Enea e Aristeo sono gli ottemperanti che hanno successo. Non affrontano l’Eris con gli ordini del potere
I disobbedienti alle regole come Didone e Orfeo invece muoiono oppressi dal dolore.
Didone sente odio per la propria vita infatti non si distende mai nel sonno "(neque umquam- solvitur in somnos, Eneide, IV, 529-530), cioè non si scioglie mai, non si libera dai sensi di colpa
Anzi si accusa da sola: " Non licuit thalami expertem sine crimine vitam/degere, more ferae, talis nec tangere curas/ Non servata fides cineri promissa Sychaeo " (vv. 550-552), non mi è stato possibile passare la vita senza nozze e colpa come le bestie, e non toccare tali affanni: non è stata osservata la fedeltà promessa al cenere di Sicheo.
L'antitesi di questo "tradimento" postumo si trova nei capitoli 111-112 del Satyricon dove leggiamo la fabula milesia della "Matrona di Efeso": una vedovella che poche ore dopo la morte del marito si tolse le gramaglie, e tutto il resto, senza rimorsi né ubbìe, dando retta a un soldato che oltretutto dovette appendere il cadavere dello sposo amato al posto di quello di un ladrone sottratto a una croce e affidato alla sua sorveglianza.
Didone dunque si sente in colpa, mentre Enea è più che mai pius poiché obbedisce agli ordini degli dèi che vengono ribaditi da Mercurio. Il quale, come si è già detto, gli appare in sogno.
Gli dice pure che Didone è risoluta a morire ("certa mori ", v. 564), ma questo non ha importanza né per l'uomo né per il dio. Ella infatti rivolge nel petto inganni e una sinistra scelleratezza :"illa dolos dirumque nefas in pectore versat "(v. 563). L'allitterazione in dolos dirumque sottolinea entrambe le colpe della disgraziata. Qui si vede che mentre il sogno, ossia il desiderio cammuffato, suggerisce l'inganno e il misfatto, trova anche il modo di discolpare il dormiente proiettando sulla regina tutto il male che egli stesso è già preparato a perpetrare contro di lei.
Bisogna solo evitare di essere danneggiati dalla femmina "varium et mutabile semper ", v. 569. Dopo queste parole l'immagine onirica tornò nell'oscuro e ribollente crogiolo dell'inconscio, ovvero, con le parole di Virgilio:"sic fatus nocti se immiscuit atrae " (v. 570), dopo avere parlato così, si mescolò alla notte oscura.
Enea si svegliò terrorizzato:"Tum vero Aeneas subitis exterritus umbris/corripit e somno corpus sociosque fatigat " (vv. 571-572), allora sì che Enea, spaventato dall'apparizione improvvisa, strappa il corpo dal sonno e incalza i compagni. A questo punto è necessaria un'occhiata alla teoria freudiana di cui mi sono avvalso per interpretare la visione onirica di Enea. Il sui senso di colpa deriva dalla presunta disobbedienza al suo destino imperiale.
Virgilio tende a condannare chi non obbedisce come Orfeo, e a premiare chi invece ottempera agli ordino come Aristeo.
Orfeo fallisce perché viene meno alle rigorose prescrizioni degli dèi ( Georgica IV, 492-493 inmitis rupta tyranni/ fodera ). Egli non può rispettare gli ordini ricevuti perché manca di tenacia e fermezza: è un amante e ha in sé la 'leggerezza' dell'amore che lo possiede.
Didone è venuta meno ai regolamenti che Augusto cercava di imporre anche con leggi che tendevano a scoraggiare la licenza e pure libertà sessuale
Vediamo queste leggi
La lex Iulia de adulteriis coercendis fu approvata nel 18 a. C.
Essa "non si limitava a sottoporre a regolamentazione la violazione della fede coniugale. Inserita nel quadro generale della politica demografica e moralizzatrice di Augusto, stabiliva, in linea assai più generale, che fosse punito come crimen (vale a dire come delitto pubblico, perseguibile su iniziativa di qualunque cittadino) qualsiasi rapporto sessuale al di fuori del matrimonio e del concubinato, eccezion fatta per quelli con le prostitute e con donne a queste equiparate, o in ragione del mestiere esercitato, o perché già condannate, in precedenza, per condotta immorale. Il termine adulterio, insomma, è usato da Augusto in senso lato, e comprende anche lo stuprum [1]. La sfera della morale sessuale, sostanzialmente, viene sottratta, con la sua legge, alla competenza della giurisdizione familiare, e diventa "affare di Stato"...La pena prevista dalla lex Iulia per l'adulterio, non fu la morte, ma la relegatio in insulam , accompagnata da una sanzione patrimoniale. La regola stabilita del secondo caput della legge, che concedeva l'impunità al marito e al padre dell'adultera qualora uccidessero il complice di costei (e, solo nel caso del padre, qualora uccidesse anche la figlia) era la previsione di un'impunità speciale, concessa esclusivamente al padre e al marito, e subordinata al verificarsi di una serie di circostanze (quali la sorpresa degli adùlteri in flagranza), specificamente e tassativamente elencate dalla legge. Ma la pena dell'adulterio, in linea generale, non era la morte"[2].
Un'altra legge volta a frenare, o per lo meno a regolarizzare e ordinare l'amore, fu la lex Iulia de maritandis ordinibus , sempre del 18 a. C. Questa multava i celibi e premiava i coniugati fecondi, come avrebbe fatto, molti anni più tardi
La lex Iulia poi venne ribadita dalla lex Papia Poppea ( del 9 d. C. ) che concedeva agevolazioni fiscali e legali a chi avesse almeno tre figli (ius trium liberorum ).
