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La battaglia di Azio. Antonio perde la guerra e anche la reputazione
Plutarco scrive che quando la battaglia navale non era già aggiudicata e stava ancora alla pari - ajkrivtou de; kai; koinh`" th`" naumaciva" sunestwvsh" (Vita di Antonio 66,5), si videro le sessanta navi di Cleopatra - aiJ Kleopavtra" eJxhvkonta nh`e" che alzavano le vele per la ritirata, fuggivano attraverso i combattenti e aprendosi un varco tarach;n ejpoivoun, creavano confusione.
La confusione
Abbiamo detto più volte che la confusione è il male delle origini che si riaffaccia periodicamente e portando regresso.
Nei Cavalieri (424 a. C) di Aristofane Cleone-Paflagone è chiamato “borborotavraxi” (v. 307), mescola-fango; egli si comporta come i pescatori di anguille, i quali le acchiappano, solo se mettono sottosopra il fango: “kai; su; lambavnei", h]n th;n povlin taravtth/" (v. 867), anche tu arraffi, se scompigli la città, gli fa il salsicciaio.
Alla fine la confusione però si ritorce contro chi la crea: Cleone morirà ucciso in battaglia come pure lo spartano Brasida, l’altro pestello della Grecia. Nella commedia, il demagogo Paflagone perderà il potere.
Quello della confusione è un tema ricorrente nella Medea di Seneca. La navigazione ha unito, confondendo, parti che doveva restare separate e distinte. Così si sono guastati i candida…saecula (Medea, 329) dei padri. "Bene dissaepti foedera mundi/ traxit in unum Thessala pinus,/iussitque pati verbera pontum/partemque metus fieri nostri/mare sepositum" ( Medea, vv. 335-339), la nave tessala unificò le parti del cosmo ben separate da un recinto di leggi, e ordinò che il ponto patisse le frustate dei remi e che il mare lontano divenisse parte della nostra paura.
Il rischio è quello del ritorno al magma indifferenziato del caos. Infatti “il pretium huius cursus [1], il risultato del caos cosmico provocato dalla prima nave è Medea, emblema del caos etico "[2].
Il mondo pervius ha aperto la via alla "confusion delle persone"[3] .
Ma torniamo a Plutarco che punta l’obiettivo e la critica su Antonio il quale non si comportò da capo né da uomo non agendo in modo razionale ma si lasciò trascinare da quella donna come se fosse connaturato dentro di lei e mosso con lei-w{sper sumpefukw;" kai; summetaferovmeno" –(66, 8). Infatti tradendo e abbandonando quelli che combattevano e morivano per lui seguiva la donnache l’aveva già rovinato e l’avrebbe fatto morire.
Ora passiamo a Shakespeare. Per l'uomo moderno, Plutarco significa Shakespeare"[4], e viceversa.
Enobarbo annuncia la rovina, l’azzeramento totale, inguardabile: “Naught, naught, all naught! I cannot behold no longer!
The Antoniad, the Eyptian admiral,
With all their sixty, fly and turn latino torno - as; tornus - the rudder:
To see ’t mine eyes are blasted ( III, 10, 1-4), niente, niente, tutto è niente. Io non posso guardare più a lungo. L’Antoniade, l’ammiraglia Egiziana, con tutte le sue sessanta, fugge e volta il timone, a vedere questo i miei occhi sono scoppiati.
Quindi entra Scaro un altro amico di Antonio che dice: “we have kiss’d away-kingdoms and provinces” (7-8) abbiamo consumato in baci regni e province. Quindi racconta a Enobarbo la fuga di Cleopatra seguita dall’amante risucchiato da lei: “quell’oscena baldacca d’Egitto, che la colga la lebbra-whom leprosy latino lepra, leprosus - o’ertake - nel mezzo della battaglia, quando il vantaggio appariva pari come due gemelli, o piuttosto maggiore il nostro, la brezza su di lei –like a cow in June!- come una vacca in giugno, alza le vele e scappa (10- 15).
La donna paragonata a una mucca spinta a correre dalla brezza o punta da un tafàno fa venire in mente la povera Iò del Prometeo incatenato di Eschilo.
Enobarbo conferma che ha visto anche lui quella scena ammalandosi di occhi.
