L’amore infelice nelle Bucoliche e nelle Georgiche. Amor omnnibus idem
Notturni di Virgilio, Saffo, Teocrito, Alcmane
Nell'ecloga II il pastore Coridone arde d'amore per il bell'Alessi. (Formosum pastor Corydon ardebat Alexin, 1) che non ha pietà di lui. Fin dalle Bucoliche Virgilio è il poeta dell'amore infelice e luttuoso, il cantore della passione sulla quale si proietta un'ombra di morte:" O crudelis Alexi, nihil mea carmina curas?/nil nostri miserere? Mori me denique coges" (vv. 6-7), o crudele Alessi, non ti curi dei miei canti? non hai compassione di me? Infine mi costringerai a morire , sospira l'innamorato ardente.
Coridone non ha tregua dall'ardore amoroso nemmeno quando il bestiame e, con motivo teocriteo[1] perfino i ramarri, riposano al fresco:"Nunc etiam pecudes umbras et frigora captant / Nunc viridis[2] etiam occultant spineta lacertos " (vv. 8-9), ora anche il bestiame cerca di prendere le ombre e il fresco, ora i rovi spinosi nascondono perfino i verdi ramarri.
Alla fine di questa bucolica il tramonto raddoppia le ombre ma non concede pausa all'ardore di Coridone e alla passione che trascina ciascuno sconvolgendo ogni misura :"…trahit sua quemque voluptas (65) “et sol crescentes decedens duplicat umbras;/me tamen urit amor : quis enim modus adsit amori? " (v.65 e vv. 67-68).
Chi è afferrato da Eros ignora la giusta misura siccome l'amore è follia:"A Corydon, Corydon, quae te dementia cepit! ", v. 69.
Nella Georgica III, che tratta l'allevamento del bestiame, la conflagrazione amorosa riguarda, oltre gli umani, anche gli animali:"Carpit enim vires paulatim uritque videndo/ femina, nec nemorum patitur meminisse nec herbae/ dulcibus illa quidem inlecebris et saepe superbos/cornibus[3] inter se subigit decernere amantis[4], " (v. 215-218) logora infatti le forze a poco a poco, e li brucia la femmina in vista, e non lascia che si ricordino dei boschi né dell'erba, ma quella certo li attira con dolci seduzioni e spesso costringe i fieri pretendenti a combattere con le corna.
E’ l’eris, talora mortale, tra i pretendenti.
Tale istinto è uguale per tutte le creature viventi: "Omne adeo genus in terris hominumque ferarumque/et genus aequoreum, pecudes pictaeque volucres/ in furias ignemque ruunt: amor omnibus idem "(vv. 242-244) così ogni specie sulle terre di uomini e di animali, e la razza marina, il bestiame e gli uccelli colorati si precipitano in ardori furiosi, amore è lo stesso per tutti.
Virgilio è poeta protetto e deve assecondare il pogramma di restaurazione degli antiqui mores voluto dal suo protettore.
Pogramma che comunque fallirà.
Nemmeno nelle Metamorfosi del mulierosus poeta Ovidio mancano casi di ustione amorosa, ed essa tocca perfino gli dèi:"sic deus in flammas abiit, sic pectore toto/uritur " ( I, 495-496), così il dio si infiammò, così in tutto il petto/brucia. Si tratta di Febo che brucia per Dafne. Più avanti (III, 464) è Narciso che brucia per amore di se stesso:"uror amore mei, flammas moveoque feroque ", brucio per amore di me stesso e porto e agito le fiamme.
Ma torniamo a Didone (V parte)
Didone non accetta le scuse e, infiammata ("accensa " v. 364), rimprovera all'amante in partenza una perfidia e un'ingratitudine, tanto grandi da avere spento in lei ogni possibilità di credere nella buona fede che oramai in nessun luogo è sicura"Nusquam tuta fides " (v. 372).
Foedus e fides sono legati etimologicamente: foedus è l'accordo, il patto stipulato secondo le sacre regole della fides
Fides insomma è il rispetto del foedus, il trattato reso visibile e simboleggiato da una stretta delle destre (cfr. Eneide IV, vv. 305-308 e Medea di Euripide 21-22 citati sopra).
Quindi la regina, infiammata (accensa , 364) investe Enea accusandolo di crudeltà disumana. Esprime sfiducia perfino in Giove e Giunone che non tutelano la fides :"Nusquam tuta fides " (v. 373), la quale in nessun luogo è sicura. La donna sente che il fuoco d'amore è diventato un incendio di odio:" Heu furiis incensa feror (v. 376 e cfr. v. 300 citato sopra), ahi sono trascinata in fiamme dalle furie!
Laa donna infuriata congeda con maledizioni l'amante che la sta abbandonando:" i, sequere Italiam ventis, pete regna per undas;/spero equidem mediis, si quid pia numina possunt,/supplicia hausurum scopulis et nomine Dido/saepe vocaturum. Sequar atris ignibus absens/et, cum frigida mors anima seduxerit artus, omnibus umbra locis adero. Dabis, improbe, poenas; audiam et haec manis veniet mihi fama sub imos " (vv. 381- 386), va', insegui l'Italia coi venti, cerca un regno attraverso le onde. Spero però che in mezzo agli scogli, se i pii numi hanno qualche potere, berrai la pena e invocherai spesso Didone per nome. Ti inseguirò con fiaccole funebri anche da lontano e quando la gelida morte avrà separato le mie membra dall'anima, sarò presente in tutti i luoghi come ombra. pagherai il fio malvagio! starò in ascolto e questa fama mi raggiungerà sotto gli abissi.
