sabato 25 settembre 2021

Le Rane di Aristofane. XXIII parte. I poeti quali educatori e fondatori della civiltà. Bisognerebbe leggerli ancora


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Eschilo dice: le viscere mi si rivoltano ta; splavgn  j  ajganaktei' a dover rispondere a Euripide (1006).

Comunque gli chiede per quale motivo (tivnoς ou[neka) si deve ammirare un poeta (crh; qaumavzein a[ndra poihthvn).

 

Euripide risponde: per la capacità di correggere i difetti  o{ti beltivouς te poiou'men tou;ς ajnqrwvpouς ejn tai'ς povlesin (1009) dato che rendiamo gli uomini migliori nelle città.

 

Eschilo replica: tu invece li hai resi da buoni e nobili, scelleratissimi mocqhrotavtouς (1011).

 

 “Merita la morte” commenta Dioniso.

 

Eschilo prosegue nella sua accusa: io te li avevo lasciati valorosi e forti, alti 4 cubiti (un metro e ottanta), non scansafatiche e chiacchieroni, linguacciuti, mascalzoni, ma guerrieri con elmi, cimieri, e gambali.

 

Euripide teme che il rivale fabbricando elmi lo schiaccerà facendolo tribolare. Poi gli domanda come abbia fatto a renderli tanto valorosi .

  dra'ma poihvsaς   [Arewς mestovn” (1021) scrivendo un dramma pieno di Ares risponde il rivale.

 

E’ il giudizio di Gorgia (fr. 27 D.-K) sui Sette a Tebe, un dramma pieno di Ares.

Chiunque avesse visto   {Ept j ejpi; Qhvba" - continua Eschilo-desiderava diventare un combattente hjravsqh davioς ei\nai.

 

Dioniso prende questo in malam partem: così hai fatto del male: hai reso i Tebani più valorosi in guerra. E vuole picchiarlo.

 

Excursus. Tebe, la peggior nemica di Atene.

L’odio tra Tebani e Ateniesi è riscontrabile in diverse tragedie: in primis l’Edipo a Colono di Sofocle e le Baccanti di Euripide che raffigurano una città malata, un paese guasto, l’antipolis.

Dopo la battaglia di Egospotami un  tebano avrebbe persino proposto di radere al suolo Atene (Plutarco,  Vita di Lisandro, 15)”.

 Plutarco racconta che il tebano Erianto suggerì di radere al suolo la città e abbandonare la campagna come pascolo alle pecore. Ma Euripide, che pure era già morto da un paio di anni,  salvò Atene; durante un convito un focese cantò alcuni versi della parodo dell’Elettra (167ss. “Figlia di Agamennone, sono giunta nella tua rustica casa”). A sentire questa poesia tutti i comandanti si intenerirono e sembrò troppo crudele distruggere una città così illustre che produceva uomini tanto grandi.

 

Senofonte nei Memorabili ricorda un paio di sconfitte inflitte agli Ateniesi dai Tebani (quella di Lebedea del 447 e quella di Delio del 424, battaglia cui partecipò anche Socrate).

Dopo questi successi, dice Pericle il giovane, gli Ateniesi che prima devastavano la Beozia, oiJ provteron porqou`nte" th;n Boiwtivan,  ora temono che siano i Beoti a saccheggiare l’Attica fobou`ntai mh; Boiwtoi; dh/wvswsi th;n  jAttikhvn (III, 5, 5).

 

Una Norimberga antica.

I vincitori giudicano i vinti

Segue l'episodio di Platea che sembra bilanciare la violenza degli Ateniesi con quella degli Spartani e dei loro alleati Tebani. Riferiamolo per sommi capi. Nell'estate del 427 Platea, fedele alleata storica di Atene, ridotta allo stremo delle forze, si arrese ai Peloponnesiaci. Sparta inviò cinque giudici e istruì un processo. Si vede che già all'epoca i vincitori giudicavano i vinti per punirli come  criminali di guerra.  A me sembra una tautologia.

