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Eschilo dice: le viscere mi si rivoltano
ta; splavgn j
ajganaktei' a dover rispondere a
Euripide (1006).
Comunque gli chiede per quale motivo (tivnoς ou[neka) si deve ammirare un poeta (crh; qaumavzein a[ndra poihthvn).
Euripide risponde: per la capacità di
correggere i difetti o{ti beltivouς te poiou'men tou;ς ajnqrwvpouς ejn tai'ς povlesin (1009) dato che rendiamo gli uomini migliori nelle
città.
Eschilo replica: tu invece li hai resi
da buoni e nobili, scelleratissimi mocqhrotavtouς (1011).
“Merita la morte” commenta Dioniso.
Eschilo prosegue nella sua accusa: io te
li avevo lasciati valorosi e forti, alti 4 cubiti (un metro e ottanta), non
scansafatiche e chiacchieroni, linguacciuti, mascalzoni, ma guerrieri con elmi,
cimieri, e gambali.
Euripide teme che il rivale fabbricando
elmi lo schiaccerà facendolo tribolare. Poi gli domanda come abbia fatto a renderli
tanto valorosi .
“dra'ma
poihvsaς [Arewς mestovn” (1021) scrivendo un dramma pieno di Ares risponde il
rivale.
E’ il giudizio di Gorgia (fr. 27 D.-K)
sui Sette a Tebe, un dramma pieno di Ares.
Chiunque
avesse visto {Ept j ejpi; Qhvba" - continua
Eschilo-desiderava diventare un combattente hjravsqh davioς ei\nai.
Dioniso prende questo in malam partem:
così hai fatto del male: hai reso i Tebani più valorosi in guerra. E vuole
picchiarlo.
Excursus. Tebe, la peggior nemica di
Atene.
L’odio tra Tebani e Ateniesi è
riscontrabile in diverse tragedie: in primis l’Edipo a Colono di Sofocle e le
Baccanti di Euripide che raffigurano una città malata, un paese guasto,
l’antipolis.
Dopo la battaglia di Egospotami un tebano avrebbe persino proposto di radere al
suolo Atene (Plutarco, Vita di Lisandro,
15)”.
Plutarco racconta che il tebano Erianto
suggerì di radere al suolo la città e abbandonare la campagna come pascolo alle
pecore. Ma Euripide, che pure era già morto da un paio di anni, salvò Atene; durante un convito un focese
cantò alcuni versi della parodo dell’Elettra (167ss. “Figlia di Agamennone,
sono giunta nella tua rustica casa”). A sentire questa poesia tutti i
comandanti si intenerirono e sembrò troppo crudele distruggere una città così
illustre che produceva uomini tanto grandi.
Senofonte nei Memorabili ricorda un paio
di sconfitte inflitte agli Ateniesi dai Tebani (quella di Lebedea del 447 e
quella di Delio del 424, battaglia cui partecipò anche Socrate).
Dopo questi successi, dice Pericle il
giovane, gli Ateniesi che prima devastavano la Beozia, oiJ provteron porqou`nte"
th;n Boiwtivan, ora temono che siano i Beoti a saccheggiare
l’Attica fobou`ntai
mh; Boiwtoi; dh/wvswsi th;n jAttikhvn (III, 5, 5).
Una Norimberga antica.
I vincitori giudicano i vinti
Segue l'episodio di Platea che sembra bilanciare
la violenza degli Ateniesi con quella degli Spartani e dei loro alleati Tebani.
Riferiamolo per sommi capi. Nell'estate del 427 Platea, fedele alleata storica
di Atene, ridotta allo stremo delle forze, si arrese ai Peloponnesiaci. Sparta
inviò cinque giudici e istruì un processo. Si vede che già all'epoca i
vincitori giudicavano i vinti per punirli come
criminali di guerra. A me sembra
una tautologia.
