giovedì 23 dicembre 2021

Non cesserò mai di unire le Grazie alle Muse.

"Non cesserò mai di unire/le Grazie alle Muse,/dolcissimo connubio./Che io non viva senza la Poesia/ma sia sempre tra le corone./Ancora vecchio l'aedo/ fa risuonare la Memoria"(Euripide, Eracle, vv. 673-679).

 

Riprendo la storia di Päivi.

Prologo

 

Nel 1974, ottenuto il trasferimento a Bologna e concluso l’ultimo anno di insegnamento nella scuola media Ugo Foscolo di Carmignano di Brenta, tornai a Debrecen dove la sera dell’Ismerkedési este[1] ebbi un’esperienza erotica poco significativa con Cornelia, una ragazza che cinque anni più tardi, nell’anno secondo di Ifigenia, mi avrebbe detto frasi [2], piene di educazione attiva, tanto da lasciarmi un segno più forte, profondo e positivo dell’insulsa, precipitosa avventura di quell’estate già allora lontana. Le parole belle danno luce al pensiero e alla vita.
Ma nel luglio del ‘74, due giorni dopo avere conosciuto Cornelia, una tedesca ventiduenne di Berlino est, pur carina e intelligente, conobbi una donna che mi piaceva di più: mi apparve subito di aspetto attraente, poi la considerai persona di grande formato mentale e con lei, per tutto il mese seguente, vissi un amore grande, tra i più significativi e denso di conseguenze in questa mia vita mortale, comunque funzionale al reperimento della mia identità di studioso ancora non definita bene.
Era già tempo: il 14 novembre seguente avrei compiuto trenta anni.
Era finnica pure lei: la terza della serie iperborea. Era la persona di cui avevo bisogno per iniziare un lungo periodo di studio serio e di pensieri miei. Chiacchiere ne avevo fatte abbastanza, fin troppe anzi, non senza bevute e mangiate, sebbene smaltite con corse a piedi e scalate di montagne in bicicletta.

Arrivato all’età virile, sentivo l’esigenza di iniziare un’altra vita, più impegnativa, più mia. L’estrema delle mie finniche, l’ultima tra queste donne arrivate dall’ultima Tule[3], da psicologa brava qual era, mi rese manifesto questo sentire latente. Se sono diventato una persona desiderosa e capace di apprendere, se ora sono in grado di insegnare qualcosa a chi mi ascolta e a voi che mi leggete, lo devo in buona parte a quella donna. Oltre ai genitori che mi hanno dato la vita beninteso,  a me stesso che ho saputo valorizzarla, e agli studenti che mi hanno ascoltato con attenzione.


L’estate del ’74 fu l’estrema e definitiva in cui amai una finnica a Debrecen, dopo averla vista e riconosciuta come simile a me, o creduta tale, nel grande cortile d’onore dell’Università. Con questa storia concludo dunque la trilogia finlandese.

 In maniera capovolta rispetto alla terza tragedia dell’Orestea di Eschilo però: nel finale ci sarà una metamorfosi negativa e l’Eumenide prima benefica e buona diventerà poi un’Erinni ostile, feroce.

 

 

[1] Festa della conoscenza

[2] Le racconterò in un capitolo successivo, se Dio vorrà.

[3] Cfr. Virgilio Georgica I, 30


 

La storia di Päivi.

Capitolo 1

La studiosa seria che mi ha motivato a studiare sul serio

 

Anche con questa ragazza andavo a passeggiare nel bosco, tra le antiche querce giganti che ombreggiano i prati fioriti, e  si camminava insieme nella radura del piccolo lago varcato dal ponticello di legno che lieto risuona; oppure ci recavamo nel centro della città sul tram numero uno che gira senza fretta sopra i binari circolanti tra l’università e la stazione, quindi tra la stazione e l’università, e passa in mezzo alle ombre fitte della foresta, poi circola nel corso assolato davanti all’Aranybika, dove ci  si fermava per bere una palinka all’albicocca, giallina, oppure una birra densa e amara, o un bicchiere di aspro sangue di toro di Eger. Talvolta non prendevamo il tram numero uno, l’unico tram, di colore giallo, ma salivamo sulla nera Volkswagen scoperta e ci recavamo a Hortobágy attraverso la puszta polverosa, o fangosa, dove le oche protendevano il collo e giubilavano roche[4], e i porci edaci, grufolavano, con qualsiasi tempo, mentre tenevano il grugno ingordo sempre puntato a terra e i piccoli occhi cisposi rivolti a cercare dovunque una qualche gioia del ventre, o una parziale consolazione della loro voracità che, mai sazia, chiedeva sempre di riempire il vuoto dei loro corpi deformi. Come fanno certi uomini  tormentati dal caos.

Tra loro c’era del resto un cucciolo carino: un porcellotto grasso che cercava la madre alzando il grifo ancora grazioso verso gli adulti . Ma sarebbe diventato come gli altri al pari di tanti bambini male educati e troppo nutriti dai genitori entrambi obesi.