I Plateesi illustrano le proprie benemerenze: ricordano innanzitutto la loro partecipazione alle guerre persiane, soli tra i Beoti ("movnoi Boiwtw'n", Tucidide, La guerra del Peloponneso,   III, 54, 3). Sostengono che se nella guerra in corso, minacciati dai Tebani e respinti dagli Spartani, non hanno tradito gli Ateniesi i quali li hanno soccorsi, non hanno commesso ingiustizia. I Tebani che li odiano, all'epoca parteggiarono per i barbari. I Plateesi dunque si appellano, nobilmente, all'onore degli Spartani che rimarebbe macchiato da un eccidio tanto ingiusto: "bracu; ga;r to; ta; hJmevtera swvmata diafqei'rai, ejpivponon de; th; duvskleian aujtou' ajfanivsai", III, 58, 2), è un attimo distruggere i nostri corpi, ma sarà faticoso cancellarne il disonore. Viene ancora impiegato il linguaggio aristocratico dell'onore e quello religioso della pietas  tradizionale che ingiungeva di non ammazzare i supplici:" oj de; novmo" toi'" {Ellhsi mh; kteivnein touvtou" ( III, 58, 3)

 Quindi parlarono i Tebani propugnando lo sterminio dei Plateesi con l'argomento che essi sono sempre stati complici degli Ateniesi oppressori dei Greci. La sentenza fu di morte per non meno di duecento Plateesi ("dievfqeiran de; Plataiw'n me;n aujtw'n oujk ejlavssou" diakosivwn", III 68, 2) e per i venticinque Ateniesi che erano rimasti con loro nell'assedio. "Nelle orazioni dei Plateesi e dei Tebani- commenta Jaeger- dopo la presa dell'infelice Platea, dinanzi alla commissione esecutiva spartana, la quale per salvare le apparenze, dà al mondo lo spettacolo d'un dibattimento giudiziario, in cui i confederati degli accusatori sono ad un tempo giudici, è mostrata l'incompatibilità tra guerra e giustizia. L'opera di Tucidide è ricca di contributi alla questione delle parole d'ordine politiche e della relazione tra ideologia e realtà nella politica. Gli Spartani, quali rappresentanti della libertà e del diritto, stando al loro assunto sono costretti a volte all'ipocrisia morale, mentre in genere fanno ben coincidere le belle parole d'ordine col proprio interesse" .

“E’ noto che, nel corso del processo di Norimberga, fu negata agli imputati nazisti la possibilità di avvalersi del principio del tu quoque, e cioè di partire dai crimini loro contestati per richiamare l’attenzione sui crimini analoghi commessi dai loro accusatori. Allo stesso modo si svolse il processo di Tokyo. Certo, è la giustizia del vincitore” . 

 

Fine dell’excursus

 

 

Eschilo: alla guerra ho educato prima voi Ateniesi con la mia tragedia Persiani (del 472). Vi  ho  insegnato a voler vincere i nemici.

Tutti i poeti hanno insegnato cose utili: Orfeo teletavς, i riti sacri, e ad astenerci dal sangue  fovnwn ajpevcesqai (1052)

 

Per Orfeo maestro dei vegetariani cfr. l’Ippolito di Euripide dove Teseo dice al figlio: prendendo Orfeo come signore, vantati con i tuoi cibi per la dieta vegetariana (di’ ajyuvcou bora'ς, 952).

 

Tornamo ai poeti civilizzatori presentati da Eschilo

 

Museo ha insegnato le cure delle malattie (ejxakevseiς novswn) e gli oracoli (crhsmouvς)-1053) , Esiodo gh'ς ejrgasivaς, i lavori della terra, le stagioni dei frutti karpw'n w{raς  e le arature (1054), il divino Omero gli schieramenti, il valore guerresco e gli armamenti degli eroi (tavxeiς ajretavς oJplivseiς ajndrw'n).

Insomma la poesia è stata educatrice e civilizzatrice.

 

Orazio nell’Ars poetica scrive:

“silvestris homines sacer interpresque deorum

Caedibus et victu foedo deterruit Orpheus

Dictus ob hoc lenire tigris rabidosque leones.

Dictus et Amphion, Thebanae conditor urbis,

Saxa movere sono testudinis et prece blanda

ducere quo vellet. Fuit haec sapientia quondam,

publica privatis secernere, sacra profanis,

concubitu prohibere vago, dare iura maritis,

Oppida moliri, leges incidere ligno.

