Tragedia e commedia nacquero da un principio di improvvisazione (ajp j ajrch'~ aujtoscediastikh'~, Poetica, 1449a, 10), ma la tragedia da coloro che guidavano il ditirambo:"ajpo; tw'n ejxarcovntwn to;n diquvrambon”[1], mentre la commedia da quelli che dirigevano i canti fallici i quali rimangono ancora oggi in uso in molte città"(Poetica , 1449a, 12).
I Dori rivendicano l’invenzione del dramma.
Affermano infatti che per “fare” loro dicono dra`n, mentre gli Ateniesi pravttein. Ebbene dra`n è “il verbo tragico per eccellenza, l’agire che decide, risoluto fino alla fine, compimento felice o naufragio che sia”[2]. Ancora: il “fare” richiede la categoria della politica. Il dramma antico è dramma politico.
Massimo Cacciari: “La ‘conversazione’ beckettiana, come certi dialoghi dell’Ulysses, non mette in scena una perdita, ma un’inessenzialità radicale: l’uomo non è ‘animale politico’. Allora, certamente, ogni drama diviene impossibile a priori, poiché è possibile fare soltanto per quell’esserci che è nella sua essenza inter-esse”[3].
Gli animali politici
L’animale politico: “ diovti de; politiko;n oj a[nqrwpo" zw'/on pavsh" melivtth" kai; panto;" ajgelaivou zwv/ou ma'llon, dh'lon” (Aristotele, Politica, 1253 a) che l’uomo è animale politico più di ogni tipo di api e di ogni animale da gregge è chiaro.
Troppi deputati e senatori di questa nostra malridotta Repubblica dunque presentano una radicale inessenzialità umana: non sono animali politici poiché non si occupando della polis.
Un titolo del telegiornale delle 19 ha detto che l’economia vola.
Intanto vengono licenziati dalle multinazionali centinaia di operai che rischiano di precipitare senza paracadute dall’indigenza nella miseria.
Dioniso
I riti della fertilità dicevamo. Questi celebrano la nascita, la vita, la morte e la resurrezione. Dioniso impersona tutte le fasi dell’alterna vicenda: “ Dioniso è un dio universale-dio della vita, di ogni rinascita primaverile in piante, animali e uomini, ma anche dio dei morti. Dio gentile, delizioso, piacevole e sorridente; dio terribile, distruttore, feroce massacratore. Dio buono e dio cattivo. Ogni dio antico ha in germe queste due facce…Dioniso è entrambe le cose al massimo grado: è delizia e terrore… In Dioniso si manifesta più chiaramente che in tutte le altre divinità ciò che per i greci-e non solo per i greci-è il tratto principale degli dèi: il loro essere inquietanti, il non saper mai come reagiranno, il non sapere che cosa faranno. Per questo Esiodo parla di “inquietante casta degli dèi”[4].
C’è il Dioniso feroce delle Baccanti e quello di Omero, un dio spaventato (Iliade, VI, 135 Diwvnuso" de; fobhqeiv" ) e infantile, che, minacciato da Licurgo, si getta in mare dove Tetide lo accolse in seno spaventato e tremante per le grida dell’uomo. Poi c’è quello ridicolo delle Rane di Aristofane
“Seppure possa sembrare affascinante, la ricerca delle origini…non è poi problema tanto rilevante…non sono le origini, ma la tragedia quale si è storicamente configurata a condizionare la nostra sensibilità teatrale”[5].
Inquietante, forse ancora più del dio è l’uomo come si legge nello squillo iniziale del primo stasimo dell’Antigone di Sofocle: “polla; ta; deina; koujde;n ajn-qrwvpou deinovteron pevlei” (vv. 332-333), “molte sono le cose inquietanti e nessuna/è più inquietante dell'uomo.
Si tratta comunque di arte per il popolo e di contenuto fondamentalmente religioso. "Il dramma perfetto è la messa", ebbe infatti a scrivere Eliot, non ricordo dove.
Posso invece citare Richard Wagner : “L’opera d’arte, lirica e drammatica, era un atto religioso vero e proprio; e in quest’atto, paragonato alla semplicità delle cerimonie religiose primitive, già s’affacciava il desiderio di rappresentare collettivamente e deliberatamente il ricordo comune…La tragedia fu dunque il trasformarsi di una cerimonia religiosa in opera d’arte”[6].
Aggiungo Jacob Burckhardt: “ il dramma greco non era sorto come divertimento e passatempo…bensì quale parte di un importantissimo culto della polis. Non era una risorsa, e neppure uno svago per una élite di “intellettuali” e di annoiati, ma un altissimo interesse di tutta la cittadinanza in festa”[7].
