venerdì 17 settembre 2021

La storia di Päivi. 30. La sofferenza che aiuta a capire.

L’amore tra noi con l’abortimento della nostra creatura era finito, e non solo l’amore. Non avevamo più niente da fare insieme, niente da dirci, Päivi mi aveva già dato e detto tutto quanto doveva per farmi comprendere che lo studio disciplinato dei libri buoni poteva aiutarmi a vivere meglio, a essere meno meschino, vuoto, insignificante. Non mi doveva più niente e non voleva più niente da me. Non volle nemmeno dirmi se aveva abortito. Io, per sapere questo, le scrissi durante l’autunno, l’inverno e la primavera: una volta ogni due settimane spedivo lettere per diversi mesi, invitandola sempre a rispondere almeno alle domande sulla salute e sui sentimenti suoi; inoltre rimasi sessualmente fedele alla sua immagine per centosettantadue giorni, fino all’11 marzo del 1975, quando conobbi una collega giovane, attraente e ben disposta nei miei confronti, seppure sposata da poco, malmaritata probabilmente, mentre lei, Päivi dico, non aveva cura di me e non rispondeva alle lettere mie. Telefonai, anche, diverse volte, nel monolocale di Yväskylä dove mi aveva ospitato in settembre, ma quella donna, ferocemente, si faceva negare, oppure alle mie domande angosciose e incalzanti rispondeva in maniera generica, elusiva, evasiva. Ora mi chiedo: se quando abbiamo concepito il bambino, e poi per un mese, ci siamo amati e siamo stati felici, perché non abbiamo fatto nascere la nostra creatura? Rispondo: perché non ci amavamo abbastanza a vicenda, perché ciascuno di noi non amava se stesso e la vita tanto da creare la vita. E questa carenza di amore in me era causata da un sentimento di insufficienza: mi sentivo intelligente a metà, buono a metà, bello a metà. Il sentimento del cinque che probabilmente angosciava anche lei. Ciascuni di noi era un dimidiatus o anche meno di una mezza creatura, tanto che la nostra unione l’unione non fu sufficiente a metterne insieme una intera. Soltanto egoisti eravamo del tutto ambedue. Ciascuno di noi aveva amato non la persona dell’altro, e nemmeno la propria, ma la stranezza, l’esoticità dell’amante, la propria emozione passeggera, e la bella cornice di tutta la storia: l’Università di Debrecen, la “grande foresta” con il ponticello sul lago dove gracidava la rana lontana, il sangue di toro di Eger, la palinka all’albicocca e così via. Insomma abbiamo funzionato benissimo per un mese bello in una bella vacanza bella. Poi basta. Dopo non funzionava più niente tra noi. L’uno aveva già dato all’altro, e già preso, tutto quello che c’era di bello. Il resto sarebbe stato solo noia e dolore. Pesaro 18 settembre 2021 ore 0, 54 giovanni ghiselli

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