mercoledì 21 aprile 2021

Debrecen 1980. Capitolo 7. La gara podistica; seconda parte

La gara podistica seconda parte



Verso la fine del penultimo giro, a 450 metri dall’arrivo, poco prima di passare davanti a Ifigenia Fulvio e Alfredo che mi incitavano a gran voce e mostravano di credere nella vittoria mia, nonostante mi sentissi prossimo allo stremo, volli fare la prova dello sprint finale che avrei dovuto ripetere dopo gli ultimi 400 metri se l’avversario non mi avesse staccato prima. Per non rimanere  chiuso all’interno, mi spostai all’esterno, allungando anche, sia pur di poco, il percorso, quindi raccolsi gran parte delle forze residue e superai il rivale sul penultimo traguardo. Gli amici e tifosi applaudirono levando grida di incoraggiamento. Ancora mancava un giro però. Longe erat meta[1]. Nella penultima curva il ragazzo francese tornò a superarmi, non con uno scatto, ma alzando il ritmo delle sue agili, lunghe, potenti falcate.

Ali sembravan le sue gambe snelle[2]
Parevano sollevarsi e distendersi senza fatica, mentre le mie per reggere il ritmo accelerato arrancavano con rabbia greve e con stento.
Aridus e lasso veniebat anhelitus ore[3]
Per non rimanere staccato dovevo frugare a fondo nella mia persona fisica mentale e morale. Feci ricorso anche al ricordo di imprese atletiche recenti per rinvigorire le forze e darmi animo.
In luglio avevo scalato il  passo Pordoi, prima da Canazei, poi, dopo essere disceso dall’altra parte, ero risalito da Arabba senza fermarmi mai  e con una bici vecchia, pesante, arrugginita.
Dovevo raggiungere questo successo nell’università incantata di Debrecen, rievocando i precedenti.

Nel liceo con tre anni di studio ero diventato poco più che trentenne l’insegnante più egregio di tutta la scuola e avevo fatto innamorare di me la collega più giovane e bella. Quella donna era lì e probabilmente mi avrebbe ripudiato se fossi arrivato secondo. Non mi voltai ma ero sicuro del cosiddetto posto d’onore perché dietro di me nessuno fiatava. Alcuni anzi rischiavano di venire doppiati. Ma il secondo posto non era un onore per me. Non dovevo rassegnarmi prima di avere spremuto l’ultima goccia di ogni mio succo vitale. Se riuscivo a non farmi distanziare e il francese non era un centometrista, potevo batterlo ripetendo lo scatto finale provato e riuscito all’inizio di questo ultimo giro.
Stavamo iniziando l’ultima curva prima del rettilineo finale.

Fu atroce. L'avversario mi attaccò ancora, scattando a ripetizione. Prese un vantaggio di tre o quattro metri. Quando sbucai nel rettilineo vidi ifigenia. Agitava le braccia e gridava così forte che la sentii: "Dai Gianni, dai, non cedere, non cedere!" Mi vennero in mente tutte le volte che avevo corso gli stadi: prima per meritarmi l'amore di altre donne e l’autostima, poi per conservare l'ammirazione della splendidissima donna che era lì, e mi incitava con tutta la forza, e si aspettava non meno della vittoria da me. "Non cederò - pensai - prima crepo". Richiamai alla memoria tutte le fatiche della mia travagliosa esistenza per ottenere l'ammirazione, quindi l'amore, delle femmine umane: dai successi scolastici con i quali volevo conquistare la mamma, le zie e la bruna Marisa, agli studi su Leopardi per piacere a Luciana, alle citazioni di Pavese per colpire Helena Sarjantola, alle conversazioni intense di linguistica con Kaisa, di psicologia con Päivi, allo studio triennale, furioso ma non disperato, poiché prevedevo che mi avrebbe procurato una meravigliosa borsa di studio che infatti si era incarnata in Ifigenia quando era ancora incantevole. Poi le nuotate nel mare di Pesaro, le ore passate in solitudine a prendere il sole, disidradato nella sabbia rovente, o scorticato dal freddo delle montagne battute da soffi acuti di ghiaccio, rabbrividendo fino alle viscere, in solitudine immobile per raccogliere l'abbronzatura che mi rendesse più bello e più gradito alle donne. Poi i digiuni, le fami, a volte crudeli, per la linea da asceta pagano e la vita da torero. Nell'itinerario lungo e difficile c'erano molti sacrifici, tanto dolore, ma anche diversi successi. Potevo vincere ancora. Feci uno scatto a novanta metri dall'arrivo; ai settanta avevo raggiunto la schiena dell'antagonista. Temporeggiai per dieci metri, onde lenire un momento l'affanno, quindi mi portai sulla destra e scattai di nuovo: lo superai e sentii che perdeva terreno; allora con gli occhi chiusi e il collo teso all'indietro, senza pensare più a niente, senza respirare, mi scagliai sul traguardo impiegando tutto quanto di vivo mi rimaneva dentro. Riaprii gli occhi e respirai, superata la meta. Ifigenia esultava. Mi buttai sul prato. Il francese arrivò distanziato di un paio di metri. Diego di centocinquanta. Gli altri dopo di lui".

Fine della gara e di Debrecen 1980
Bologna 21 aprile 2021ore 17, 23 
Giovanni ghiselli

p. s.
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[1] Ovidio, Metamorfosi, X, 664. La meta era lontana
[2] Cfr. Dante, Inferno, XVI, 87.
[3] Ovidio, Metamorfosi, X, 663- secco usciva l’anelico dalla bocca spossata.

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