Leopardi svaluta il dramma.
Opposta è l’opinione di G.Leopardi il quale sostiene che il genere drammatico, rispetto alla poesia lirica e a quella epica, “è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più ch per la essenza sua… Il dramma non è proprio delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e dell'ozio, un trovato di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell’ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall’ingegno dell’uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a procacciare sollazzo a se e agli altri, e onor sociale e utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera nepote"(Zibaldone, 4235-4236).
Ancora: “Essa[8] è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, né le danno natura poetica. Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentim. Suo proprio, non dagli altrui. Il fingere di avere una passione, un caratt. Ch’ei non ha (cosa necess. al drammat.) è cosa alienis. Dal poeta…Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona d’altrui, d’imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno drammatico” (4357).
E più avanti: “Il romanzo, la novella ec. sono all’uomo di genio assai meno alieni che il dramma, il quale gli è più alieno di tutti i generi di letteratura, perché è quello che esige la maggior prossimità d’imitazione, la maggior trasformazione dell’autore in altri individui, la più intera rinunzia e il più intero spoglio della propria individualità, alla quale l’uomo di genio tiene più fortemente che alcun altro” (4367).
La stessa cultura ateniese viene considerata manchevole poiché non ci furono poeti lirici ateniesi.
Io dico perché la letteratura ateniese fu politica, mentre la lirica è impolitica. Do spazio a questa dissacrazione del dramma che non condivido per “obiettività epica” o fair play come si dice adesso
Ma sentiamo Leopardi: “Si dice con ragione che quasi tutta la letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno abbia osservato che questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun poeta greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come propriam. poeti, ma come, al più, intermedii fra’ poeti e’ prosatori) fu Ateniese. Tanto la civiltà squisita è impoetica (22. sett. 1828). Però, chi dice che la lett. Gr. fiorì principalm. In Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere che la poesia al contrario. Ec. (22. Sett. 1828)”[9].
Eppure Leopardi sa che la grande arte ha la prospettiva di rivolgersi a un popolo intero, di educarlo: “Gli antichi greci e anche romani avevano le loro gare pubbliche letterarie, ed Erodoto scrisse la sua storia per leggerla al popolo. Questo era ben altro stimolo che quello di una piccola società tutta di persone coltissime e istruitissime dove l’effetto non può mai esser quello che fa il popolo, e per piacere ai critici si scrive: 1. con timore, cosa mortifera; 2. si cercano cose straordinarie, finezze, spirito, mille bagattelle. Il solo popolo ascoltatore può far nascere l’originalità la grandezza e la naturalezza della composizione”[10].
“Il Tragediografo attico scriveva per il popolo degli Ateniesi, al cui giudizio si sottometteva, in quanto partecipava all’agone, scriveva per una festa religiosa dello Stato e del popolo. Con ciò egli si rivolgeva allo stesso pubblico cui Pericle parlava nelle assemblee popolari…Non scriveva per un manipolo di raffinati conoscitori e neppure per una classe elevata colta. Era un uomo che parlava al proprio popolo, ai suoi concittadini; le sue opinioni, le sue credenze e i suoi sentimenti erano, a un dipresso, identici a quelli loro, anche se, per così dire, si trovavano in lui sopra un piano più alto…questo suo messaggio si rivolgeva ai viventi e non ai posteri…Se mai arte severa e grande appartenne al popolo e fu intesa, ammirata e amata dal popolo, questa fu la tragedia attica”[11].
giovanni ghiselli
[1] Definito da Archiloco :"il bel canto di Dioniso signore" fr. 120 West.
[2] M. Cacciari, Hamletica, P. 14.
[3] Hamletica, p. 100.
[4] Ortega Y Gasset, Idea del teatro, p. 88. Ortega rimanda al v. 44 della Teogonia: “qew'n gevno~ aijdoi'on” che io tradurrei piuttosto “stirpe veneranda degli dèi.
[5] Lanza, Dimenticare i Greci, in I Greci Storia Cultura Arte Società, vol. 3, I Greci oltre la Grecia, p. 1455, Einaudi, Torino, 2001.
[6] R. Wagner, L’opera d’arte dell’avvenire (del 1849), p. 252.
[7] J. Burckhardt, Storia della civiltà greca (pubblicato nel 1898 da lezioni tenute tra il 1872 e il 1875), 1, p. 1139.
[8] La poesia drammatica.
[9] Zibaldone, p. 4389.
[10] Leopardi, Zibaldone, 145-146.
[11] V. Ehrenberg, Sofocle e Pericle, p. 19.
cupbialbi Colleen Thomas Crack
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