Il racconto di Scaro prosegue con Antonio che corre dietro a Cleopatra ossia alla propria rovina come un’anatra rimbecillita like a doting mallard ( III, 10, 20) lasciando il combattimento giunto al culmine.
Antonio ha perso la faccia con i suoi: “I never saw an action of such shame; experience manhood, honour, ne’er before –did violated so itself (22-24) non ho mai visto un’azione di tale vergogna: esperienza, virilità, onore, mai pima si sono così violati da soli.
Lo riconosce poco più avanti lo stesso Antonio: “I have offended my reputation, / a most unnoble swerving, il traviamento più ignobile (III, 11. 47-48).
Excursus sulla reputazine
Sentiamo anche Cassio nell’Otello di Shakespeare: “Reputation, reputation, reputation! O, I have lost my reputation! I have lost the immortal part of myself, and what remains is bestial. My reputation Iago, my reputation! (II, 3). Iago risponde: “Reputation is an idle and most false imposition; oft got without merit and lost without deserving: you have lost not reputation at all, unless you repute yourself such a loser”, la reputazione è una vana e falsissima imposizione; spesso ottenuta senza merito e perduta senza demerito: tu non hai perso la reputazione a meno che tu stesso reputi di averla perduta.
La reputazione scaduta contibuisce allo scadimento dell’identità talora perfino alla sua perdita.
La tragedia di Seneca dà grande rilievo al terrore dell'identità minacciata, quindi alla difesa della stessa.
Ricordo Medea superest ( Medea, 166).
Grande dolore dunque provoca il calo della reputazione, secondo l'importanza che ha la dovxa nella cosiddetta civiltà della vergogna.
Ricordo anche la Medea di Euripide che non vuole essere considerata una donna ordinaria e debole, né mite, ma di indole diversa, violenta con i nemici (barei'an ejcqroi'" ) e benevola con gli amici; infatti la vita di tali persone è piena di gloria (eujkleevstato" bivo"), vv. 807-810. Alcesti invece diviene
eujklehv" (v. 150) , gloriosa, per la sua benevolenza e per "il coraggio che si manifesta essenzialmente nel prestare aiuto, nell'aver cura, nel proteggere"[5]. Ecco due vie diverse per giungere a una rinomanza rispettata.
Già Solone nell'Elegia alle Muse chiede, quale bene supremo, oltre il benessere (o[lbon), la reputazione (dovxan): "Splendide figlie della Memoria e di Zeus Olimpio,/Muse Pieridi, ascoltate la mia preghiera:/concedetemi il benessere da parte degli dei beati, e di avere una buona/reputazione da parte di tutti gli uomini sempre;/in modo che così possa essere dolce per gli amici e amaro per i nemici,/rispettato da gli uni, temibile a vedersi per gli altri" (vv. 1-6).
Questa alta considerazione di quanto pensano gli altri di noi, induce a ricordare la definizione data da E. R. Dodds alla società descritta da Omero quale "Civiltà di vergogna" . In essa "il bene supremo non sta nel godimento di una coscienza tranquilla, ma nel possesso della timhv, la pubblica stima (...) La più potente forza morale nota all'uomo omerico non è il timor di Dio, è il rispetto dell'opinione pubblica, aijdwv": aijdevomai Trw'a"[6], dice Ettore nel momento risolutivo del suo destino, e va alla morte con gli occhi aperti"[7].
Il cedimento alla pressione del conformismo sociale è caratteristico della cultura della vergogna "ove tutto quel che espone l'uomo al disprezzo o al ridicolo dei suoi simili, tutto quel che gli fa "perdere la faccia" è sentito come insopportabile"[8].
Esiodo[9] si trova su questa linea, quando consiglia di evitare la cattiva fama (fhvmh kakhv) che è leggera a sollevarsi ("kouvfh me;n ajei'rai", Opere , v. 761), ma è pesante da portare ed è difficile togliersela di dosso ("ajrgalevh de; fevrein, caleph; d& ajpoqevsqai", v. 762).
