mercoledì 14 aprile 2021

Viaggio in Grecia, 1981. Capitolo XXIX. Bella Italia, amate sponde, pur vi torno a riveder!

Il giorno seguente mi svegliai molto tardi, tanto che Ifigenia, tutt’altro che mattiniera, era già uscita dalla cabina. 

Trovatomi solo in quella specie di colombario, sepolcreto e colombaia al tempo stesso, presi con calma gli appunti che avrei usato per il capolavoro dovuto all’umanità. Volevo diventare un magister non solo  di lettere classiche ma anche dell’amore, sia di quello serio, sia di quello giocoso, un filosofo dell’amore insomma.

Sarete voi lettori a dirmi se vi ho insegnato qualcosa di utile con il mio sermo amatorius.

In questo caso penserete Ioannes magister erat.

Ma ora procediamo con il traghetto verso le amate sponde dell’Italia. Assolto il compito dello scrivano, mi feci bello cosmetizzandomi come sono solito: mi lavai i capelli e indossai le lenti a contatto; il resto l’avrebbe fatto il sole riflesso per giunta dall’acqua salsa del mare solcata e messa in movimento dalla nave. Mi sarei riempito  di raggi e di flutti, di chiarori e di gorghi.

Quindi con la coscienza tranquilla perché avevo fatto quanto dovevo a me stesso e all’inquieta compagna di viaggio, andai a cercarla sul ponte.

Era seduta vicino alla prua e leggeva Siddharta. Io non avevo libri. Per me era piuttosto tempus cogitandi et  scribendi. Di fatti mi diedi a riflettere sui mesi compresi tra i due viaggi nell’Ellade con Ifigenia: l’anno precedente in automobile, dopo Debrecen, questa volta in bicicletta. Avere tale opportunità offertami dall’immersione nella lettura della comes non mi  dispiacque. Pensavo che leggere è necessario ma talora è paradossalmente una scappatoia dal pensare alle cose fatte, o non fatte, o persino malfatte.

Sicché in certe circostanze non avere niente da leggere può essere un’occasione per fare i conti con il proprio passato e con il destino.

Che cosa avevo fatto di buono nell’esperienza amorosa con quella giovane donna? Quali mete avevo raggiunto? Avevo ripassato e imparato bene quanto Elena Sarjantola mi aveva suggerito quando dieci anni prima mi disse: “io non sono materia”. Allora quella frase mi piacque soprattutto dal punto di vista estetico; con Ifigenia ne avevo acquisito il lato morale per contrasto, perché con l’amante italiana la materia preponderava schiacciando lo spirito. Ora sentivo la mancanza e il bisogno di questo. Non ero rimasto tra gli uomini proni e obbedienti, sì quali bestie, alle pretese del ventre sfacciato.

Come ero potuto uscire da quel gregge se tra le Finlandesi e Ifigenia bramavo con cupidità animalesca ogni corpo di femmina umana purché non fosse disfatto dai capelli ai talloni?

Ifigenia con la sua bella carne aveva saziato la mia ingordigia di carne, perciò a 36 anni suonati potevo desiderare la bellezza dell’anima. Ero passato dai tellurici incapaci di evolversi al gruppo ristretto degli aspiranti alla luce. Gliene sarò sempre grato, come alle finniche.

 Ifigenia mi ha aiutato a completare il compito cui mi avevano già avviato, propedeutiche, le Finlandesi: con il suo involucro bello, con la sua mediterranea, calda, abbronzata sensualità, l’Italiana ha soddisfatto la mia brama carnale e mi ha dato il potere di alzare la mira alle forme immortali, immutabili, infaticabili  dalle quali la materia riceve quel significato eterno del quale l’artista coglie l’epifania mostrandola a tutti.

“Ora che il nostro amore è finito- pensavo- ora che la mia carne è vicina a essere quasi appassita e la tua non ne è tanto lontana, ora comprendo che tu con la tua bellezza mi hai svelato l’amore celeste che mi ha fatto spuntare le ali per elevarmi fino alla pianura della verità dove si trovano intere, semplici, salde, in puro splendore le forme che non avvizziscono mai. Mi sentivo un poco in colpa per avere usato la bellezza di una giovane donna quale strumento, quasi una scala per salire a bellezze superiori, fino alle supreme che avrei dovuto cercare dentro l’anima sua. Ma forse lì dentro non c’erano.

Comunque avrei espiato la  cura insufficiente che mi ero preso di lei con un lungo periodo di solitudine laboriosa e meditativa. Me lo diceva il senso interiore, la pallida luce azzurrina del cielo già  stanco di ardori e il verde sbiadito, sì come moccio, del mare.

Incombeva l’autunno.

 

Bologna 14 aprile 2021 ore 19, 35

giovanni ghiselli

p. s

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