La preghiera nell’attesa dell’uscita di
Helena dal collegioPetros, Dialoghi di Platone
Il giorno seguente aspettavo che Elena uscisse dal suo collegio, il numero 1. E pregavo. Invocare gli dèi, anche se possono non ascoltarci, ha sempre una qualche bellezza (1).
Talvolta è persino utile quando si incappa in una sorte distorta.
Si corre il rischio di non ricevere udienza da Dio, chiunque egli sia, ma il rischio è bello, afferma Socrate nel Fedone (2), e non a torto.
Pregavo e pensavo: “Dio fai che Elena mi ami. S’io meritai di te assai o poco (3), ricompensami. Meriterò ancora mentre ch’io vivo.
Devo ribattezzarmi dentro di lei. O addirittura rinascere, entrare nel corpo suo e uscirne rigenerato. Finora ho sofferto senza diventare cattivo. Ho preso botte e non ho picchiato, mi hanno ingannato e non ho mai detto bugie, sono stato umiliato e non ho offeso nessuno. Ora è giunto il momento di raccogliere i frutti. Do ut des: ipse amari opto (4).
A Pesaro, nel liceo Terenzio Mamiani, passavo i compiti di greco e latino ai somari, dalla quarta ginnasio all’esame di maturità, con rischi non piccoli, eppure, siccome aborrivo i putridi luoghi comuni degli ignoranti di quella cittadina sepolcrale, la moribunda sedes Pisauri (5), di quel borgo selvaggio (6), dicevano che mi davo delle arie insopportabili; in casa le donne mi trattavano come se fossi stato inameno e incapace di vivere da persona normale, probabilmente per tenermi al guinzaglio il più a lungo possibile.
Potevo diventare uno dei tanti animali rabbiosi e bavosi, invecchiati male alla catena.
A un certo punto mi sentivo così monco e contraffatto che quando udivo urlare un uomo, strillare una donna, latrare un cane (7), perfino grugnire un porcellotto grasso, pensavo che ce l’avessero con me.
Ripetevo Il passero solitario nei miei romitaggi e piangevo
A Bologna dove arrivai nel 1963, sprovveduto, disorientato e spaesato, dovevo chiedere spesso informazioni, chiarimenti, e mi sono sentito addirittura dare del “busone” da uno studente felsineo, un imbecille in vena di battute volgari e del tutto inappropriate alla mia persona (8) .
Nei primi mesi, Bologna per me non aveva tracce né voci. Ci vivevo da straniero e da estraneo. Inquilinus civis urbis Bononiae, un meteco tra gli ultimi, quando papa Giovanni era morto da poco, papa Francesco era ancora troppo lontano e pochi concepivano la carità.
In quel periodo le mie pene non avevano misura né numero e il male gareggiava con il male e sciagura su sciagura si posava, e colpi sempre più forti controbattevano i colpi. Sono sceso agli inferi come Enea, ho evocato i morti come Odisseo, sacrificando e versando però nella fossa il mio stesso sangue non quello di arieti e pecore nere (9).
Ho cominciato a stare meglio proprio qui a Debrecen, nell’estate del 1966.
Dio mi aiutò. Fulvio anche mi aiutò molto allora.
Nel ’68 sono fiorito con non poco ritardo. Ora siamo nel ’71: non sono più un ragazzino.
Sicché, Dio benedetto, chiunque tu sia, ti ringrazio di avermi reso giustizia, già quasi del tutto, attraverso questa splendidissima femmina umana, di avermi fatto diventare decente, anzi piacente di aspetto, di avermi insomma miracolato.
Mi sto insinuando nel favore di me stesso e mi ci conserverò a lungo.
Domani, se, appena sveglio, non troverò uno specchio dove possa vedermi tutto intero, ammirerò la mia ombra ben fatta camminando nel sole” (10).
Questo pensavo.
Il mio narcisismo gioioso usava espressioni già testimoniate. Me lo avevano insegnato Eschilo e Callimaco (11) prima, poi Terenzio, T. S. Eliot (12) e tanti altri ottimi autori.
“Con l’amore di questa donna sto recuperando l’amor proprio, e pure quello dei miei parenti che non mi hanno compreso, né io avevo compreso loro”.
La porta del collegio si aprì: ne stava uscendo Elena con il suo vestito bianco, leggero, morbido, e attillato tanto da metterle in superbo risalto il seno, grande, pieno di palpiti, colmo di calda vita, ricco di nutrimento spirituale per l’anima mia.
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1 Cfr. Euripide, Troiane, 470: “o[mw~ d’ ecei ti sch`ma kiklhvskein qeouv~”.
2 Kalo;~ ga; r oJ kivnduno~ (114 d)
3 Cfr. Dante, Inferno, XXVI, 80-81
4 Cfr. Catullo, 76, 25 Ipse valere opto, io voglio avere salute.
5 Catullo 81, 3., quel mortorio di Pesaro. Definizione che vale ancora per i mesi autunnali e invernali.
6 Cfr. Leopardi, Le ricordanze, 30.
7 Cfr. Shakesperare, Riccardo III, I, 1.
8 Un paio di decenni più tardi altri, meno imbecilli, mi avrebbero appiccicato l’etichetta del donnaiolo, non del tutto a sproposito a dire il vero.
10 Di nuovo Shakespeare, Riccardo III (III, 1). E’ riuscito ad attirare Lady Anne della quale ha ucciso il marito e il suocero.
11 Callimaco (305 240ca a. C.) afferma: "ajmavrturon oujde; n ajeivdw" (Fr. 612) Pfeiffer., non canto nulla che non sia testimoniato.
12 In una famosa recensione Ulysse, Order and Myth, "The Dial", nov. 1923. all'Ulisse di Joyce Del 1922., T S. Eliot definiva il metodo mitico, in opposizione a quello narrativo, come il modo di controllare, di dare una forma e un significato all'immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea. "Instead of narrative method, we may now use the mythical method ", invece del metodo narrativo possiamo ora avvalerci del metodo mitico. Alla fine di The Waste Land Eliot afferma: "These fragments I have shored against my ruins" (v. 430), con questi frammenti ho puntellato le mie rovine.
1 agosto 1971.
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