Ci spogliammo entrambi, del tutto. Stendemmo i vestiti a far da giaciglio, ma le mutande le appesi ad un filo teso sopra le nostre teste con delle mollette; per potere prenderle subito in caso di necessità, le mie e quelle della giovane donna, odorose del sesso suo, della carne viva, stillante" fragranza e rugiada" (1) . Quando eravamo a Bologna, nel grande letto, e dovevamo alzarci in fretta e furia poiché il tempo del suo permesso era scaduto, talvolta non riuscivamo a scovarle che dopo lunghe ricerche. A dire il vero mentre ficcavo la testa gonfia di sangue sotto il letto, e allungavo una mano, affannato, respirando la polvere del pavimento, pensavo in dialetto pesarese: "Se quest è un accident, che dio ne manda cent ". Negli ultimi tempi avevo ripreso l'abitudine, imparata dalla grande madre, la serena Helena, di metterle sotto il cuscino, ma anche da lì talora sparivano, diabolicamente. Le care, profumate mutande delle mie care amanti. Quando ripenso alle mie donne e al tempo migliore passato con ciascuna di loro, come quando ricordo i giovani cui ho insegnato ad amare la letteratura e la vita, non credo che il vivere mio sia stato soltanto il sogno di un'ombra (2), né una tragedia totale, né un fallimento completo. Una bella opportunità è stata la vita per me, ed io non l'ho sprecata, anzi. Così, noi due stesi su quella terrazza di legno, scaldati e abbronzati dal sole di primavera, compenetrati a vicenda, riversi e fusi l'uno nell'altro, sorvolati da mosche ronzanti canzoncine primaverili, ci scambiammo piacere illudendoci di avere ritrovato il tempo felice di quando eravamo innamorati e avevamo sempre voglia di unirci: in pizzeria, al cinema, sulla spiaggia di Pesaro nel luglio del 1979, quando prendevamo un moscone e lo remavamo velocemente, a turno, finché si giungeva al largo, lontani da ogni presenza umana; allora, sul fondo ligneo della piccola imbarcazione, abbacinati dal sole, sorvolati da bianche farfalle disperse sulla grande pianura d'acqua azzurra e salata, ci toglievamo i costumi, li mettevamo sopra il sedile più alto e facevamo l'amore tante volte da arrivare a sentire la gioia dionisiaca della fusione con la luce, con il mare, con l'intero universo che ci sorrideva. Allora i maligni preti pseudocristiani, le zie pretificate, la madre furente, il padre vacante, i colleghi ottusi e furfanti, i presidi tangheri, erano confutati, messi a tacere, sconfitti. Mi ero ripreso la vita, la mia vita e senza togliere nulla a quella degli altri, anzi facendone dono a chi la voleva e se ne avvaleva per migliorare la sua. Il 9 marzo del 1981 in mezzo a quei monti antropomorfi vicini al disgelo riuscimmo a fonderci ancora una volta con la stessa panica ebbrezza.
Note 1 Cfr. J. Joyce, Dedalus, trad. it. Adelphi, Milano, 1976, p.285. 2Cfr. Pindaro, Pitica VIII, 95-96: skia'" o[nar a[nqrwpo", sogno di un'ombra è l'uomo. |
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