L’Acropoli e il museo nazionale di Atene. Capo Sunio, Brauron. Elena e Paridemuseo nazionale di Atene
La mattina seguente salimmo sullìAcropoli dove non ci fermammo a lungo perché il Museo era chiuso e Ifigenia aveva paura di rimanere sotto il cielo siccome aveva sentito dire da una barista vaga di ciance che sulla collina grava perpetuamente una nuvola tossica foriera di malattie mortali. Probabilmente tale chiacchiera era messa in giro dai commercianti della Plaka situata sotto l’Acropoli perché i tuisti non salissero su quel colle avvelenato o vi scendessero subito a vantaggio di chi vendeva di tutto. Ma Ifigenia diede cieca fiducia all’incontrollabile voce . Probabilmente sentiva qualche cosa di malato e cattivo dentro di sé e lo proiettava nell’aria, su fino al cielo. Del resto il pur mirabile Partenone non ci commosse quanto Delfi, né quanto Micene e Olimpia visitati l’anno precedente dopo un soggiorno con Fulvio a Debrecen.
Non sentimmo il divino come in quei luoghi sacri: il tempio più grande di Atene ci apparve costruito meravigliosamente ma soprattutto per suscitare meraviglia terrena, politica se vogliamo: mettere in mostra la grande potenza della città esemplare : apparire ai nemici e ai federati asserviti e taglieggiat la signora oltre che la scuola dell’Ellade[1]
Quindi andammo al Museo Nazionale dove ci piacque sopra tutto lo Zeus dell’Artemision: in quella statua di bronzo vedemmo e ci commosse l’idea del divino rappresentata non astrattamente ma attraverso la forma umana còlta nei suoi aspetti migliori: la forza consapevole, la nobile semplicità, la calma sicura dove si manifesta una bellezza serena che non appassisce con il volgere delle stagioni, anzi acquista nuovo vigore siccome incarna una potenza mentale sempre più cosciente di sé, un equilibrio sicuro, musicale delle parti del copo armonizzate con quelle dell’anima.
“Anche io come questo maestro-dissi- vorrei trovare e rappresentare in immagini chiare, luminose, il significato eterno delle tue belle membra, del nostro amore, e del piacere tanto coporeo quanto mentale che ne traemmo”.
Ifigenia in quel momento gioì del proposito mio.
Una gioia che poi rinnegò.
Nel pomeriggio ci recammo a Capo Sunio per vedere il tempio di Poseidone e pregare il dio. Avrei voluto farlo in un duetto con lei alzando al cielo le braccia tra le colonne,ma Ifigenia era ancora distratta dal pensiero fastidioso della nuvola tossica.
Per tornare ad Atene cambiammo strada e giungemmo a Brauron.
Ricordai che l’Ifigenia di Euripide dopo la Tauride avrebbe custodito le chiavi del tempio di Artemide nelle sacre praterie di Brauron (ajmfi; semna;" leivmaka"- braurwniva", Ifigenia fra i Tauri 1462-1463) . Lì poi sarebbe morta e sarebbe stata sepolta la figlia di Agamennone. “Riceverai ornamento dei pepli e i tessuti che le donne morte di parto lasciano nelle loro case” ujfav~, a{~ a]n gunai`ke~ ejn tovkoi~ yucorragei`~-lipw`s j ejn oi[koi~ (1465-1466). Questo le preannuncia la dea Atena nell’esodo dell’a tragedia.
Ma Ifigenia in carne e ossa, brutta o bella copia che fosse della fanciulla Pelopide, non gradì questo mio sfoggio e tanto meno di venire accostata a una ragazza che prima era stata designata come vittima dal padre, poi era stata relegata tra i barbari, e infine destinata alla custodia di un tempio luttuoso.
Disse di non essere tagliata per quella parte: si sentiva piuttosto simile a Elena, più donna, più bella, più libera, tanto che aveva piantato il re suo marito per seguire un principe di passaggio che le piaceva di più.
“E adesso dov’è Menelao il tuo biondo marito? E’ pure il tuo eterno marito?” le domandai. Speravo di non essere io, anche perché non sono biondo, tanto meno marito.
“Non c’è-rispose-Adesso sto bene con te Pavri" gunaimanhvv"”[2].
Fui contento di questo. Ne era contenta anche lei. Bastava non addentrarsi nelle questioni di fondo: si poteva scherzare, citare, recitare, sempre comunque ponendosi dei limiti che impedissero pure di sfiorare la zona malata, ferita, ulcerata dell’anima dell’altro.
Bologna 10 aprile 2021, ore 14 e 55
giovanni ghiselli
p. s.
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