giovedì 9 settembre 2021

La storia di Päivi 21. Tragedia e commedia. Un Prometeo da dramma satiresco

Quella sera sulla collina sopra il Danubio fu la nostra ultima in Ungheria, il culmine dell’intesa amorosa. Da questo momento la fiamma di Eros iniziò a intiepidirsi, il suo fulmine a perdere forza e velocità. Un poco alla volta, ma irreversibilmente, come succede spesso. Per non cadere nel patetico sul tipo di “il grande amore sta per finire con dolore e lacrime” voglio ricordare un particolare comico e mitico. Ciò che finisce dopo tutto non ha nessuna ragione per continuare, e va bene che termini. La fine deve essere festeggiata quanto l’inizio. Sarebbero guai molto seri se la relazione continuasse tra noia e dolore. L’amore sparisce solo quando non può durare più a lungo nella bellezza e nella pienezza. Le cose ontologicamente belle restano eterne, e brillano come stelle nella notte, per sempre o quasi per sempre. 

 Ora ti faccio fare due risate, lettore, per contrastare la malinconia della decadenza di questo amore e, soprattutto, il terrore della nostra mortalità. "Comedy escapes", la commedia è evasione, fa dire Woody Allen a un personaggio del film Melinda e Melinda. In un altro film del medesimo autore, Crimini e misfatti, un personaggio dice: “Comedy is tragedy plus time”, la commedia è la tragedia più il tempo. La Poetica di Aristotele afferma che la tragedia vuole rappresentare personaggi migliori di quelli reali (beltivou") mentre la commedia è imitazione di uomini peggiori rispetto a quelli di ogni giorno (ceivrou" tw'n nu'n 1448a), ossia ancora più volgari, e tali che non suscitano tanto lo sdegno quanto il riso provocato dalla visione del ridicolo. "Il ridicolo" infatti spiega il filosofo "è qualche cosa di sbagliato" (aJmavrthma, 1449a). La commedia è mivmhsi" faulotevrwn imitazione di personaggi che valgono poco per il ridicolo (to; geloi'on) che è parte del brutto. Il ridicolo è un errore ed è una bruttezza indolore e non è deleterio (aJmavrthmav ti kai; ai\sco" ajnwvdunon kai; ouj fqartikovn), proprio come la maschera comica è qualche cosa di brutto e stravolto ma senza dolore (Poetica, 1449a). L'errore del resto viene menzionato dal filosofo di Stagira anche per i personaggi tragici (aJmartiva, Poetica, 1453a); la differenza è che nei loro confronti deve nascere pietà e terrore, mentre la commedia non produce dolore né compassione. Dunque ridiamoci su. Ora comprendo - ajrti manqavnw - come dice Admeto[1] il quale chiese alla sposa Alcesti di morire al posto di lui - che continuare il nostro rapporto sarebbe stato un errore tragico o comico, e che, stando insieme altro tempo, non a noi due destinato, saremmo diventati peggiori di come eravamo in quel mese del 1974. Prima di arrivare alla catastrofe dunque, prendiamo tempo con una brevissima commedia, o piuttosto un dramma satiresco, con un uomo come protagonista umano, un’aquila, l’uccello di Zeus, quale deuteragonista, e il coro formato da una brigata di avvinazzati. Sulla terrazza del ristorante Silvanus dove mangiavamo, volteggiava l’uccel di Dio[2]. Da un tavolo non lontano dal nostro si faceva notare Danilo che l’insana dulcedo perpotandi[3] aveva spinto ad alzare il gomito innumerevoli volte. Alla levata di ogni bicchiere gridava: “Chi non è vil, mi segua” come un condottiero che vuole arginare una rotta imminente. Poi gli veniva in mente Francesco Redi e citava: “Passavoga, arranca, arranca, ché la ciurma non si stanca, anzi lieta si rinfranca quando arranca inverso Brindisi: Arianna, brindis, brindisi. E se a te brindisi io fo, perché a me faccia il buon pro, Ariannuccia vaguccia, belluccia, cantami un poco, e ricantami tu sulla mandola la cuccurucù, la cuccurucù la cuccurucù, sulla mandola la cuccurucù”. Poi tra un sorso e l’altro della compotazione augurava salute a tutti, assenti e presenti, e da uomo colto qual è, recitava senza alcuno sforzo anche la parte di Eracle beone nell’Alcesti di Euripide: “eu[fraine sauto;n, pi'ne, to;n kaq j hJmevran - bivon logivzou so;n, ta; d j a[lla th'ς tuvchς”[4]. I suoi commensali già impregnati di aperitivi lo ascoltavano, probabilmente senza capirlo, poi ripetevano i due trimetri con storpiature puntualmente corrette dall’improvvisato capobanda che si sbracciava mimando le mosse di un direttore d’orchestra. Ogni tre minuti qualcuno