NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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giovedì 2 dicembre 2021

Rovigo VIII parte. La funzione del coro.

 


 

Senofonte, Demostene,  Hegel, Leopardi, Manzoni, Nietzsche, A. W. Schlegel, Schiller, Murray.

 

Voglio riferire alcune interpretazioni sulla funzione del coro nella tragedia.

 

Senofonte nei Memorabili fa dire a Socrate che i cori tragici sono un modello di ordine e disciplina: “non vedi- dice a Pericle che si lamentava della scarsa disciplina degli Ateniesi- come nei cori tragici non sono inferiori a nessuno nell’obbedire agli istruttori ?” (3, 5, 18).

 

Un analogo elogio dei cori si trova nella I Filippica di Demostene il quale contrappone la serietà dell’organizzazione delle feste Dionisie e Panatenee al disordine, alla confusione e all’improvvisazione delle spedizioni militari. Le feste infatti sono rigorosamente disciplinate: nulla in queste viene trascuratamente lasciato privo di esame e non ben definito: “oujde;n ajnexevtaston oujd j ajovriston ejn touvtoi~ hjmevlhtai ( 36).

 

 

 Secondo  Hegel il Coro della tragedia "non agisce ed ha dinanzi a sé solo l'universale"[1].

Il coro è la "coscienza sostanziale, superiore, che distoglie dai falsi conflitti e prepara la soluzione (…) è, di fronte ai singoli eroi, il popolo quale terreno fecondo da cui gli individui, quali fiori e piante tese in alto, nascono dal loro proprio suolo" (Estetica, p.1604).

Il coro può anche"essere paragonato al tempio dell'architettura il quale circonda la statua del dio, che qui diviene l'eroe in azione"(p. 1605).

 

 

Leopardi nello Zibaldone afferma che l'uso del coro è "parte di quel vago, di quell'indefinito ch'è la principal cagione dello charme  dell'antica poesia e bella letteratura. L'individuo è sempre cosa piccola, spesso brutta, spesso disprezzabile. Il bello e grande ha bisogno dell'indefinito, e questo indefinito non si poteva introdurre sulla scena, se non introducendovi la moltitudine" (2804). Il canto corale, a più voci, dunque entra nella sua poetica del vago e dell’indefinito

 

 Manzoni nella Prefazione  a Il conte di Carmagnola  sostiene che dei "Cori dei greci"  si possa rinnovare lo spirito "inserendo degli squarci lirici composti sull'idea di que' Cori". Questi squarci, per il fatto di essere indipendenti dall'azione,  possono avere "uno slancio più lirico, più variato e più fantastico. Hanno inoltre sugli antichi il vantaggio d'essere senza inconvenienti: non essendo legati con l'orditura dell'azione, non saranno mai cagione che questa si alteri e si scomponga per farceli stare. Hanno finalmente un altro vantaggio per l'arte, in quanto, riserbando al poeta un cantuccio dov'egli possa parlare in persona propria, gli diminuiranno la tentazione d'introdursi nell'azione, e di prestare  ai personaggi i propri sentimenti".

 

In La nascita della tragedia  Nietzsche ricorda la tradizione la quale "ci dice con piena risolutezza che la tragedia è sorta dal coro tragico, e che originariamente essa era soltanto coro e niente altro che coro; donde ci viene l’obbligo di scrutare nel cuore di questo coro tragico come nel vero e proprio dramma originario, senza in qualche modo accontentarci delle frasi retoriche correnti- che esso era lo spettatore ideale o che doveva rappresentare il popolo di fronte alla regione regale della scena...dato che da quelle origini puramente religiose rimane esclusa tutta la contrapposizione tra popolo e re, e in genere qualsiasi sfera politico-sociale "[2].

