dai Germani la perse. A Pesaro d’estate per rifarmi mangio solo pesce fresco.
Qui a Bologna  tonno o sardine o sgombro in scatola.
 
Mandare a male i pesci, seguita Syro, sarebbe un delitto. E lui da capocuoco istruisce i dipendenti con l’ottimo metodo pedagogico di Demea. Dice dunque agli aiutanti: “hoc salsumst, hoc adustumst, hoc lautumst parum;-illud recte: iterum sic memento” 425-426, questo è salato, questo bruciato, questo poco lavato: la prossima volta ricorda.
Syro si impegna a istruire i suoi sottoposti pro mea sapientia 427 secondo il mio sapere- E gli aiutanti devono guardare nei piatti come in uno specchio. Sono inezie quelle che facciamo, conclude- verum quid facias? Ma cosa vuoi farci? Ut homost, ita morem gere” , bisogna comportarsi secondo chi hai di fronte.
 
E’ un po’ l’abitudine del trasformista camaleontico che Plutarco attribuisce ad Alcibiade (Vita di Alcibiade) , Cicerone a Catilina (Pro Caelio).
 
Quindi Demea va difilato in campagna e Syro rimasto solo commenta: “Nam quid tu quid hic  agas,-ubi siquid bene praecipias nemo obtemperat?
 
E’ il fallimento del mestro che Prospero commenta con queste parole a proposito del suo tentativo di educare Calibano: “on whom my pains,/humanely taken, all, all lost, quite lost” (The tempest, 4, 1), per il quale le mie fatiche umanamente spese. Sono tutte, tutte perdute, completamente perdute
 
Demea si dirige verso la campagna parlando tra sé. Dice che vuole occuparsi solo del figlio educato personalmente da lui. All’altro, pensi lo zio. Procedendo vede ancora lontano Egione, homo amicus nobis iam inde a puero (400), uno che conserva i buoni costumi temporis acti ,  un uomo di cui c’è penuria penuriast nel decaduto presente.-homo antiqua virtute ac fide-.442
 
Orazio nel Carmen saeculare[7] celebra il nuovo secolo delle virtù morali ritrovate con la prosperità. Grazie ad Augusto ovviamente. :"Iam Fides et Pax et Honor Pudorque/priscus et neglecta redire Virtus/audet, apparetque beata pleno/Copia cornu"[8], già la Fede e la Pace e l'Onore e il Pudore antico e la Virtù messa da parte osa tornare, e appare felice l'Abbondanza con il corno pieno.
 
Demea trae conforto e addirittura piacere di vivere dalla vista del vecchio amico virtuoso, un uomo probo come poche altri ancora in vita, uno dei pochi rimasti della loro  razza di persone perbene huius generis reliquia. Decide di aspettarlo per salutare l’amico e parlare un poco con lui 446


 
Bologna 29 dicembre 2021 ore19, 16
giovanni ghiselli

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[1] V. Di Benedetto, op. e p. citate sopra.
[2] Cfr  Erodoto III, 38: “pantach'/ w\n moi dh'lav ejsti o{ti   ejmavnh megavlw" oJ Kambuvsh"",  da ogni punto di vista dunque per me è evidente che  molto matto era Cambise.
[3] Erodoto (III, 61, 2) dice che assomigliava a Smerdi e aveva lo stesso nome.
[4]Citazione dall'Iliade :"oJvsso" e[hn oi'Jov" te", 24, 630, detto di Achille.
[5]G. Camassa, Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica , Vol. I, Tomo III, p. 329.
[6]Fr. 579 Nauck, v. 1.
[7] Del 17 a. C.
[8] Vv. 57-60. E' una strofe saffica formata da tre endecasillabi saffici e da un adonio.

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