Pompeo Batoni, Cleopatra e Marco Antonio morente |
Entrano in scena le guardie. Antonio dice: “I have done my work ill, friends” (Shakespeare, Antonio e Cleopatra, IV, 14, 105), ho compiuto male il mio lavoro, amici.
Didone invece, prima di suicidarsi, riconosce a se stessa delle capacità realizzative che l'avrebbero anche resa felice se non avesse incontrato Enea Vixi et quem dederat cursum Fortuna peregi,/et nunc magna mei sub terras ibit imago" (Eneide, IV, vv. 652-654), ho vissuto e compiuto il percorso che la Fortuna mi aveva assegnato, e ora, grande. l'ombra della mia persona andrà sotto terra.
"Urbem praeclaram statui, mea moenia vidi,/ulta virum poenas inimico a fratre recepi:/heu nimium felix, si litora tantum/numquam Dardaniae tetigissent carinae " (vv. 655-658), ho fondato una città splendida, ho visto mura mie, vendicato il marito, ho punito il fratello nemico: oh troppo felice, se solo le le navi della Dardania non avessero mai toccato le nostre coste!
Quindi Antonio ferito chiede alle guardie di portare a termine il lavoro da lui iniziato infliggendosi una ferita che non lo ha ucciso.
Tutti i presenti recalcitrano e Antonio ripete la richiesta aggiungendo l’elemento patetico dell’amore: Let him that loves me strike me dead (107), chi mi ama mi colpisca a morte.
Ma le guardie si rifiutano ed escono.
Plutarco racconta che il colpo infertosi da Antonio non era tale da provocare una morte istantanea - h\n d’ oujk eujquqavnato" hj plhghv (Vita, 76, 10).
Perciò pregò i presenti di finirlo - ejdei`to tw`n parovntwn ejpisfavttein aujtovn. Ma quelli fuggivano dalla stanza mentre il ferito gridava e si dibatteva. Antonio non è più capace di soddisfare nessun suo desiderio, neppure quello della morte. Continuò così finché giunse Diomhvdh" oj grammateuv" (76, 11) Diomede il segretario mandato da Cleopatra che come sappiamo non era morta, né ferita.
Plutarco aggiunge solo che Antonio saputo che Cleopatra era via ordinò ai servi di sollevarlo - kai; dia; ceirw`n posekomivsqh tai`" quvrai" tou` oijkhvmato" -
Shakespeare invece attribuisce delle parole a Diomede subentrato alle guardie. Alla domanda di Antonio “dov’è?”, il segretario risponde “Lock’ d in her monument”, chiusa nel suo msusoleo. diomede adduce delle scuse per la mentita morte della sua padrona: ella si è inventata il proprio decesso perché temeva l’ira (rage latino rabies) di Antonio e chiede scusa anche di essere giunto toppo tardi.
In effetti abbiamo visto Antonio infuriato nei confronti della zingara (gipsy IV, 12, 28) nel momento in cui le attribuiva la colpa della rovina nella quale era caduto.
Excursus sull’ira
Nei testi classici l’ira viene spesso attribuita agli uomini di potere.
Edipo è in preda all'ira quando minaccia Tiresia: non tralascerò nulla, irato come sono ("wJ" ojrgh'" e[cw", Sofocle, Edipo re , 345) e pure quando uccide Laio ("paivw dij ojrgh'"", colpisco con ira, v. 807). "L'ira appare tratto distintivo di ogni figura di tiranno venga rappresentata sulla scena; essa trova una particolare evidenza nell'Antigone e nell'Edipo re sofoclei. Sia Creonte fin dall'inizio, sia Edipo, da quando incomincia a sospettare un complotto contro il suo potere (è dunque in questo caso il principio della degenerazione che trasforma il buon re paterno del prologo in una figura tirannica), appaiono soggetti all'ira, incapaci perciò di un dialogo rispettoso dell'interlocutore e di una decisione meditata. "Taci, prima di riempirmi d'ira con le tue parole" (Antigone , v. 280), esclama Creonte, quasi ad interrompere il resoconto col quale la guardia lo sta informando del clandestino seppellimento di Polinice. E, a conclusione quasi della scena, nuovamente lo redarguisce: "Non ti rendi conto di parlare di nuovo in modo irritante? (Antigone , v. 316)[1].