Sic honor et nomen divinis vatibus atque

Carminibus venit. post hos insignis Homerus

Tyrtaeusque mares animos in Martia bella

Versibus exacuit: dictae per carmina sortes,

et vitae mostrata via est, et gratia regum

Pieriis temptata modis, ludusque repertus

Et longorum operum finis, ne forte pudori

Sit tibi Musa lyrae sollers et cantor Apollo (391-407)

Gli uomini delle selve distolse dalle stragi e dal cibo orrendo il santo e interprete degli  dèi Orfeo, detto per questo che ammansiva le tigri e i rabbiosi leoni.

Si disse anche di Anfione, fondatore della città di Tebe, che muoveva le pietre con il suono della cetra e  con dolce preghiera le conduceva dove volesse. Fu questa un tempo la sapienza: separare il pubblico dal privato, il sacro dal profano, distogliere dagli accoppiamenti sregolati, imporre i doveri ai coniugi, e fondare città, incidere le leggi nel legno. Così  l’onore e la fama giunse ai divini poeti e alla poesia. Dopo questi distinto è Omero  e Tirteo con i versi stimolò il coraggio virile alle guerre di Marte: gli oracoli vennero dati in versi, e fu mostrata la via della vita, e il favore dei re fu cercato con le melodie delle Pieridi e si inventò la festa culturale e la pausa delle lunghe fatiche. Allora non accada che ti sia di vergogna la Musa abile nella lira e Apollo cantore. 

Foscolo I Sepolcri  9-.96

“Dal dì che nozze e tribunali ed are

Diero alle umane belve esser pietose

Di sé stesse e d’altrui, toglieno i vivi

All’etere maligno ed alle fere

I miserandi avanzi che Natura

Con veci alterne a sensi altri destina”

228-229

Me ad evocar  gli eroi chiamin le Muse

Del mortale pensiero animatrici

 

Se posso  pregare anche io le figlie di Zeus e della Memoria, mi permetto di variare la preghiera di Foscolo

“Me ad evocar le donne chiamin le Muse”

 

Infatti, e ora impiego, variandolo, Marziale citato sopra: “ le mie pagine, che in molti avete letto e leggete, sanno di donna”.

 

In Le Grazie di Foscolo le Chariti sono venute a incivilire  gli uomini quando erano animali tellurici

 

“ quando apparian le Grazie, i cacciatori

E le vergini squallide, e i fanciulli

L’arco e ’l terror deponeano, ammirando” ( Inno primo Venere 115-117)

Prima di loro “ esiliato- n’era ogni Dio da’ figli della terra- duellanti a predarsi! (135-137

 

 

 

Eschilo menziona Lavmacoς h{rwς  (1039) tra i guerrieri che lo hanno ispirato . Forse è una palinodia rispetto al sbeffeggiamento di Lamaco negli Acarnesi e nella Pace. Lamaco era morto in Sicilia nel 413.

Il poeta voleva dare ai cittadini tali modelli eroici appunto.

Eschilo poi si vanta di non avere creato Fedre e Stenebèe povrnaς , sgualdrine né mai un’ ejrw'san gunai'ka (1043) una donna in amore

 

Manzoni nel Fermo e Lucia (1823) scrive “di amore ce n’è seicento volte di più di quanto sia necessario alla conservazione della nostra riverita specie . Io stimo dunque opera impudente l’andarlo fomentando con gli scritti. Non si deve scrivere di amore in modo da far consentire l’animo di chi legge a questa passione”.

 

Euripide  ribatte: “certo, in te  infatti non c’era nulla di Afrodite”.

 

Bologna 25 settembre 2021 ore 9, 15

giovanni ghiselli

 

 

p. s. Ieri sono stato a Granarolo, a cena con i miei allievi del liceo Minghetti maturati nel 1977, nati dunque 1958.

Ho respirato di nuovo l’atmosfera bella e buona degli anni Settanta quando le persone si volevano bene. E’ stata una bella serata.

Ringrazio tutti loro. Che Dio li benedica.

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