Virgilio viene deriso da Ovidio per l’agiografia di Enea che il poeta di Sulmona mette nel novero dei seduttori.
Nel proemio dell'Eneide[1] Virgilio domanda con meraviglia:"Musa, mihi causas memora, quo numine laeso,/quidve dolens regina deum tot volvere casus/insignem pietate virum, tot adire labores/impulerit. Tantaene animis caelestibus irae?" (vv, 8-11), o Musa, dimmi le ragioni, per quale offesa volontà divina, o di che cosa dolendosi la regina degli dèi abbia spinto un uomo insigne per la devozione a girare per tante sventure, ad affrontare tante fatiche. Così grandi sono le ire nell'animo dei celesti?
Ebbene Ovidio trova la ragione delle grandi ire divine: dopo avere affermato che gli uomini ingannano spesso, più delle tenere fanciulle (saepe viri fallunt, tenerae non saepe puellae, Ars, III, 31) il poeta peligno inserisce Enea tra i seduttori ingannevoli quali il fallax Iason (Ars, III, 33) e Teseo, tanto perfido che, se fosse dipeso da lui, Arianna avrebbe nutrito gli uccelli marini:"et famam pietatis habet, tamen hospes et ensem[2]/praebuit et causam mortis, Elissa, tuae" (Ars, III, 39-40), ha la nomèa di uomo pio, tuttavia da ospite ti offrì la spada e il motivo della morte tua, Elissa. Ovidio dunque smaschera Enea e il poeta che lo celebra come antenato di Augusto.
giovanni ghiselli
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