toglieva da una nuova bottiglia il tappo a forma di fungo, lo liberava dalla sua prigione di fil di ferro e versava il nobile liquido per elettrizzare lo stomaco con il suo gelido e profumato frizzare. Il vino scendeva rapido come un torrente montano nei gargarozzi profondi di questa brigata dall’aria allegra. Il tripudio dionisiaco non poteva restare privo di danze: ogni tanto il corifeo gridava: “babai' coreu'sai parakalei' m j oJ bakcio"”[5], quindi si metteva a danzare tra gli applausi frenetici del resto del coro e di noi spettatori. Come ebbe smesso il ballerino, soddisfattissimo, disse: "Accedant capiti meo cornua Bacchus ero"[5bis].   Dopo le libagioni a tutti gli dèi del cielo, della terra e del sottosuolo, il capo del tiaso, il dotto simposiarca giurò sull’ennesima coppa che non vi avrebbe mai versato dell’acqua[6], poi, oramai farfugliante si distese sopra la tovaglia. Ancora un goccio, un breve schiamazzo fatto di strani versi, e stramazzò. Le braccia e le mani non avevano più la forza di reggere nemmeno un bicchiere minuscolo. Aveva indosso calzoni corti e bretelle. Pochi minuti più tardi dormiva, o, forse, era svenuto. Dopo avere salutato a gesti l’addormentato sul tavolo, i suoi compagni di canti, declamazioni e bevute, una masnada di grossi Russi inclini alla crapula, se ne erano andati. Un’aquila in cerca di cibo per sé e forse anche per gli aquilotti, visto l’uomo solo e resupino, probabilmente lo aveva scambiato per Prometeo legato sulla rupe scitica e voleva strappargli il fegato. Calò un paio di volte su di lui, ma poi cambiò la direzione e l’intento: il grande rapace arrivato a pochi metri dalla sua preda, respinto e sconvolto dall’odore acre dell’alcol più volte esalato a soffioni , si impennò verso il cielo con una virata così repentina che una delle “sacre penne”[7] le cadde da un’ala e si posò sulla fronte dell’ebbro dormiente facendone una specie di alpino che sogna la libera uscita con la ragazza senza mutande, non senza, però, la bottiglia. Lo feci notare a Päivi e commentai la strana visione dicendo che il grande uccello, colpito dall’esalazione eruttata dall’amico imbevuto, non se l’era sentita di andare a frugare nelle sue viscere e aveva ripreso la via dell’etere puro. “Il cane alato di Zeus, l'aquila sanguinaria non aveva fatto a brani, voracemente, il grande straccio madido del suo corpo e tanto meno ne aveva inghiottito il fegato, nero pasto"[8]. Utilizzai opportunamente Eschilo non senza confessare il mio debito al grande maestro. Päivi mi guardò con ammirazione e disse: “in te c’è qualche cosa di folle e pure di geniale” “Ce la metto tutta per sembrarti geniale - risposi - è questa apparenza che ti ha attirata e spinta ad amarmi. Con questa cerco di trattenerti”. ”May be”[9] replicò senza scomporsi, anzi accentuando la sua solita aria da Sfinge. Avrai notato, lettore, che quando l’amore è in fase calante si parla con scarsa chiarezza. Per non impegnarsi, perché si è già capito che il tempo concesso da Eros è scaduto. Lo stesso avviene nella fase incipiente quando non si è ancora giunti a decidere e tutto può essere: “may be” replicava pure alle mie prime proposte. Intanto Danilo si era svegliato e non trovando i compagni si mise a gridare tra i fumi dell’alcol e quelli del sonno.“Dormite iam et requiescite? Sufficit, venit hora[10]. Basta l’ora è giunta”, tradusse. Quindi concluse: “Questo è tutto”. E si addormentò un’altra volta. Non lo incontreremo mai più. Tuttavia sono contento di farvi sapere che è ancora vivo. 


Pesaro 9 settembre 2021 ore 16, 39 
giovanni ghiselli 
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[1] Euripide, Alcesti 940 
[2] L’aquila in Dante, Paradiso, VI, 4. 
[3] L’insano piacere di bere a dismisura. Era uno dei vizi di Alessandro Magno secondo Curzio Rufo ( Historiae Alexandri Magni, (VI, 2, 2) 
[4] Alcesti, 778 - 779, rallegrati, bevi, conta come tua la vita di ogni giorno, il resto è della sorte. 
[5] Euripide Ciclope, 156. oh, Bacco mi invita a danzare! 
[5 bis] Cfr. Ovidio, Heroides, 15, 24. Si aggiungano le corna al mio capo, sarò Bacco. 
[6] Cfr. Aristofane, Lisistrata, 197. 
[7] Dante, Paradiso, VI, 7. 
[8] Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, vv, 1021 - 1025 
[9] Può essere. 
[10] N. T. Marco 14, 41). 

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