Del resto tante severe leggi matrimoniali non raggiunsero l'effetto desiderato. Già Augusto vedeva che la forza delle sue norme favorevoli al matrimonio veniva elusa, per cui tentò di potenziarle:"tempus sponsas habendi coartavit, divortiis modum imposuit "[3], abbreviò il tempo del fidanzamento, pose un limite ai divorzi.
Tutto questo non bastò a frenare la corsa già in atto verso i magna adulteria denunciati da Tacito all'inizio delle Historiae[4] (I, 2). Infatti:" corruptissima republica plurimae leges (Annales III, 27).
Il celibato era oramai un costume diffuso: “prevalida orbitate” (Annales III, 25), prevaleva il celibato .
Cassio Dione[5] racconta che Augusto nel 9 d. C. parlò agli sposati e ai celibi della classe alte. Elogiò i primi, meno numerosi, dicendo che erano cittadini benemeriti e fortunati: infatti ottima cosa è una donna temperante, casalinga, buona amministratrice e nutrice dei figli ("a[riston gunh; swvfrwn oijkouro;" oijkovnomo" paidotrovfo" "(LVI, 3, 3) ed è una grande felicità lasciare il proprio patrimonio ai propri nati; inoltre anche la comunità riceve vantaggi dal grande numero (poluplhqiva, LVI, 3, 7) di lavoratori e di soldati.
Quindi l’imperatore parlò con parole di biasimo ai non sposati che erano molto più numerosi. Voi, disse in sostanza, siete gli assassini delle vostre stirpi e del vostro Stato. Voi tradite la patria rendendo deserte le case e la radete al suolo dalle fondamenta:"a[nqrwpoi gavr pou povli" ejstivn, ajll' oujk oijkivai oujde; stoai; oujd j ajgorai; ajndrw'n kenaiv" (LVI, 4, 1), gli uomini infatti in qualche misura costituiscono la città, non le case né i portici né le piazze vuote di uomini[6].
Aristeo dunque ha successo in quanto è ottemperante haud mora, continuo matris praecepta facessit" (Georgica IV, 548 ), senza indugio obbedisce subito ai precetti della madre. Che Aristeo abbia provocato la morte di Euridice punta da un orribile serpente mentre fuggiva da lui che la inseguiva (457-458), non è importante
Anche Enea obbedisce subito, senza nemmeno chiedersi da dove venga quell'ombra: se dal cielo, da se stesso, o dall'inferno:"Sequimur te, sancte deorum, /quisquis es, imperioque iterum paremus ovantes " (vv. 576-577), seguiamo te, santo tra gli dèi, chiunque tu sia, e obbediamo di nuovo al tuo comando, festanti. La formula liturgica sancte deorum (v. 576) completata da quel quisquis es (v. 577) derivato dai tragici e rivolto agli dèi (Eschilo, Agamennone 160; Euripide, Troiane , 885) lascia spazio all'unica interpretazione della provenienza divina dell'ordine cui dunque bisogna obbedire.
Quanto all'ultima parola del verso, si può accostare a Georgiche I, 423 (ovantes gutture corvi , i corvi che festeggiano a squarciagola il ritorno del sole) e inferirne che Didone era diventata noiosa e pure pericolosa, sicché lasciare tale amante per Enea era una festa.
Le guerre civili sono le più crudeli, la guerra tra amanti è un bellum plus quam civile.
Insomma Enea fugge a tutto spiano: estrae dal fodero la spada fulminea (vaginaque eripit ensem /fulmineum , v. 579) e taglia le gomene. Tale ardore che sostituisce quello amoroso prende contemporaneamente tutti i Troiani i quali danno di piglio ai remi e fuggono a precipizio"idem omnis simul ardor habet, rapiuntque ruuntque " (v. 581).
La spada e il fulmine dovrebbero essere simboli erotici se non addirittura fallici: il grande seduttore Alcibiade si era fatto incidere sullo scudo Eros fulminatore[7] invece degli stemmi gentilizi.
giovanni ghiselli
[1] Relazione colpevole.
[2]E. Cantarella, Secondo Natura , Milano, 1995, pp. 182 ss.
[3] Svetonio, Vita di Augusto, 34.
[4] Composte entro il 110 d. C, raccontano i fatti che vanno dal 1° gennaio 69 d. C. alla rivolta giudaica del 70.
[5] Vissuto tra il II e il III sec. d. C. , scrisse una Storia Romana in greco. Constava di ottanta libri che andavano dalle origini al 229 d. C. Ne restano 25 (dal 36 al 60) oltre alle epitomi di età bizantina.
[6] ll problema del calo demografico, adesso di nuovo attuale, era stato posto già nel II secolo a. C., per il mondo ellenico da Polibio il quale viceversa notava la virtù delle matrone romane. Nel libro XXXVI delle Storie viene ricordata la crisi demografica della Grecia, una carenza di bambini e un generale calo di popolazione ("ajpaidiva kai; sullhvbdhn ojliganqrwpiva", XXXVI 17, 5) che hanno rese deserte le città, senza guerre né epidemie. In questo caso non si tratta di interrogare o di supplicare gli dèi poiché la causa del male è evidente: gli uomini hanno cominciato ad abbandonarsi all'arroganza, all'avarizia, alla perdita di tempo, a non volersi sposare, o se si sposavano, a non allevare i figli, tranne uno o due per poterli lasciare nel lusso. Basta poco dunque perché le case restino deserte, e, come succede per uno sciame di api, così anche le città si indeboliscano. Il rimedio è evidente: cambiare l'oggetto dei nostri desideri o fare leggi che costringano a crescere i figli generati. Non occorrono veggenti né operatori di magie!
[7] Plutarco, Vita di Alcibiade , 16.
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