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Ora è la volta di Euripide che reciterà dei versi e farà
vedere che non ci sono zeppe - stoibhvn, imbottitura, parole
riempitive, non giustificate ed estranee a quanto si dice e[xw tou` lovgou (1179).
Dioniso gli dà la parola.
Il poeta parte dalla sua Antigone (non pervenuta a
noi) che inizia affermando Edipo prima era un uomo felice: “ h\n Oijdivpou" to; prw`ton
eujdaivmwn ajnhvr” 1182
Eschilo controbatte che invece era kakodaivmwn fuvsei, disgraziato per natura. Già prima di nascere era
condannato dal destino a uccidere il padre.
Quindi Euripide recita il verso 2 della sua Antigone
dove aggiunge “ei\t
j ajqliwvtatoς brotw'n”, poi Edipo diventò
il più disgraziato dei mortali (Rane, 118) , rilevandone il capovolgimento a farmakovς.
Esschilo replica che Edipo è sempre stato infelice:
appena nato, d’inverno, lo esposero in un vaso di coccio (ejn ojstravkw/ 1190), poi oijdw'n tw; povde,
gonfio nei piedi, andò da Polibo, quindi ancora giovane sposò una vecchia e[peita grau'n e[ghmen aujto;ς w]n neovς (1193) che per giunta era sua madre e alla fine ejxetuvflwsen auJtovn, si acciecò (Rane, 1194) .
Dioniso ironicamente dice “sì, felice come Erasinode”.
Era uno degli
strateghi delle Arginuse che pure dopo la vittoria vennero condannati a morte a
furor di popolo.
Fu un momento assai critico della democrazia ateniese.
Vediamone alcuni aspetti raccontati da Senofonte
Ci fu un processo contro gli strateghi che non avevano
salvato i naufraghi durante la tempesta successiva alla battaglia (406),
Gli accusati
nella loro difesa, breve poiché non fu concesso loro il tempo di parlare
stabilito dalla legge "kata; to; novmon" (Elleniche,
I, 7, 5), ricordarono di avere appunto ordinato a Teramene e Trasibulo di
soccorrere i naufraghi, ma non volevano incolparli solo perché venivano
accusati da loro, anzi ribadivano che era stata la violenza della tempesta a
impedire il recupero: "ajlla; to; mevgeqo" tou' ceimw'no" ei'jnai to; kwlu'san
thvn ajnaivresin"(I, 7, 6).
“Gli strateghi volevano in definitiva salvare tutti,
diluendo le responsabilità fra se stessi e i trierarchi a loro subordinati; ma
è proprio Teramene che, ad evitare anche ogni possibile sviluppo negativo,
parte all’attacco, calcando la mano sulla responsabilità degli strateghi, i
quali finiscono necessariamente schiacciati tra il furore del popolo e le
accuse del subordinato” .
Già gli accusati stavano convincendo l'assemblea,
quando il dibattito venne aggiornato dopo tre dì di festa, e per la volta
seguente i seguaci di Teramene prepararono uomini vestiti di nero e rasati
("pareskeuvsan
ajnqrwvpou" mevlana iJmavtia e[conta" kai ejn crw' kekarmevnou" ", I, 7, 8) perché si presentassero in assemblea
come se fossero parenti dei morti. Quindi convinsero il consigliere Callisseno
a formulare una proposta di condanna a morte. Si presentò perfino un tale a
dire che si era salvato sopra un barile di farina (favskwn ejpi; teuvcou"
ajlfivtwn swqh'nai, I, 7, 11) e che i
naufraghi morendo lo avevano incaricato di accusare gli strateghi di mancato
soccorso. Ci fu un tentativo di difesa, ma nella massa oramai era stato
inoculato l'odio e il desiderio del capro espiatori ed essa gridava che era
grave se qualcuno non permetterva al popolo di fare quanto voleva ("to; de; plh'qo" ejbova
deino;n ei\nai, eij mhv ti" ejavsei to;n dh'mon pravttein o} a]n bouvlhtai", I, 7, 12)."E' la rivendicazione che
riecheggia minacciosamente in assemblea ad Atene durante il processo popolare
contro i generali delle Arginuse", è, come vedremo, "la formula che
caratterizza, secondo Polibio, la degenerazione della democrazia (VI, 4,
4:" quando il popolo è padrone di fare quello che vuole")”.
Da notare che la parola plh`qo~ ,
dalla radice pla-/plh
(q), è imparentata con i
vocaboli latini plebs, plenus, impleo (riempio).