L'ira di Edipo continuerà a colpire i nemici anche dopo la morte: nell' Edipo a Colono
Ismene dice al padre che un giorno il suo cadavere sarà un grave peso (bavro" , v. 409) per i Cadmei, quindi la
ragazza precisa: "th'" sh'" uJp ' ojrgh'", soi'" o{tan stw'sin tavfoi"
" (v. 411), a causa della tua ira, quando
staranno presso la tua tomba. Lo ha fatto sapere Apollo delfico (v. 413).
L'ira per i Latini è una forma di pazzia. Orazio sentenzia:"ira furor brevis est " (Epist. I, 2, 62), l'ira è una breve follia.
Seneca considera l'ira un' insania e un sintomo di impotenza:" iram dixerunt brevem insaniam; aeque enim impotens sui est ", dissero che l'ira è una breve pazzia; infatti è incapace di dominarsi, proprio come quella (De ira , I, 1). Inoltre non è naturale l'ira poiché essa desidera infliggere pene (poenae appetens est , I, 6) mentre la natura dell'uomo non vuole questo:"ergo non est naturalis ira ", I, 6). L'ira non è naturale (non est naturalis ira) poiché la natura dell'uomo non è poenae appetens, non è bramosa di infliggere pene. L'ira non ha alcuna utilità:"nihil habet in se utile" (9). Nell'ira per giunta non c'è niente di grande né di nobile, neppure quando appare impetuosa e sprezzante degli dèi e degli uomini:"Nihil ergo in ira, ne cum videtur quidem vehemens et deos hominesque despiciens, magnum, nihil nobile est " (21).
"Perché proprio questo caratterizza il monarca, poter fare ciò che vuole senza essere soggetto ad alcun controllo"[2].
La nutrice della Medea di Euripide mette in rilievo la sfrenatezza derivata dalla prepotenza cui ella contrappone l'uguaglianza: "Deina; turavnnwn lhvmata kai; pw" - ojlig j ajrcovmenoi, polla; kratou'nte", - calepw'" ojrga;" metabavllousin. - To; ga;r eijqivsqai zh'n ejp j i[soisin-krei'sson" (vv. 119-123), terribile è l'animo dei tiranni e poiché di rado come che sia sono subordinati, e il più delle volte comandano, difficilmente elaborano le ire.
Nel Thyestes di Seneca, Megera aizza l'ombra di Tantalo perché scateni l'ira tra i suoi discendenti e si crei la compiuta peccaminosità:"Nihil sit, ira quod vetitum putet:/fratrem expavescat frater, et gnatum parens/gnatusque patrem; liberi pereant male/peius tamen nascantur; immineat viro/infesta coniux; bella trans pontum vehant;/effusus omnes irriget terras cruor,/supraque magnos gentium exultet duces/libido victrix; impia stuprum in domo/levissimum sit fratris; et fas et fides/iusque omne pereat. Non sit a vestris malis/immune coelum" (vv.39-49), non ci sia niente che l'ira consideri vietato: il fratello tema il fratello, il padre il figlio, il figlio il padre; i figli muoiano e nascano anche peggio; la moglie ostile minacci il marito; portino guerre di là dal mare; il sangue sparso bagni tutte le terre, e la libidine vincitrice salti sopra ai grandi capi dei popoli; nell'empia famiglia l'incesto del fratello sia un lievissimo fallo; e le leggi divine, la lealtà, ogni diritto umano perisca. Nemmeno il cielo sia esente dai vostri mali.
L'ira per i Latini è una forma di pazzia. Orazio sentenzia:"ira furor brevis est " (Epist. I, 2, 62), l'ira è una breve follia.
