Un servo chiede cure mediche per Lamaco che si è riempito di ferite. Sono traumi fisici molto diversi dal vulnus amoroso che abbiamo segnalato nella Didone di Virgilio e anche dall’ulcus, la piaga, pure questa causata dall’amore che Lucrezio depreca.
L’uomo ajnhvr , cioè lo stratego scemo, tetrwvtai 1178 si è ferito contro un palo saltando in una trincea diaphdw`n tafron- , la caviglia si è slogata e girata all’indietro, si è rotta la testa cadendo su un sasso e ha risvegliato la Gorgone dello scudo.
I comandanti di questo conflitto sono degli incapaci eletti probabilmente per la loro demagogìa lusinghevole e fallace. Tale inettitudine diverrà rovinosa non solo per tali duces gloriosi ma per l’intera città di Atene durante la pedizione in Sicilia (415-413) voluta da Alcibiade che dovrà allontanarsene e condotta male dallo stesso Lamaco e da Nicia che vi perderanno la vita.
Caduto sulle pietre il gran pennacchio dello spaccone ptivlon de; to; mevga kompolakuvqou peso;n-pro;" tai`" pevtraisi (1182- 1183), Lamaco si diede a cantare una canzone tremenda: “inclito occhio del giorno ora vedo la tua luce per l’ultima volta: non sono più io”- oujkevt j ei[m j ejgwv- (1184-1185). La guerra serve se non altro a smontare i fanfaroni che si sono pavoneggiati nell’intraprenderla: toglie loro la maschera di eroismo, grandezza e autorevolezza rivelandoli quali poveri uomini.
Quindi lo stratego ferito entra in scena malconcio e sorretto da due soldati.
Si lamenta per “questi odiosi dolori agghiaccianti”- stugera; tavde ge kruera; pavqea- resi visibili dal trucco sull’attore, quindi esagera non senza del resto prevedere la propria fine che avverrà nel 413: “diovllumai doro;" ujpo; polemivou tupeiv"” (1194), muoio colpito da una lancia nemica.
La sofferenza aumenterebbe se Diceopoli lo vedesse poi sghignazzasse sulle sue sventure.
L’orrore della derisione è dichiarato insopportabile da Aiace che nella tragedia di Sofocle arriva a uccidersi e da Medea che in quella di Euripide ammazza i propri figli dopo avere detto a se stessa:
“Su via, non risparmiare nulla di quello che sai,
Medea, nel progettare e nell'ordire:
procedi verso l’orrore: adesso è una prova di ardimento.
Vedi quello che subisci? non devi dare motivo di derisione
ai discendenti di Sisifo per queste nozze di Giasone,
tu che sei nata da nobile padre e discendi dal Sole.
E poi lo sai: oltretutto noi donne siamo
per natura assolutamente incapaci di nobili imprese,
ma le artefici più sapienti di tutti i mali” (Medea, 401- 409).
Entra in scena appunto Diceopoli tra due cortigiane discinte
Palpa due tettine dure come mele cotogne - tw`n tutqivwn, wj" slhra; kai; kudwvnia- 1199.
I meli cotogni erano alberi sacri ad Afrodite come si legge nel frammento più famoso di Ibico (seconda metà del VI secolo): "in primavera firiscono i meli cotogni, alberi sacri ad Afrodite, irrigati dalle correnti dei fiumi dov'è il giardino intatto delle vergini, e i fiori della vite crescendo sotto i tralci ombrosi dei pampini sbocciano, ma per me Eros rimane sveglio e tormentoso. Come Borea tracio bruciante sotto la folgore, egli avventandosi dalla parte di Cipride con aride follie, oscuro e impudente, con prepotenza e senza tregua fa la guardia al mio cuore" (6 D.).
L’amore di Ibico è tormentoso, mentre il sesso fatto da Diceopoli è ilare.
Il pacifista di Aristofane non si fa mancare il vino per inebriare il suo festeggiamento mentre lo stratego vulnerato lamenta le proprie tormentose ferite- ijwv ijwv, traumavtwn ejpwduvnwn (1205).
I piccoli traumi di Diceopoli sono leggeri e piacevoli punture amorose: tiv me su, davknei" ; (1209), tu perché mi mordi?
Lamaco: “lavbesqe, mou, lavbesqe tou` skevlou" : papai`,- proslavbesqj , w\ fivloi ” (1214-1215), tenetemi, tenetemi la gamba, ahi, ahi, tiratela al posto giusto o cari.
Il controcanto del pacifista: “ejmou` dev ge sfw; tou` pevou" a[mfw mevsou-proslavbesq j, w\ fivlai ” (1216-1217), a proposito voi due prendetemi il bischero nel mezzo, e tiratelo come si deve o care.
Lamaco lamenta ancora vertigini e capogiro per avere battuto la testa.
Diceopoli replica: “kajgw; kaqeuvdein bouvlomai kai; stuvomai-kai; skotobiniw` ” (1220-1221) e io voglio andare a letto, ce l’ho duro e non ci vedo dalla voglia di fottere
Seguono altri lamenti del guerrafondaio e grida di giubilo dell’amante della pace, delle donne e del vino.
Il portavoce del coro, oramai del tutto convito, sta dalla parte di Diceopoli ed esulta con lui (1233-1235).
Fine degli Acarnesi di Atristofane
Mie sono le traduzioni e miei i commenti. Ne prendo la responsabilità “sanza tema d’infamia”.
giovanni ghiselli
p. s
dedicherò a questa lezione uno degli otto incontri di ottobre-novembre alla Primo Levi,
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