Padri e madri che trasformano gli  umani in porci, come faceva Circe.
Nella csárda gli zigani dai volti quali limoni siracusani suonavano le danze ungheresi di Brahms con i violini striduli e con i cembali precipitosi, facendomi ricordare le tante estati passate in Ungheria, tutta la scala dei vent’anni prossima oramai a terminare, non senza avermi elevato di altrettanti gradini da quando la prima volta, occhialuto, malvestito, sporco, grasso e vorace come i maiali più immondi, ero arrivato nel corso ventoso e polveroso di Debrecen sul calar della notte
[5]. Era il 15 luglio del 1966.
Quella sera, a ventuno anni e otto mesi, ebbe inizio la mia vita cosciente.
Il sole era tramontato da poco. Avevo paura dell’oscurità in un paese sconosciuto e remoto di cui ignoravo l’idioma agglutinante privo di radici europèe a noi più o meno note. Ma invece di cadere nel buio, come la vita di Oblomov
[6], la mia, da quel tramonto, ricevette l’impulso per un rinascimento personale, una resurrezione che sarebbe cresciuta negli anni fino a perfezionarsi grazie all’incontro con questa donna pensosa e intelligente. Anche buona mi sembrò per tutto quel mese.

Giunto sul limitare della trentina inquietante
[7], ero contento di avere onorato l’impegno preso quella sera lontana del luglio del ’66, quando avevo giurato a me stesso che, da osceno e ributtante quale ero, sarei arrivato a piacere alle donne, a molte donne. Stavo per scrivere "a tutte", ma ci ho ripensato, siccome sarebbe ybris, poi sarebbe falso, poiché a diverse invece, purtroppo, non sono piaciuto. Peggio per loro del resto.

Caivrete gunai'keς, tanti saluti donne! Vi ho mancato. Pazienza. Pure voi avete mancato me.
Nel 1974 sentivo già che riuscire gradito a diverse femmine umane non bastava, non poteva essere il punto di arrivo: dovevo fare dell’altro: mettermi in condizione di dare qualcosa di buono e concreto ai miei studenti, al mio prossimo, e a quelli meno vicini. Lo sentivo e capivo ascoltando quella giovane donna che sapeva pensare e sapeva parlare come si deve. Si chiamava Päivi. Se non è morta, arrivata a 71 anni e mezzo, si chiama ancora così.

 Era bello e utile conversare con lei, era bello assai, e parecchio piacevole fare l’amore in uno dei due collegi universitari: nella mia solita camera dell’edificio numero due, oppure in quella di Päivi che, secondo la tradizione dei finnici, abitava nel primo collegio, e aveva la finestra bassa sul prato scaldato dai raggi del sole, o bagnato dalla rugiada notturna le cui gocce, illuminate dal chiarore lunare, sembravano perle.
Päivi compiva ventiquattro anni in quei giorni e si era da poco laureata in psicologia a Yväskylä.

Päivi significa "luce", e, dato che i nomi sono davvero presagi, questa ultima finlandese amata, ha continuato  a illuminare, con le sventagliate  luminose del suo faro, il cammino che avrei affrontarto al ritorno in Italia, la strada impervia dello studio serio, impegnativo e proficuo.

Dovevo assimilare tanto sapere per giungere alla sapienza che “esalta i suoi figli e si prende cura di quanti la cercano. Chi la ama, ama la vita. Il Signore ama coloro che la amano. Chi confida in lei la otterrà in eredità. Dapprima lo condurrà per luoghi tortuosi, gli incuterà timore e paura, lo tormenterà con la sua disciplina finché possa fidarsi, ma poi lo ricondurrà sulla retta via."[8].

La disciplina che ho dovuto impormi, non senza fatica grande, con il volgere delle stagioni è diventata una necessità voluta e piacevole.

 

 

[4] Cfr. G. Gozzano, La differenza, v. 4.

[5] Cfr, L’arrivo a Debrecen presente in questo blog

[6] Riporto qui in nota alcune parole di Oblomov all’amico Stolz: "Sai, Andrej, nella mia vita nessun fuoco né divoratore né purificatore ha mai divampato. Essa non è stata, come quella degli altri, simile al mattino che a poco a poco si colora e s’accende, poi si muta nel giorno che ferve, arde e palpita nel meriggio luminoso e poi, sempre più pallido e quieto, naturalmente e gradatamente, si spegne nella sera. No, la mia vita è cominciata con il tramonto. E’ strano, ma è così! Dal primo momento che ho avuto coscienza di me, ho sentito che mi spegnevo. Ho cominciato a spegnermi scrivendo gli incartamenti dell’ufficio; ho continuato, poi, conoscendo nei libri quelle verità di cui non avrei saputo che fare nella vita; mi sono spento con gli amici, ascoltando i loro discorsi, i loro pettegolezzi, le loro malignità, il loro malvagio e freddo chiacchierare, la loro vuotaggine; contemplando quel loro tipo d’amicizia alimentato da incontri senza scopo, senza cordialità; mi sono spento e ho consumato le mie forze con Mina, per cui spendevo più di metà delle mie rendite, illudendomi di amarla; mi sono spento nel tetro e fiacco passeggiare lungo il viale Nevski, tra le pellicce d’orso e i baveri di castoro, nelle serate, nei giorni di ricevimento, in cui venivo lietamente accolto come fidanzato discreto; mi sono spento consumando in sciocchezze la vita e l’intelligenza" I. Gončarov, Oblomov, p. 240.

[7] Ed ecco la trentina-inquietante, torbida d’istinti-moribondi (Guido Gozzano, I colloqui, vv. 9-11.

[8] Antico Testamento, Siracide, La sapienza educatrice


 

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