 L'idea di identificare il coro come lo spettatore ideale risale ad A. W. Schlegel[3] e deve avere fatto epoca, poiché la ricorda anche Manzoni nella già menzionata Prefazione: “ Mi rimane a render conto del Coro introdotto una volta in questa tragedia, il quale, per non essere nominati personaggi che lo compongano, può parere un capriccio o un enimma. Non posso meglio spiegarne l’intenzione, che riportando in parte ciò che il signor Schlegel ha detto dei Cori greci: Il Coro è da riguardarsi come la personificazione de’ pensieri morali che l’azione ispira, come l’organo de’ sentimenti del poeta che parla in nome dell’intera umanità. E poco sotto: Vollero i Greci che in ogni dramma il Coro…fosse prima di tutto il rappresentante dell’umanità: il Coro era insomma lo spettatore ideale: esso temperava l’impressioni violente e dolorose d’un azione qualche volta troppo vicina al vero; e riverberando, per così dire, allo spettatore reale le sue proprie emozioni, gliele rimandava raddolcite dalla vaghezza d’un espressione lirica e armonica e lo conduceva così nel campo più tranquillo della contemplazione. Ora m’è parso che, se i Cori dei greci non sono combinabili col sistema tragico moderno, si possa però ottenere in parte il loro fine, e rinnovarne lo spirito, inserendo degli squarci lirici composti sull’idea di que’ Cori”[4]. Così siamo tornati e ci colleghiamo alla citazione precedente.

 

Nietzsche invece rifiuta, quasi con sdegno, l’asserzione che il coro corrisponda allo spettatore ideale: “un'affermazione rozza e non scientifica, ma brillante, che però ha ricevuto il suo splendore solo dalla forma concentrata della sua espressione, dalla prevenzione prettamente germanica a favore di tutto ciò che viene detto ideale, e dal nostro stupore momentaneo"[5].

 

La formula non regge siccome lo spettatore e il coro sono entità differenti.

Il pubblico ha la consapevolezza di assistere a un'opera d'arte, non a una realtà empirica, mentre il "coro tragico dei Greci è costretto a riconoscere nelle figure della scena esistenze concrete. Il coro delle Oceanidi crede di vedere realmente davanti a sé il titano Prometeo, e ritiene se stesso altrettanto reale quanto il dio della scena"[6].

 

Maggiore credito viene data dal filosofo tedesco alla definizione proposta nella "famosa prefazione alla Sposa di Messina , da Schiller, che considerava il coro come un muro vivente che la tragedia tracciava intorno a sé, per isolarsi nettamente dal mondo reale e per serbare il suo terreno ideale e la sua libertà poetica…L’introduzione del coro è il passo decisivo, con il quale viene dichiarata apertamente e lealmente la guerra a ogni naturalismo in arte...Certo è un terreno "ideale" quello su cui, secondo la giusta veduta di Schiller, suole muoversi il coro greco dei Satiri, il coro della tragedia originaria; è un terreno  molto al di sopra del sentiero reale dei mortali... La tragedia si è sviluppata su questo fondamento e certo già per questo è stata fin dal principio dispensata da una penosa riproduzione della realtà…Il satiro come coreuta dionisiaco vive in una realtà religiosamente riconosciuta sotto la sanzione del mito e del culto ...il Satiro, il finto essere naturale, sta rispetto all'uomo civile nello stesso rapporto in cui la musica dionisiaca sta rispetto alla civiltà. Di quest'ultima Richard Wagner dice che viene annullata dalla musica, come il lume della lampada dalla luce del giorno. In ugual maniera, io credo, l’uomo civile greco si sentiva annullato al cospetto del coro dei Satiri; e l'effetto immediato della tragedia dionisiaca consiste in questo,  che Stato e la società, e in genere gli abissi  fra uomo e uomo, cedono a un soverchiante sentimento di unità che riconduce al cuore della natura.  La consolazione metafisica, lasciata alla fine in noi da ogni vera tragedia-lo dico fin d’ora- per cui la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze,  indistruttibilmente potente e gioiosa, questa consolazione, appare in corposa chiarezza come coro dei Satiri, come coro di esseri naturali, che per così dire vivono incorruttibili dietro ogni civiltà, e, nonostante ogni mutamento delle generazioni e della storia dei popoli, rimangono eternamente gli stessi  "[7].

