Ero un poco ubriaco e molto felice.
Intanto alcuni piccoli uccelli si erano posati sopra i
dorsi bianchi e villosi delle pecore chine a brucare, e il sole spariva
salutato dal primo strimpellìo tremante dei grilli e dall’ultimo verso
stridente delle cicale assonnate.
A un tratto, la pecora più originale alzò di scatto la
testa; subito dopo sobbalzarono tutte le altre, e gli uccelli volarono via.
Osservavo il cielo maestro di umana sapienza [3].
Un salto nel passato di tre estati prima, quella di
Helena.
Consiglio di leggerlo.
Mi venne in mente un’aurora serena dell’agosto del
’71, quando, dopo un prolungato banchetto e l’insana dulcedo perpotandi et
pervigilandi [4] invece di andare a dormire, con Fulvio, Ezio,
Claudio, Danilo e Alfredo, giovanilmente scherzando, uscimmo dal collegio
calandoci dalla finestra, siccome l’uscio di sotto era chiavato a quell’ora,
intorno alle tre della notte, o del mattino che dire si voglia.
Andammo a Hortobágy per vedere sorgere il sole. Nella
luce attiva del crepuscolo mattutino eravamo contenti. Io per Elena, Fulvio era
felice pensando al suo futuro con Bruna: dipingeva lieti pensieri nuziali [5].
Gli altri erano contenti di essere giovani, di essere
a Debrecen con tanti coetanei curiosi di conoscersi a vicenda. Era un bel posto
quello ed erano belli i primi anni Settanta per quanto riguarda i rapporti
umani. Nel ’74, come abbiamo visto e vedremo, i tempi e i costumi erano già
peggiorati, e noi, reduci del ’68, eravamo prossimi al disincanto.
Nel ’71 era ancora diffuso tra gli umani
simpatizzare, perfino volersi bene. Una moda presto defunta come molti di quei
cari compagni dell’età mia nova. Io non ho rinnegato quei mores oramai
antichi, non li ho scordati, anzi, passata la moda, mi sono rimasti dentro del
tutto accordati con il mio carattere, quale struttura della mia formazione e li
tengo in vita e li pratico con chi me lo permette senza prendermi per
deficiente, o per sognatore, o per pazzo.
Arrivati, si saliva sui gradini di legno di un teatro
aperto - locus Phoebo Bromioque sacer - da dove si poteva osservare
l’oriente infiammato e il fiume verde, popoloso di pesci, folto di canne, sonoro
di uccelli che salutavano il giorno. Sentivamo, amavamo la vita che ci
contraccambiava. Parlavamo di donne, di amori, di lavoro, facevamo progetti,
eravamo contenti. Sul ponte a nove arcate situato davanti alla csárda,
transitavano carri stracolmi tirati da grossi cavalli rossicci: portavano i
prodotti della puszta al mercato di Debrecen.
Danilo aprì lo spettacolo con un canto popolare
trevigiano della prima guerra mondiale. Una canzone di guerra, lenta, lenta,
che celebrava gli eroi morti e infondeva desiderio di pace. Ammaliato da quella
canzone di stampo Simonideo-Leopardiano , Fulvio assecondò l’aedo di Bassano
del Grappa e, sceso nell’ acqua bassa del fiume con il pigiama arrotolato sopra
i polpacci muscolosi, da oplita, eseguì alcuni passi di una danza pirrica,
quindi intonò un canto di guerra tirtaico, simile a quelli eseguiti dalla forte
gioventù spartana prima delle battaglie. Seguì un’ovazione. Quindi Danilo tirò
fuori l’amica bottiglia, cara compagna di colazioni, pasti merende e cene, poi
disse che in quella circostanza felice la cosa migliore era riprendere dal
punto in cui ci eravamo interrotti in collegio. Quel vino, aggiunse, rendeva
servigi migliori dell’acqua di seltz.
Quando il gaudente l’ebbe svuotata, gridai: “tra un
poco apriranno la csárda; che ne dite se entriamo per colazione e ce ne
facciamo stappare altre due?”. “Sicuro, e che tu sia benedetto, compagno
pesarese, buon comunista, caro da Dio!”,
rispose l’amico grato della proposta inopinata.
Intanto Fulvio, Claudio, Ezio e Alfredo, riuniti in
una comunione bizzarra, si spartivano un grosso salame, due enormi cipolle, tre
cetrioli e due peperoni. Quando invitarono me e Danilo, nemmeno noi potemmo
astenerci da tali prelibatezze. Sicché facemmo questo banchetto aurorale.
Le ombre a poco a poco si diluivano nel liquido
solare.
Eravamo contenti e ci sembrava di vedere gioie
maggiori che ammiccavano a noi, ci facevano segni d’intesa. Io pensavo che se
ero piaciuto a Elena sarei piaciuto per sempre, alla vita che amavo con tutto
me stesso dopo che avevo smesso di sentirmi rinnegato da lei. Ma già con
quella finnica mora mora, formosa, dalla pelle bianca e liscissima, dalla
tunica candida, la mia vita era giunta vicina allo splendore zenitale.
Erano già trascorsi tre anni da quell’alba ricca
di amici, di canti, di affetti. Nel 1974 la danza non era ancora diventata
macabra ma il tempo della comunione tra noi mortali era già consumato in gran
parte, quasi finito.
Da cinque anni
oramai imperversavano le stragi e altre ce ne sarebbero state. Rimaneva l’amore
per una donna. Con il senno di adesso dico che questo non può funzionare a
lungo, se rimane isolato dal contesto sociale.
3 Cfr. Platone (Timeo 47 a). Lo ricorda
Giuliano Augusto: oujrano;n
fhsi Plavtwn hJmi'n genevsqai th'" sofiva" didavskalon (A Helios re 3, 38, 1)
4 Cfr. Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni VI,
2, 2, il piacere malsano di bere e vegliare tutta la notte. Era uno dei vizi
dell’eroe macedone.
5 Cfr. A. Manzoni, Adelchi,
secondo coro “Com’era allor che umprovida/d’un avvenir fallace,/lievi pensier
virginei/solo pingea.”