I Plateesi illustrano le proprie
benemerenze: ricordano innanzitutto la loro partecipazione alle guerre
persiane, soli tra i Beoti ("movnoi Boiwtw'n",
Tucidide, La guerra del Peloponneso,
III, 54, 3). Sostengono che se nella guerra in corso, minacciati dai
Tebani e respinti dagli Spartani, non hanno tradito gli Ateniesi i quali li
hanno soccorsi, non hanno commesso ingiustizia. I Tebani che li odiano,
all'epoca parteggiarono per i barbari. I Plateesi dunque si appellano,
nobilmente, all'onore degli Spartani che rimarebbe macchiato da un eccidio
tanto ingiusto: "bracu;
ga;r to; ta; hJmevtera swvmata diafqei'rai, ejpivponon de; th; duvskleian
aujtou' ajfanivsai", III, 58, 2), è
un attimo distruggere i nostri corpi, ma sarà faticoso cancellarne il disonore.
Viene ancora impiegato il linguaggio aristocratico dell'onore e quello
religioso della pietas tradizionale che
ingiungeva di non ammazzare i supplici:" oj de; novmo" toi'" {Ellhsi mh;
kteivnein touvtou" ( III, 58, 3)
Quindi parlarono i Tebani propugnando lo
sterminio dei Plateesi con l'argomento che essi sono sempre stati complici
degli Ateniesi oppressori dei Greci. La sentenza fu di morte per non meno di
duecento Plateesi ("dievfqeiran
de; Plataiw'n me;n aujtw'n oujk ejlavssou" diakosivwn", III 68, 2) e per i venticinque Ateniesi che
erano rimasti con loro nell'assedio. "Nelle orazioni dei Plateesi e dei
Tebani- commenta Jaeger- dopo la presa dell'infelice Platea, dinanzi alla
commissione esecutiva spartana, la quale per salvare le apparenze, dà al mondo
lo spettacolo d'un dibattimento giudiziario, in cui i confederati degli
accusatori sono ad un tempo giudici, è mostrata l'incompatibilità tra guerra e
giustizia. L'opera di Tucidide è ricca di contributi alla questione delle
parole d'ordine politiche e della relazione tra ideologia e realtà nella
politica. Gli Spartani, quali rappresentanti della libertà e del diritto,
stando al loro assunto sono costretti a volte all'ipocrisia morale, mentre in
genere fanno ben coincidere le belle parole d'ordine col proprio
interesse" .
“E’ noto che, nel corso del processo di
Norimberga, fu negata agli imputati nazisti la possibilità di avvalersi del
principio del tu quoque, e cioè di partire dai crimini loro contestati per
richiamare l’attenzione sui crimini analoghi commessi dai loro accusatori. Allo
stesso modo si svolse il processo di Tokyo. Certo, è la giustizia del
vincitore” .
Fine dell’excursus
Eschilo: alla guerra ho educato prima
voi Ateniesi con la mia tragedia Persiani (del 472). Vi ho
insegnato a voler vincere i nemici.
Tutti i poeti hanno insegnato cose
utili: Orfeo teletavς, i riti sacri, e ad astenerci dal sangue fovnwn ajpevcesqai (1052)
Per Orfeo maestro dei vegetariani cfr.
l’Ippolito di Euripide dove Teseo dice al figlio: prendendo Orfeo come signore,
vantati con i tuoi cibi per la dieta vegetariana (di’ ajyuvcou bora'ς, 952).
Tornamo ai poeti civilizzatori
presentati da Eschilo
Museo ha insegnato le cure delle
malattie (ejxakevseiς novswn) e gli oracoli (crhsmouvς)-1053) , Esiodo gh'ς
ejrgasivaς, i lavori della terra, le stagioni dei frutti karpw'n w{raς e le arature (1054), il divino Omero gli
schieramenti, il valore guerresco e gli armamenti degli eroi (tavxeiς ajretavς
oJplivseiς ajndrw'n).
Insomma la poesia è stata educatrice e
civilizzatrice.
Orazio nell’Ars poetica scrive:
“silvestris homines sacer interpresque
deorum
Caedibus et victu foedo deterruit
Orpheus
Dictus ob hoc lenire tigris rabidosque
leones.
Dictus et Amphion, Thebanae conditor
urbis,
Saxa movere sono testudinis et prece
blanda
ducere quo vellet. Fuit haec sapientia
quondam,
publica privatis secernere, sacra
profanis,
concubitu prohibere vago, dare iura
maritis,
Oppida moliri, leges incidere ligno.