 

 

Il coro è sempre la parte che irrora il complesso dell'opera di splendore lirico. Esso, sostiene Gilbert Murray[8] traduce il particolare in universale, e trasforma la sventura in poesia. Le sofferenze vengono  redente in bellezza dalle parole, dalla musica e dalla danza. I coreuti talora sono esseri soprannaturali come le Eumenidi , talora  umani invasati o attraversati da grandi emozioni, come le Baccanti . Il canto di queste creature ci porta lontano dal contingente, a volte dalla stessa trama del dramma. Murray fa l'esempio del quinto Stasimo della Medea di Euripide, il canto successivo all'infanticidio. Nella seconda antistrofe (vv. 1282-1292) le donne di Corinto, che più volte hanno espresso solidarietà a Medea, cantano:

"Di una sola donna tra quelle che vissero un tempo/ho sentito dire che scagliò le mani contro i figli:/Ino resa pazza dagli dèi, quando la moglie/di Zeus la cacciò da casa di corsa./Si getta la disgraziata nel mare/dopo l'empia strage dei figli,/e avere teso il piede oltre la riva marina,/e muore una morte comune con le sue creature./Quale altra atrocità potrebbe accadere?/oh letto delle donne/causa di molti travagli, quanti mali hai già fatto ai mortali!".

Il coro dunque, commenta il Murray, ci porta lontano. L'urlo di morte non viene dalla stanza accanto, ma è l'eco di un pianto che risuona dal fondo dei secoli. La tragedia di Medea è assimilata a quella di Ino, figlia di Cadmo, la quale, fatta impazzire da Era, uccise i propri figli.

  La Memoria, madre delle Muse ha compiuto la sua opera. Ansie, attaccamenti, frivolezze, ogni cosa transitoria svanisce, e, come stelle nella notte, brillano il bello e l'eterno.

 Tale potenza di trasfigurazione dunque si ottiene per mezzo del coro che canta non solo la sofferenza ma anche la felicità dell'uomo. Quando le forze malefiche hanno compiuto tutta la loro distruzione, scopriamo che rimane nell'anima qualche cosa che sfugge per sempre al loro potere e ha la forza di rendere bella la vita. Così Euripide trasfigura la realtà tragica in poesia.

Così i delitti più atroci, perfino l’assassinio dei figli, o dei genitori, possono assumere una dignità estetica e religiosa: “ Proust ricordava che nessun altare fu considerato dagli antichi più sacro, circondato da più profonda venerazione e superstizione quanto le tombe d’Edipo a Colono e di Oreste a Sparta”[9].

 "La realizzazione delle parti corali della tragedia greca costituisce il punto dolente di ogni allestimento moderno. Il teatro borghese da Menandro a Pirandello e oltre non ammette la coralità. Nella prefazione al Conte di Carmagnola, Manzoni dichiarava di avere riservato, mediante il Coro, un cantuccio all'autore, per un momento di riflessione. Forse, nella nostra civiltà letteraria manca proprio la capacità di ascoltare e incarnare in un coro le voci provenienti dall'interno della società. Nel teatro di questo secolo si possono citare solo due eccezioni: la banda di straccioni e mendicanti della brechtiana Opera da tre soldi e le povere donne di Canterbury in Assassinio nella Cattedrale, un dramma speciale e classicistico di T. S. Eliot.[10]" .

 

Bologna 2 dicembre 2021, ore 12, 03

Giovanni ghiselli

p. s

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[1]Estetica, p.1429.

[2] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, pp. 50-51.

[3] Corso di letteratura drammatica, lezione III.

[4] A. Manzoni, Il conte di Carmagnola, Prefazione.

[5] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo VII

[6] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo VII

[7]La nascita della tragedia , capitolo VII

[8]Euripide e i suoi tempi , Laterza, 1932.

[9] Giovanni Macchia, L’angelo della notte, p. 166.

[10] U. Albini, Nel nome di Dioniso, p. 73.

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