La gara podistica nella pista dello stadio di Debrecen. Prima partestadio di Debrecen
Mi ero proposto di partecipare a una gara podistica nello stadio con l’imperativo categorico di vincerla nonostante diversi concorrenti fossero molto più giovani di me e la distanza, 1500 metri cioè tre giri e mezzo di pista, non fosse quella dei miei allenamenti, né del mio talento. Sono dotato di resistenza più che di scatto ed ero solito allenarmi sui 5000 metri, 12 giri e mezzo. Una distanza dove a livello mondiale primeggiavano gli atleti finlandesi come notai quando aspettavo un figlio da Päivi sperando che sarebbe diventato non solo uno studioso egregio ma anche un ottimo mezzofondista. “Quante immagini un tempo e quante fole” creavano nel mio pensiero le donne che amavo!
Mi restava il desiderio di vincere una gara con degli studenti per tentare la riconquista di una donna che non amavo e non mi amava, ma non ero ancora abbastanza forte da affrontare la solitudine. Eravamo otto agonisti. Li avevo visti allenarsi e conoscevo le loro capacità di corridori. Il più temibile era un francese ventiduenne che si era allenato su quella distanza poco nota alle mie gambe e al mio fiato. Un altro pericoloso era un ventenne di Napoli, Diego, di cui mi aveva parlato l’anno precedente a Debrecen la sua compagna. Questo ragazzo era un centometrista, quindi se non l’avessi staccato mi avrebbe battuto nello sprint finale. Dovevo imporre fin dall’inizio un ritmo elevato. Non c’era una medaglia olimpica in palio ma io vivevo queste prova come cruciale, quasi un bivio posto davanti al prosieguo della mia vita. La zia più attempata sin da quando ero scolaro e tornavo a casa con segnalazioni ottime da parte del maestro diceva che ero un bambino intelligente-deficiente secondo i risultati che conseguivo nelle prove cui mi sottoponeva. A parte la scuola e lo sport, nel resto ero negato: non sapevo accendere la radio, né il fuoco nel fornello. A dire il vero non me ne curavo. Ma nella corsa ero sempre stato bravo e dovevo vincere. Essere deficiente nel correre avrebbe diminuito la mia identità. Un rischio quasi mortale.
Quel giorno non ero del tutto sicuro di me: la competizione era troppo breve e veloce rispetto ai miei ritmi. Anche nella vita ho bisogno di tempi e percorsi lunghi per utilizzare la mia tenacia, la resistenza alla fatica e al dolore, le mie capacità di recupero. Insomma lo scatto non mi si addice.
Ifigenia mi incoraggiava: disse che non potevo non vincere: “tu non puoi vivere ed essere solo secondo”. Quando un’ amante mi dava tale fiducia, preferivo morire che demeritarla.
Al momento della partenza ero nervoso: sul traguardo oltre Ifigenia c’era Fulvio, l’amico più caro, Isabella la ragazza di Diego, l’amica cui l’anno prima avevo confidato i miei sentimenti e una ventina di persone non importanti. Anche con loro tuttavia avrei fatto una bella figura oppure quella del perdente e del deficiente. Indossavo una maglietta gialla con il nome del liceo di Bologna dove credevo che sarei tornato a insegnare se avessi vinto quell’agone fatale. Intorno al bacino avevo un paio di calzoncini rossi, assai leggeri, regalo auspicante di Ifigenia.
Dunque partìi in testa imponendo un ritmo regolare e veloce per distanziare Diego o almeno stancarlo, levargli la lena indispensabile allo scatto finale dopo un percorso che per me era troppo breve, per lui piuttosto lungo. La tattica funzionò: dopo soli 300 metri, ossia all’inizio del terzultimo giro, avevano perso terreno tutti, tranne il francese che mi restava attaccato alle spalle: sentivo il suo fiato e mi sembrava meno affannato, frequente e affaticato del mio.
Intanto ifigenia mi incoraggiava con un tifo continuo. Procedemmo in questa maniera per tutto il giro seguente: io avanti, aspettando con ansia di sentire il suo affanno, lui dietro continuando a tallonarmi e a respirare con frequenza minore della mia. Pensai che avesse polmoni miglori dei miei, capaci di tenere a bada e contenere gli uragani che invece cominciavano a uscire dalla mia bocca. Dal suo respirare capivo che poteva impormi un ritmo più alto se solo l’avesse voluto. Infatti all’inizio del penultimo giro mi sorpassò. Gli altri erano tutti distanziati di molto e tagliati fuori dalla vittoria. Alla peggio, sarei arrivato secondo. Prima di accontentarmi però, dovevo impiegare tutta la mia volontà, il mio amor proprio, ogni mia forza. Prima di cedere dovevo svenire, o morire.
L’antagonista dunque mi superò, poi proseguì nel suo attacco: anche le gambe aveva sciolte e leggere come il fiato e io stentavo a tenere il suo passo. Mi sembrava di ciabattare rigido, contratto, appesantito, mentre quello pareva a suo agio: come se si allenasse, giocando in attesa di darmi il colpo di grazia.
giovanni ghiselli
Continua
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