Euripide ribadisce che i suoi prologhi sono belli
(1197)
Eschilo afferma che basta un lhkuvqion, una boccetta, un’ampollina, un vaso di piccole
dimensioni a collo stretto per demolire i prologhi di Euripide. Infatti i versi
del rivale sono composti in modo che dentro può starci tutto: una pelliccetta,
una boccetta, una borsetta, 1200
Piccoli oggetti che si confanno alla poesia
micrologica di Euripide il quale dovrà recitare tre versi di suoi prologhi, ed
Eschilo metterà la zeppa lhkuvqion
ajpwvlesen perse la boccetta 1203.
L’autore della
grandiosa Orestea si appresta a dimostrare la pochezza del rivale sfidandolo ad
autocitarsi.
Euripide parte dal mito delle Danaidi: cita due versi
e mezzo del prologo dell’Archelao dove si racconta che Egitto sbarcò in Argo con
i suoi cinquanta figli che inseguivano le cinquanta figlie di Danao
Eschilo aggiunge lhkuvqion ajpwvlesen perse
la boccetta (1208).
Dioniso invita Euripide a fare un altro tentativo
Il poeta allora cita tre versi dal prologo
dell’Ipsipile con Dioniso che si lancia danzando sul Parnaso tra le fiaccole
(1211-1213)
Eschilo ripete il suo ritornello lhkuvqion ajpwvlesen perse la boccetta.
Euripide fa un terzo tentativo tentando di dare voce a
una legge universale, ma dopo tutto si tratta di un tovpo" molto diffuso.
Sono i primi versi della perduta Stenebea la regina di
Tirinto (o di Argo) la moglie di Preto la quale si innamorò di Bellerofonte
come abbiamo già detto
Vediamoli: “ oujk e[stin o{stiς pavnt janh;r eujdaimonei ', non c’è uomo che sia felice in tutto se “nato bene
non ha di che vivere, se in umil sorte…
Eschilo completa con il solito: perse la boccetta
L’impossibilità di essere felice Euripde la denuncia
compiutamente nella Medea
“Tra i mortali infatti non c'è nessun uomo che sia
felice,
quando passa un'ondata di prosperità, uno può
diventare
più fortunato
di un altro, ma felice nessuno” (vv. 1228- 1230)
Voglio aggiungere una considerazione di didattica e di
politica a questa parte del mio commento.
Quando si fa presenta un testo a un uditorio, oppure a
dei lettori, si devono fare delle citazioni testuali per confermare i giudizi
sul testo, insomma la critica. Credo che anche la critica politica debba fare
dei nomi, citare delle parole dei personaggi criticati e ricordare i loro atti.
Altrimenti la critica è inefficace, è aria fritta.
Nel numero odierno del quotidiano “la Repubblica” a
pagina 24 c’è un articolo di Michele Serra intitolato “L’epoca della
fragilità”.
L’argomento è quello trattato anche da me nei pezzi di
ieri
L’incipit di Serra è questo: “Effettivamente la
spigolatrice di Sapri mostra il culo, su questo non c’è dubbio”. L’insieme del
pezzo è ragionevole: l’autore insomma non dice cose storte. Però non dice
abbastanza. Non fa nomi perché non gli conviene e non riferisce le bestialità
dette da personaggi che hanno avuto ruoli di responsabilità nella nostra
Repubblica. Ho già riferito che Laura Boldrini ha detto che quella statua è
un’offesa contro le donne e rinnovo la citazione.
Giuste sono queste parole di Serra: “pare che quel
bronzo costituisca volontaria offesa alla libertà delle donne di non apparire
come un oggetto sessuale: argomento così indiscutibile, e così forte, che ci si
meraviglia possa essere messo a repentaglio da un paio di natiche di bronzo”
Seguono parole che invece voglio criticare ma prima
devo citarle: “Ecco, forse l’epoca della suscettibilità è soprattutto l’epoca
della fragilità. Ci si sente messi a repentaglio da molto poco, da un’opinione
avversa, da un luogo comune consumato, da una statua sgradita”.
Questa, correggo e aggiungo, è prima di tutto l’epoca
dell’assenza dello spirito critico, dell’appiattimento e del servilismo. Quelli
che vengono messi a repentaglio sono i beni supremi della cultura e libertà di
parola, del giudizio ossia della krivsi" ,
della facoltà del dissenso.
Pesaro 28 settembre 2021 ore 19
giovanni
ghiselli
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