mercoledì 29 dicembre 2021

La storia di Päivi.10 La comunione bizzarra.

 

Ero un poco ubriaco e molto felice.

Intanto alcuni piccoli uccelli si erano posati sopra i dorsi bianchi e villosi delle pecore chine a brucare, e il sole spariva salutato dal primo strimpellìo tremante dei grilli e dall’ultimo verso stridente delle cicale assonnate.

A un tratto, la pecora più originale alzò di scatto la testa; subito dopo sobbalzarono tutte le altre, e gli uccelli volarono via.

Osservavo il cielo maestro di umana sapienza [3].

 

Un salto nel passato di tre estati prima, quella di Helena.

Consiglio di leggerlo.

Mi venne in mente un’aurora serena dell’agosto del ’71, quando, dopo un prolungato banchetto e l’insana dulcedo perpotandi et pervigilandi [4] invece di andare a dormire, con Fulvio, Ezio, Claudio, Danilo e Alfredo, giovanilmente scherzando, uscimmo dal collegio calandoci dalla finestra, siccome l’uscio di sotto era chiavato a quell’ora, intorno alle tre della notte, o del mattino che dire si voglia.

Andammo a Hortobágy per vedere sorgere il sole. Nella luce attiva del crepuscolo mattutino eravamo contenti. Io per Elena, Fulvio era felice pensando al suo futuro con Bruna: dipingeva lieti pensieri nuziali [5].

Gli altri erano contenti di essere giovani, di essere a Debrecen con tanti coetanei curiosi di conoscersi a vicenda. Era un bel posto quello ed erano belli i primi anni Settanta per quanto riguarda i rapporti umani. Nel ’74, come abbiamo visto e vedremo, i tempi e i costumi erano già peggiorati, e noi, reduci del ’68, eravamo prossimi al disincanto.

 Nel ’71 era ancora diffuso tra gli umani simpatizzare, perfino volersi bene. Una moda presto defunta come molti di quei cari compagni dell’età mia nova. Io non ho rinnegato quei mores oramai antichi, non li ho scordati, anzi, passata la moda, mi sono rimasti dentro del tutto accordati con il mio carattere, quale struttura della mia formazione e li tengo in vita e li pratico con chi me lo permette senza prendermi per deficiente, o per sognatore, o per pazzo.

Arrivati, si saliva sui gradini di legno di un teatro aperto - locus Phoebo Bromioque sacer - da dove si poteva osservare l’oriente infiammato e il fiume verde, popoloso di pesci, folto di canne, sonoro di uccelli che salutavano il giorno. Sentivamo, amavamo la vita che ci contraccambiava. Parlavamo di donne, di amori, di lavoro, facevamo progetti, eravamo contenti. Sul ponte a nove arcate situato davanti alla csárda, transitavano carri stracolmi tirati da grossi cavalli rossicci: portavano i prodotti della puszta al mercato di Debrecen.

Danilo aprì lo spettacolo con un canto popolare trevigiano della prima guerra mondiale. Una canzone di guerra, lenta, lenta, che celebrava gli eroi morti e infondeva desiderio di pace. Ammaliato da quella canzone di stampo Simonideo-Leopardiano , Fulvio assecondò l’aedo di Bassano del Grappa e, sceso nell’ acqua bassa del fiume con il pigiama arrotolato sopra i polpacci muscolosi, da oplita, eseguì alcuni passi di una danza pirrica, quindi intonò un canto di guerra tirtaico, simile a quelli eseguiti dalla forte gioventù spartana prima delle battaglie. Seguì un’ovazione. Quindi Danilo tirò fuori l’amica bottiglia, cara compagna di colazioni, pasti merende e cene, poi disse che in quella circostanza felice la cosa migliore era riprendere dal punto in cui ci eravamo interrotti in collegio. Quel vino, aggiunse, rendeva servigi migliori dell’acqua di seltz.

Quando il gaudente l’ebbe svuotata, gridai: “tra un poco apriranno la csárda; che ne dite se entriamo per colazione e ce ne facciamo stappare altre due?”. “Sicuro, e che tu sia benedetto, compagno pesarese, buon comunista,  caro da Dio!”, rispose l’amico grato della proposta inopinata.

Intanto Fulvio, Claudio, Ezio e Alfredo, riuniti in una comunione bizzarra, si spartivano un grosso salame, due enormi cipolle, tre cetrioli e due peperoni. Quando invitarono me e Danilo, nemmeno noi potemmo astenerci da tali prelibatezze. Sicché facemmo questo banchetto aurorale.

Le ombre a poco a poco si diluivano nel liquido solare.

Eravamo contenti e ci sembrava di vedere gioie maggiori che ammiccavano a noi, ci facevano segni d’intesa. Io pensavo che se ero piaciuto a Elena sarei piaciuto per sempre, alla vita che amavo con tutto me stesso dopo che avevo smesso di sentirmi rinnegato da lei. Ma già con quella finnica mora mora, formosa, dalla pelle bianca e liscissima, dalla tunica candida, la mia vita era giunta vicina allo splendore zenitale.

 

 Erano già trascorsi tre anni da quell’alba ricca di amici, di canti, di affetti. Nel 1974 la danza non era ancora diventata macabra ma il tempo della comunione tra noi mortali era già consumato in gran parte, quasi finito.

 Da cinque anni oramai imperversavano le stragi e altre ce ne sarebbero state. Rimaneva l’amore per una donna. Con il senno di adesso dico che questo non può funzionare a lungo, se rimane isolato dal contesto sociale.

 

 

 

3 Cfr. Platone (Timeo 47 a). Lo ricorda Giuliano Augusto: oujrano;n fhsi Plavtwn hJmi'n genevsqai th'" sofiva" didavskalon (A Helios re 3, 38, 1)

4 Cfr. Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni VI, 2, 2, il piacere malsano di bere e vegliare tutta la notte. Era uno dei vizi dell’eroe macedone.

5 Cfr. A. Manzoni, Adelchi, secondo coro “Com’era allor che umprovida/d’un avvenir fallace,/lievi pensier virginei/solo pingea.”


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