NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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lunedì 28 giugno 2021

Shakespeare, "Riccardo III". Rilettura. X. La paura del tiranno.

Il corso inizierà domani 29 giugno alle 18
 
Aggiunta del 28 giugno. L’autocrate è una persona disturbata dalla paura che lo spinge al crimine preventivo.
Nelle Supplici[1] di Euripide  Teseo è il Pericle in vesti eroiche il quale elogia la costituzione democratica dialogando con l'araldo mandato da Creonte re, anzi tiranno di Tebe.
Atene dunque non è comandata da un uomo solo, ma è una città libera (ejleuqevra povli" , v. 405). L'araldo di Creont ribatte che il governo di un solo uomo non è male: infatti esclude i demagoghi i quali gonfiando la folla con le parole la volgono di qua e di là a proprio profitto. Del resto chi lavora la terra non ha tempo né per imparare né per dedicarsi alle faccende pubbliche:" oJ ga;r crovno" mavqhsin ajnti; tou' tavcou" -kreivssw divdwsi (vv. 419-420), è infatti il tempo che dà un sapere più forte invece della fretta.
Teseo non controbatte la critica ai demagoghi, che condivide, ma risponde che il tiranno è l'entità più ostile alla polis:" oujde;n turavnnou dusmenevsteron povlei" (v. 429). Egli infatti uccide i migliori, quelli dei quali considera la capacità di pensare, in quanto teme per il suo potere:"kai; tou;" ajrivstou" ou{" a]n hJgh'tai fronei'n-kteivnei, dedoikw;" th'" turannivdo" pevri" (vv. 444-445). Sicché la città si indebolisce: come potrebbe essere forte quando uno al comando miete i giovani come da un campo di primavera si porta via la spiga a colpi di falce? (vv. 447-449). Inoltre il despota si impossessa dei beni altrui rendendo vane le fatiche di chi voleva acquistare ricchezze per i propri figli.
Per non parlare delle figlie che vuole rendere strumenti del suo piacere. l'Elettra di Euripide recitando il biasimo funebre di Egisto allude, con pudica e verginale aposiopesi, alle porcherie che il tiranno faceva con le donne:"ta; d j eij" gunai'ka", parqevnw/ ga;r ouj kalo;n-levgein, siwpw' " (Elettra, vv. 945-946).
 
 
Entra Tyrrel. Il sicario chiede di essere messo alla prova. E’ disposto a tutto. Riccardo dice di avere due nemici nel profondo “two deep enemies” L. inimicus- (71) avversi alla mia pace e turbatori del dolce sonno “foes to my rest-foes from weak grade *piq  we have Gk. pikrovς, bitter- , and my sweet sleep’s disturber- Lat. disturbo, , IV, 2. 71-72). I mean those bastards in the Tower”, intendo quei bastardi nella Torre (74)
L’aggettivo e avverbio deep indica che questi nemici e la paura che gli incutono, sebbene siano solo due bambini, sono entrati profondamente nell’anima di Riccardo.
E’ poprio vero quanto scrive Costantinos Kavafis: “In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,-né in Nettuno irato incapperai-se non li porti dentro,-se l’anima non te li mette contro” (Itaca, vv. 9-12).
E’ sempre contro una parte di noi stessi che combattiamo.
Sentiamo anche Cesare Pavese:"Il mito greco insegna che si combatte sempre contro una parte di sé, quella che si è superata, Zeus contro Tifone, Apollo contro il Pitone. Inversamente, ciò contro cui si combatte è sempre una parte di sé, un antico se stesso. Si combatte soprattutto per non essere qualcosa, per liberarsi. Chi non ha grandi ripugnanze, non combatte"[2].
  
 
L’imperatore Tiberio di Tacito temeva dai migliori un pericolo per sè, dai peggiori disonore per lo Stato (ex optimis periculum sibi, a pessimis dedĕcus publicum metuebat ,  Annales , I, 80), e Domiziano invidiava e odiava Agricola per i suoi successi in Britannia:"Id sibi maxime formidolosum, privati hominis nomen supra principem attolli " ( Agricola [3] , 39), gli faceva paura soprattutto il fatto che il nome di un suddito fosse messo al di sopra di quello del principe.   
 
  Nell’Oedipus di Seneca, Creonte fa notare al cognato che con il suo sistema si circonda di odio ma Edipo risponde che l'odio e la paura sono funzionali al potere:"Odia qui nimium timet/regnare nescit: regna custōdit metus" (Oedipus, vv. 703-704), chi teme troppo gli odi non sa regnare: la paura è la guardia dei regni.
 