Sic honor et nomen divinis vatibus atque
Carminibus venit. post hos insignis
Homerus
Tyrtaeusque mares animos in Martia bella
Versibus exacuit: dictae per carmina
sortes,
et vitae mostrata via est, et gratia
regum
Pieriis temptata modis, ludusque
repertus
Et longorum operum finis, ne forte
pudori
Sit tibi Musa lyrae sollers et cantor
Apollo (391-407)
Gli uomini delle selve distolse dalle
stragi e dal cibo orrendo il santo e interprete degli dèi Orfeo, detto per questo che ammansiva le
tigri e i rabbiosi leoni.
Si disse anche di Anfione, fondatore
della città di Tebe, che muoveva le pietre con il suono della cetra e con dolce preghiera le conduceva dove
volesse. Fu questa un tempo la sapienza: separare il pubblico dal privato, il
sacro dal profano, distogliere dagli accoppiamenti sregolati, imporre i doveri
ai coniugi, e fondare città, incidere le leggi nel legno. Così l’onore e la fama giunse ai divini poeti e
alla poesia. Dopo questi distinto è Omero
e Tirteo con i versi stimolò il coraggio virile alle guerre di Marte:
gli oracoli vennero dati in versi, e fu mostrata la via della vita, e il favore
dei re fu cercato con le melodie delle Pieridi e si inventò la festa culturale
e la pausa delle lunghe fatiche. Allora non accada che ti sia di vergogna la
Musa abile nella lira e Apollo cantore.
Foscolo I Sepolcri 9-.96
“Dal dì che nozze e tribunali ed are
Diero alle umane belve esser pietose
Di sé stesse e d’altrui, toglieno i vivi
All’etere maligno ed alle fere
I miserandi avanzi che Natura
Con veci alterne a sensi altri destina”
228-229
Me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
Del mortale pensiero animatrici
Se posso
pregare anche io le figlie di Zeus e della Memoria, mi permetto di
variare la preghiera di Foscolo
“Me ad evocar le donne chiamin le Muse”
Infatti, e ora impiego, variandolo,
Marziale citato sopra: “ le mie pagine, che in molti avete letto e leggete,
sanno di donna”.
In Le Grazie di Foscolo le Chariti sono
venute a incivilire gli uomini quando
erano animali tellurici
“ quando apparian le Grazie, i
cacciatori
E le vergini squallide, e i fanciulli
L’arco e ’l terror deponeano, ammirando”
( Inno primo Venere 115-117)
Prima di loro “ esiliato- n’era ogni Dio
da’ figli della terra- duellanti a predarsi! (135-137
Eschilo menziona Lavmacoς h{rwς (1039) tra i guerrieri che lo hanno ispirato
. Forse è una palinodia rispetto al sbeffeggiamento di Lamaco negli Acarnesi e
nella Pace. Lamaco era morto in Sicilia nel 413.
Il poeta voleva dare ai cittadini tali
modelli eroici appunto.
Eschilo poi si vanta di non avere creato
Fedre e Stenebèe povrnaς , sgualdrine né mai un’ ejrw'san gunai'ka (1043) una
donna in amore
Manzoni nel Fermo e Lucia (1823) scrive
“di amore ce n’è seicento volte di più di quanto sia necessario alla
conservazione della nostra riverita specie . Io stimo dunque opera impudente
l’andarlo fomentando con gli scritti. Non si deve scrivere di amore in modo da
far consentire l’animo di chi legge a questa passione”.
Euripide
ribatte: “certo, in te infatti
non c’era nulla di Afrodite”.
Bologna 25 settembre 2021 ore 9, 15
giovanni ghiselli
p. s. Ieri sono stato a Granarolo, a
cena con i miei allievi del liceo Minghetti maturati nel 1977, nati dunque
1958.
Ho respirato di nuovo l’atmosfera bella
e buona degli anni Settanta quando le persone si volevano bene. E’ stata una
bella serata.
Ringrazio tutti loro. Che Dio li
benedica.
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