lunedì 6 settembre 2021

La storia di Päivi 18. Il Budaörsi kollegium di Budapest, mausoleo del nostro amore

Nel 1974, dopo il mese di Debrecen, il corso estivo ebbe un’appendice di qualche giorno a Budapest. Di lì facemmo una gita a Visegrád, situata su un’ansa del Danubio, dove il grande fiume divide l’Ungheria dalla Slovacchia. 
A Buda eravamo alloggiati nell’enorme Budaörsi kollegium dove potemmo avere una camera tutta per noi: la 717 del settimo piano. Il collegio era tutt’altro che bello; non era nemmeno vicino alle strade del centro dove la città sfoggia gli edifici venusti, come fa una donna vanitosa con i vestiti eleganti, i monili raffinati e le pietre preziose. Eravamo dunque lontani da luoghi ameni, da posti eleganti e da ogni sfarzo costruito, scolpito o dipinto. Eravamo comunque felici. 

Ricordo un pomeriggio. Affacciati all’alta finestra, senza avere niente da fare, né compagni da frequentare siccome molti erano già partiti, né i nostri libri da leggere, aspettavamo la pioggia da una nuvola inquieta che prima aveva trasformato il sole splendente in un’ombra arancione, poi l’aveva cancellato del tutto, quindi si era allungata in un cono nero e vorticoso fino alla collina del Gellert, risucchiando con il suo turbinare le foglie già cadute da tempo e diventate secche nella polvere della lunga canicola già prossima al termine. La vacanza era quasi finita, finiva l’estate, probabilmente anche l’amore nostro era vicino all’ultimo giorno, e stavamo là senza far niente. Eppure tra noi non c’era angoscia né noia. La pena non c’era perché sentivamo che i doni reciproci sarebbero comunque rimasti a nutrire e arricchire per sempre gli spiriti nostri. Il tedio nemmeno siccome tra noi lo scambio di idee e sentimenti dettati dalla simpatia e dalla curiosità dell’uno per l’altra era ancora vivace e frequente. Gioivamo di ogni istante spremendolo in bocca, con i denti, la lingua e il palato, come se quei minuti fossero un alimento prezioso che ci avrebbe nutrito per anni. A questo punto della parabola ne sono passati più di quarantasette. E ancora quel sapore rimane. Le nostre parole, sebbene non dette nella lingua madre, sapevano sempre di vita, di lavoro, di umanità, donne bambini e uomini, di fatti reali o progettati. Insomma non erano chiacchiere né luoghi comuni. Vedevamo ogni cosa come problema, un ostacolo che ci faceva saltare e salire sempre più in alto. 

Dopo quei brevi giorni felici vissuti al Budaörsi, se passo davanti a quella tomba monumentale dove giacciono i nostri ricordi, situata come un guardiano alla porta occidentale di Budapest, a sinistra per chi proviene dall’Italia e dal Balaton, mi fermo a osservare l’alta facciata grigia, individuo la camera nostra, la 717 del settimo piano, la contemplo a lungo, ricordo la sera nuvolosa che segnò la fine dell’estate del 1974, e mi chiedo quando troverò di nuovo una donna dalla mente così lucida, dallo stile tanto elevato, e capace di non annoiarmi mai con la sua presenza, di non prosciugare né intorbidare le mie energie mentali, di non farmi sciupare il tempo prezioso, il tempo pur troppo breve di questa vita mortale che scorre a precipizio sulla nostra bellissima madre terra. Il tempo è davvero l’unico bene che considero veramente mio: “omnia… aliena sunt, tempus tantum nostrum est”1. Tanta roba mia hanno rubato, ma il tempo non me lo sono mai lasciato portare via. 



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[1] Seneca, Epistulae, I, 3.

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