Il burrone che è dentro di noi
Ifigenia reagì soltanto dicendo"non mi piace", con una simulazione di indifferenza. Salimmo al rifugio Le cune , il più alto nelle piste del Lusia, sperando che il Sole rompesse le nubi, ma non eravamo degni della sua presenza lieta, e il dio rimase nascosto fino a sera. Eravamo cattivi e meschini. Lo vedemmo volare basso e stanco solo pochi minuti prima che si annidasse tra i monti. Non osai chiedere niente al dio corrucciato. A metà giornata ci sedemmo su una panchina di ferro posta non lontana dal ciglio di una voragine aperta verso la Marmolada. Eravamo cupi e imbronciati. Parlavamo di nuovo della nostra situazione infelice aggirandoci attorno ai soliti temi: perversioni, tradimenti, emozioni cattive, e così via. Cercavo di farle dire qualcosa di nuovo, onde scriverlo tra gli appunti del capolavoro prossimo; ma quella eludeva le domande, replicando con i luoghi comuni che avevamo codificato insieme negli ultimi tempi a proposito del nostro connubio corrotto. Ad un tratto però, quasi senza volere, riuscii a colpirla in una debolezza essenziale, una zona critica e dolorosa dell'anima, una piaga che, appena sfiorata, la faceva dubitare perfino della propria identità. Dissi soltanto: "Ifigenia, tu sei più bella, affascinante e giovane adesso di quando ti ho conosciuta". Tutto qui. Ma lei, cadutale a terra la maschera di indifferenza con cui si era protetta fino allora, mi guardò con un'espressione di terrore e di odio, poi disse: "Io non cerco nessuna consolazione del fatto che non sono tanto giovane quanto le ventenni delle quali senti bisogno tu per eccitare i tuoi nervi stremati". Quindi si alzò e si avvicinò al ciglio del precipizio. Provai compassione della sua debolezza e mi alzai per andare ad accarezzarla, a dirle che se soltanto mi avesse voluto, non avrei desiderato altro. Ma non potei farlo. Prima che arrivassi a toccarla, scappò dentro il rifugio. Rimasi fermo. Poi la seguii adagio. La raggiunsi. Piangeva. Le domandai perché. "Ho creduto che tu volessi ammazzarmi buttandomi giù", rispose. La guardai costernato. Non potevo spiegarle più niente. Dissi soltanto: "Ma va'". Per tutto il giorno non riacquistò la ragione. Il precipizio l'aveva dentro di sé la ragazza. Era in bilico sul proprio inconscio, un baratro terrificante; oppure era in balia del cavallo nero, contorto e massiccio, peloso fino alle orecchie, come quello maligno della biga platonica (1).
Nota 1 Cfr. Platone, Fedro, 253e. |
Nessun commento:
Posta un commento