Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino.
Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
Debrecen 1980. Capitolo 7. La gara podistica; seconda parte
La gara podistica seconda parte
Verso la fine del penultimo giro,
a 450 metri
dall’arrivo, poco prima di passare davanti a Ifigenia Fulvio e Alfredo che mi
incitavano a gran voce e mostravano di credere nella vittoria mia, nonostante
mi sentissi prossimo allo stremo, volli fare la prova dello sprint finale che
avrei dovuto ripetere dopo gli ultimi 400 metri se l’avversario non mi avesse
staccato prima. Per non rimanerechiuso
all’interno, mi spostai all’esterno, allungando anche, sia pur di poco, il
percorso, quindi raccolsi gran parte delle forze residue e superai il rivale
sul penultimo traguardo. Gli amici e tifosi applaudirono levando grida di
incoraggiamento. Ancora mancava un giro però. Longe erat meta[1]. Nella
penultima curva il ragazzo francese tornò a superarmi, non con uno scatto, ma
alzando il ritmo delle sue agili, lunghe, potenti falcate.
Ali sembravan le sue gambe snelle[2] Parevano sollevarsi e distendersi
senza fatica, mentre le mie per reggere il ritmo accelerato arrancavano con
rabbia greve e con stento. Aridus e lasso veniebat anhelitus ore[3] Per non rimanere staccato dovevo
frugare a fondo nella mia persona fisica mentale e morale. Feci ricorso anche
al ricordo di imprese atletiche recenti per rinvigorire le forze e darmi animo. In luglio avevo scalato il passo Pordoi, prima da Canazei, poi, dopo
essere disceso dall’altra parte, ero risalito da Arabba senza fermarmi maie con una bici vecchia, pesante, arrugginita. Dovevo raggiungere questo
successo nell’università incantata di Debrecen, rievocando i precedenti.
Nel liceo con tre anni di studio ero
diventato poco più che trentenne l’insegnante più egregio di tutta la scuola e
avevo fatto innamorare di me la collega più giovane e bella. Quella donna era
lì e probabilmente mi avrebbe ripudiato se fossi arrivato secondo. Non mi
voltai ma ero sicuro del cosiddetto posto d’onore perché dietro di me nessuno
fiatava. Alcuni anzi rischiavano di venire doppiati. Ma il secondo posto non
era un onore per me. Non dovevo rassegnarmi prima di avere spremuto l’ultima
goccia di ogni mio succo vitale. Se riuscivo a non farmi distanziare e il
francese non era un centometrista, potevo batterlo ripetendo lo scatto finale
provato e riuscito all’inizio di questo ultimo giro. Stavamo iniziando l’ultima curva
prima del rettilineo finale.
Fu atroce. L'avversario mi attaccò
ancora, scattando a ripetizione. Prese un vantaggio di tre o quattro metri. Quando
sbucai nel rettilineo vidi ifigenia. Agitava le braccia e gridava così forte
che la sentii: "Dai Gianni, dai, non cedere, non cedere!" Mi vennero
in mente tutte le volte che avevo corso gli stadi: prima per meritarmi l'amore
di altre donne e l’autostima, poi per conservare l'ammirazione della
splendidissima donna che era lì, e mi incitava con tutta la forza, e si
aspettava non meno della vittoria da me. "Non cederò - pensai - prima crepo". Richiamai alla memoria tutte le fatiche della mia
travagliosa esistenza per ottenere l'ammirazione, quindi l'amore, delle femmine
umane: dai successi scolastici con i quali volevo conquistare la mamma, le zie
e la bruna Marisa, agli studi su Leopardi per piacere a Luciana, alle citazioni
di Pavese per colpire Helena Sarjantola, alle conversazioni intense di
linguistica con Kaisa, di psicologia con Päivi, allo studio triennale, furioso
ma non disperato, poiché prevedevo che mi avrebbe procurato una meravigliosa
borsa di studio che infatti si era incarnata in Ifigenia quando era ancora
incantevole. Poi le nuotate nel mare di Pesaro, le ore passate in solitudine a
prendere il sole, disidradato nella sabbia rovente, o scorticato dal freddo
delle montagne battute da soffi acuti di ghiaccio, rabbrividendo fino alle
viscere, in solitudine immobile per raccogliere l'abbronzatura che mi rendesse
più bello e più gradito alle donne. Poi i digiuni, le fami, a volte crudeli,
per la linea da asceta pagano e la vita da torero. Nell'itinerario lungo e
difficile c'erano molti sacrifici, tanto dolore, ma anche diversi successi.
Potevo vincere ancora. Feci uno scatto a novanta metri dall'arrivo; ai settanta
avevo raggiunto la schiena dell'antagonista. Temporeggiai per dieci metri, onde
lenire un momento l'affanno, quindi mi portai sulla destra e scattai di nuovo:
lo superai e sentii che perdeva terreno; allora con gli occhi chiusi e il collo
teso all'indietro, senza pensare più a niente, senza respirare, mi scagliai sul
traguardo impiegando tutto quanto di vivo mi rimaneva dentro. Riaprii gli occhi
e respirai, superata la meta. Ifigenia esultava. Mi buttai sul prato. Il
francese arrivò distanziato di un paio di metri. Diego di centocinquanta. Gli
altri dopo di lui".
Fine della gara e di Debrecen
1980 Bologna 21 aprile 2021ore 17, 23
Giovanni ghiselli
p. s. Statistiche del blog Sempre1117965 Oggi301 Ieri525 Questo mese9054 Il mese scorso13315 [1] Ovidio, Metamorfosi,
X, 664. La meta era lontana [2] Cfr. Dante, Inferno,
XVI, 87.
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