La Fama in Virgilio è la dea foeda (Eneide IV, 95) la dea oscena che infama Didone per l'amore con Enea:"malum qua non aliud velocius ullum:/mobilitate viget virisque adquirit eundo;/parva metu primo, mox sese attollit in auras/ingrediturque solo et caput inter nubila condit " (Eneide , IV, 174-177), la Fama di cui nessun altro male è più veloce: ha la sua forza nella mobilità e acquista potenza con l'andare; piccola per paura dapprima, presto si alza nell'aria[10] e avanza sulla terra e nasconde il capo tra le nubi.
Nella Tebaide di Stazio la Fama è la dea turbida ( II, 208), burrascosa, che scatena burrasche.
Qualche aspetto di questa culture of shame dunque arriva a Virgilio, mentre dal Critone di Platone (44C e sgg.) vediamo che a Socrate non importa niente dell'opinione dei più. Per il maestro suscitatore di energie morali quello che conta è la coscienza di non avere agito contro il valore autentico della Giustizia.
Critone sostiene che bisogna tenere conto della reputazione poiché la maggioranza è capace di compiere i più grandi mali, se uno viene calunniato. Al che Socrate risponde: magari fossero capaci i più ("oiJ polloiv", 44d) di compiere grandi mali, purché sapessero fare grandi beni. Ma non sanno fare né l'una né l'altra cosa e operano a casaccio ("poiou'si de; tou'to oJvti aj;n tuvcwsi").
La moralità è il valore più importante solo per chi è andato oltre la civiltà di vergogna poiché soltanto una persona siffatta sa che "non vi è profonda felicità senza morale profonda"[11]. Lo ripeto come sintesi di questo excursus.
Senza morale profonda non c'è neppure la bellezza:"Le risposte estetiche sono risposte morali: kalon kagathon… La forma senza Anima diventa formalismo, conformismo, formalità, formule, formulari burocratici: forme senza lucentezza, senza la presenza del corpo. Sigle invece di parole, società anonime. E intanto la bellezza è segregata nel ghetto delle cose belle: musei, ministero della cultura, musica classica, la stanza buia della canonica: Afrodite imprigionata… La nostra salvezza è in Afrodite, e il primo modo di scoprire la dea, per noi, è nella malattia della sua assenza"[12].
Bologna 10 aprile 2021 ore 21 e 44
giovanni ghiselli
p. s.
Civiltà di vergogna (Culture of shame) dunque e Civiltà di colpa (Culture of guilt) secondo Dodds.
Peggiore però è questa civiltà dell’ignoranza e del cretinismo.
La Sardegna da bianca, in seguito alle riaperture, è diventata rossa.
Come si possono chiedere le riaperture dopo questo segnale?
Per dare vitto e alloggio ai caduti in miseria si faccia una patrimoniale non si mandino all’obitorio altri centomila italiani
[1] Cfr. Medea di Seneca, vv. 360-361 (n.d.r.)
[2]G. Biondi, Il mito argonautico nella Medea. Lo stile 'filosofico' del drammatico Seneca, "Dioniso" 1981, p. 428-429 e 435. G. Biondi, ibid., p. 435.
[3] “Sempre la confusion delle persone/principio fu del mal della cittade” ( Paradiso , XVI, 67-68).
[4]Mazzarino, op. cit., p. 138. L'autore continua così:"significa Robespierre e Verginaud e Danton; solo uno storico di razza (sia pure uno storico moralista, storico dell' ethos di grandi individui) poteva trasmetterci l'eredità classica, in quanto eredità di tradizione storica, in maniera così rilevante e decisiva.
[5] M. Cacciari, L'arcipelago, p. 53.
[6]Iliade, XXII, 105, e VI, 442, mi vergogno davanti ai Troiani.
[7] I greci e l'irrazionale , p. 30.
[8] I greci e l'irrazionale , p. 31.
[9] VIII-VII sec. a. C.
[10] Questa descrizione di Virgilio ricorda quella che Omero fa di [Eri" a[moton memaui'a, la Discordia violentemente infuriata, che dapprima si leva piccola ma poi cammina sulla terra arrivando al cielo con il capo (Iliade , IV, 440 sgg.).
[11]R. Musil, L'uomo senza qualità , p. 846.
[12]
J. Hillman, L'anima del mondo e il pensiero del cuore , p. 102.
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