Cfr. Il principe di Machiavelli il quale nel XVII capitolo si domanda” s’elli è meglio essere amato che temuto, o più tosto temuto che amato (…) Respondesi, che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché, elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ due” .
 
Nell’Oedipus Creonte ribatte che la paura diffusa dal tiranno torna su di lui:"Qui sceptra duro saevus imperio regit,/timet timentes; metus in auctorem redit" (vv. 705-706), chi impugna lo scettro crudelmente con dura tirannide teme quelli che lo temono; la paura torna su chi la provoca.
 
Nelle Tusculanae Cicerone racconta che Dionisio, tiranno di Siracusa dal 405 al 367, non si fidava nemmeno di porgere il collo al barbiere: “ne tonsori collum committeret, tondere filias suas docuit (…) et tamen ab iis ipsis, cum iam essent adultae, ferrum removit, instituitque ut candentibus iuglandium putaminibus barbam sibi et capillum adurerent (V, 58), per non affidare il collo al barbiere, insegnò alle sue figlie a radere (…) e non di meno, quando ormai furono adulte, tolse loro gli arnesi taglienti, e stabilì che gli bruciassero barba e capelli con gusci di noci ardenti.
 
Segue l’ esemplare aneddoto della spada di Damocle   (Tusc. V, 61-62)
Cicerone aggiunge che Dionìsio giudicò egli stesso quanto fosse beato
 cum quidam ex eius adsentatoribus, Damocles, commemoraret in sermone copias eius, opes, maiestatem dominationis, rerum abundantiam, magnificentiam aedium regiarum, negaretque umquam beatiorem quemquam fuisse: "Cupisne igitur - inquit - o Damocles, quoniam te haec vita delectat, ipse eam degustare et fortunam experiri meam?" Cum ille se cupere dixisset, Dionysius collocari iussit hominem in aureo lecto, strato pulcherrimo textĭli stragulo, magnificis operibus picto, abacosque compluris ornavit argento auroque caelato.
Tum ad mensas servos delectos iussit consistere eosque nutum illius intuentes diligenter ministrare. Aderant unguenta, coronae; incendebantur odores, mensae conquisitissimis epulis extruebantur. Fortunatus sibi Damocles videbatur.
In hoc medio apparatu fulgentem gladium e lacunari saetā equinā aptum demitti iussit , ut impendēret illius beati cervicibus. Itaque nec pulchros ìllos mìnìstratores aspiciebat nec plenum artis  argentum nec manum porrigebat in mensam, iam ipsae deflŭebant coronae; denique exoravit tyrannum, ut abire liceret,  quod  iam beatus nollet esse, Damocle uno dei suoi cortigiani un giorno ricordava in un discorso le sue ricchezze di Dionisio, la potenza, l’autorità della signoria, la dovizia di ogni cosa, la magnificenza dei palazzi del potere, e diceva che nessuno era mai stato più felice di lui. “ Desideri dunque Damocle–disse Dionisio- dal momento che questa vita ti piace, farne un assaggio e provare la mia sorte?” Avendo quello detto che lo desiderava, Dionisio ordinò che venisse messo su un divano d’oro  ricoperto da un bellissimo drappo di stoffa, variegato da magnifici ricami, e  fece coprire diversi tavolini con begli oggetti  di argento e oro cesellato. Poi ordinò a schiavi scelti di stare presso la mensa e di servirlo con zelo osservando i suoi cenni. C’erano profumi, ghirlande, si bruciavano aromi, le mense venivano allestite con vivande squisite. Damocle si credeva fortunato. Nel mezzo di questi preparativi il tiranno ordinò che si facesse sospendere dal soffitto una spada risplendente attaccata a un crine di cavallo in modo che incombesse sul collo di quel tipo felice. Così non volgeva più lo sguardo a quei servitori belli   all’argenteria ricca di arte, né allungava le mani verso la mensa; tosto le corone cadevano da sole; infine pregò il tiranno che lo lasciasse andare via , perché non voleva  più essere felice.   
 
Tyrrel chiede un lasciapassare per la torre, poi promette “and soon I’ll rid you from the fear of them” (76) e vi libererò presto dalla paura di quelli.
Riccardo promette al sicario un generoso compenso
giovanni ghiselli
 


[1] Data probabile: 422 a. C.
[2]Il mestiere di vivere, 28 dicembre 1947.

[3] Del 98 d. C.

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