Seneca considera l'ira un' insania e un sintomo di impotenza:" iram dixerunt brevem insaniam; aeque enim impotens sui est ", dissero che l'ira è una breve pazzia; infatti è incapace di dominarsi, proprio come quella (De ira , I, 1). Inoltre non è naturale l'ira poiché essa desidera infliggere pene (poenae appetens est , I, 6) mentre la natura dell'uomo non vuole questo:"ergo non est naturalis ira ", I, 6). L'ira non è naturale (non est naturalis ira) poiché la natura dell'uomo non è poenae appetens, non è bramosa di infliggere pene. L'ira non ha alcuna utilità:"nihil habet in se utile" (9). Nell'ira per giunta non c'è niente di grande né di nobile, neppure quando appare impetuosa e sprezzante degli dèi e degli uomini:"Nihil ergo in ira, ne cum videtur quidem vehemens et deos hominesque despiciens, magnum, nihil nobile est " (21).
"Perché proprio questo caratterizza il monarca, poter fare ciò che vuole senza essere soggetto ad alcun controllo"[2].
La nutrice della Medea di Euripide mette in rilievo la sfrenatezza derivata dalla prepotenza cui ella contrappone l'uguaglianza: "Deina; turavnnwn lhvmata kai; pw" - ojlig j ajrcovmenoi, polla; kratou'nte", - calepw'" ojrga;" metabavllousin. - To; ga;r eijqivsqai zh'n ejp j i[soisin-krei'sson" (vv. 119-123), terribile è l'animo dei tiranni e poiché di rado come che sia sono subordinati, e il più delle volte comandano, difficilmente elaborano le ire.
Nel Thyestes di Seneca, Megera aizza l'ombra di Tantalo perché scateni l'ira tra i suoi discendenti e si crei la compiuta peccaminosità:"Nihil sit, ira quod vetitum putet:/fratrem expavescat frater, et gnatum parens/gnatusque patrem; liberi pereant male/peius tamen nascantur; immineat viro/infesta coniux; bella trans pontum vehant;/effusus omnes irriget terras cruor,/supraque magnos gentium exultet duces/libido victrix; impia stuprum in domo/levissimum sit fratris; et fas et fides/iusque omne pereat. Non sit a vestris malis/immune coelum" (vv.39-49), non ci sia niente che l'ira consideri vietato: il fratello tema il fratello, il padre il figlio, il figlio il padre; i figli muoiano e nascano anche peggio; la moglie ostile minacci il marito; portino guerre di là dal mare; il sangue sparso bagni tutte le terre, e la libidine vincitrice salti sopra ai grandi capi dei popoli; nell'empia famiglia l'incesto del fratello sia un lievissimo fallo; e le leggi divine, la lealtà, ogni diritto umano perisca. Nemmeno il cielo sia esente dai vostri mali.
"L'espressione ira, qua ducis, sequor (v. 953) è probabilmente 'ricalcata' su Ovidio, Heroides 12, 209 (il finale dell'epistola di Medea a Giasone, che si chiude con la prefigurazione della tragedia imminente): Quo feret ira, sequar!, "Dove l'ira mi porterà, la seguirò".
Vedi anche, in Seneca, Agamemnon, vv. 141-142 (è Clitennestra che parla): quocumque me ira, quo dolor, quo spes feret,/hoc ire pergam, " dove mi porta il furore, il dolore, la speranza, là mi precipiterò". Medea, e i personaggi senecani in genere, invertono i dettami dello Stoicismo; spesso il riecheggiamento 'invertito' delle formule stoiche è marcato da richiami espliciti che sottolineano il contrasto"[3].
Torniamo a Shakespeare e per oggi concludiamo
Diomede chiama le guardie che rientrano. Antonio chiede di essere portato dov’è Cleopatra. Sono quattro o cinque che compatiscono il loro capo ma Antonio parla loro con la fierezza del guerriero indomito: fate che il crudele destino non si compiaccia del vostro dolore, date il benvenuto al fato che viene per punirci: lo puniremo noi mostrando di non curarcene. Sollevatemi : io spesso ho condotto voi, portate me ora, buoni amici e abbiante i miei ringraziamenti per tutto- Take me up:-I have led yiu oft: carry me now, good friends,-and have my thanks for all” (IV, XIV, 138-140. Fine della XIV scena.
giovanni ghiselli
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[1]D. Lanza, op. cit, , p. 50.
[2]D. Lanza, Il tiranno e il suo pubblico , p. 43.
[3]
G. B. Conte, op. cit., p. 358.
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