Si noti che ventis e undas significano l'instabilità pericolosa della ricerca che corrisponde all'inaffidabilità dell'anima di Enea: fissi sono invece gli scogli che colpiranno il traditore facendogli bere quell'acqua dove erano stati scritti i suoi giuramenti spergiuri. Didone favorirà quella morte e la fama che l'ha infamata da viva la compenserà portandogliene la sospirata notizia
Il furor d'amore è divenuto furor di odio senza confini.
Ma il “pio” eroe deve eseguire comunque gli ordini degli dèi e non può permettersi l'amore:"At pius Aeneas, quamquam lenire dolentem/solando cupit et dictis avertere curas,/multa gemens magnoque animo labefacto amore,/iussa tamen divom exsequitur classemque revisit " (vv. 393-396), ma il pio Enea, sebbene desideri mitigare la dolente consolandola e rimuovere gli affanni con le parole, gemendo molto e scosso nell'animo da grande amore, esegue nondimeno gli ordini degli dèi e torna a vedere la flotta.
Pius Aeneas è una formula che torna una ventina di volte nel poema.
Personalmente assimilo la pietas di Enea all'ipocrisia del furfante bigotto. La assimilo pure al culto della peiqarciva (disciplina) di Creonte che, per reprimere la disobbedienza della nipote, la manda a morte, ed ella morendo rivendica la pietà come virtù propria:":"O rocca della terra di Tebe e dei miei padri/e dèi progenitori/io vengo portata via e non indugio più./Guardate, maggiorenti di Tebe,/l'unica superstite della stirpe regale,/quali sofferenze inumane da quali uomini subisco/poiché onorai la pietà" ( Antigone, vv.937-943).
Capisco e apprezzo di più la motivazione dell'abbandono di Calipso da parte di Odisseo:" ejpei; oujkevti h{ndanh nuvmfh " (Odissea , V, 153), poiché la ninfa non le piaceva più.
Virgilio, mosso a compassione della donna, e non volendo del resto incolpare il suo eroe, ritorce e fa ricadere sull'amore la maledizione indirizzata a Enea dall'amante abbandonata:"Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis!" (Eneide, IV, v. 412), malvagio Amore, a cosa non spingi i petti mortali!
E' un'apostrofe contro l'amore che viene messo allo stesso livello dell'auri sacra fames , la maledetta fame dell'oro che ha spinto il re di Tracia a sgozzare l'ospite Polimestore:"Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames! " (Eneide , III, 56-57).
Didone fa un'ultima prova "ne quid inexpertum frustra moritura relinquat " (v. 415) per non lasciare nulla di intentato, destinata com'è a morire invano. Quello dell'amore è un piano inclinato e scivoloso che conduce inevitabilmente alla rovina (cfr. infelix, pesti devota futurae già nel I canto, v.712). Dunque la regina manda la sorella Anna da Enea a chiedere l'ultima grazia (extremam...veniam , v. 435) di un rinvio:"tempus inane peto, requiem spatiumque furori,/dum mea me victam doceat fortuna dolere " (vv. 433-434), un tempo di intervallo chiedo, una tregua e un respiro al mio furore, finché la mia sorte insegni a me vinta a soffrire. L'intervallo si deve comunque concedere anche ai ragazzini nelle scuole (danda est tamen omnibus aliqua remissio raccomanda Quintiliano nella sua Institutio oratoria , I, 8) ma Enea rimane inesorabile:"fata obstant ", v. 440, i destini si oppongono e la dura volontà dell'eroe si conforma alla necessità che ha le mani d'acciaio.
La sua mente rimane immota come le radici di una quercia scossa dal vento.
I notturni di Virgilio, Saffo, Teocrito, Alcmane
Nemmeno la notte che porta riposo a tutte le creature lenisce l'affanno dell'abbandonata:"Nox erat et placidum carpebant fessa soporem/corpora per terras silvaeque et saeva quierant/aequora, cum medio volvontur sidera lapsu,/cum tacet omnis ager, pecudes pictaeque volucres,/quaeque lacus late liquidos quaeque aspera dumis/rura tenent, somno positae sub nocte silenti/(lenibant curas et corda oblita laborum[5])/At non infelix animi Phoenissa neque umquam/solvitur in somnos oculisve aut pectore noctem/accipit: ingeminant curae rursusque resurgens/saevit amor magnoque irarum fluctuat aestu " (vv. 522-532), Era notte e i corpi stanchi raccoglievano per le terre il placido sonno e le selve e le acque furiose erano tranquille, quando le stelle si volgono alla metà del loro giro, quando tace ogni campo, le bestie e gli uccelli variopinti, sia quelli che abitano per largo tratto i limpidi laghi, sia quelli delle campagne ispide di cespugli, posati nel sonno sotto la notte silenziosa (calmavano gli affanni e i cuori dimentichi delle fatiche).
Ma la Fenicia infelice nell'animo non si libera mai nel sonno e non accoglie la notte negli occhi o nel petto: raddoppiano gli affanni e l'amore, insorgendo di nuovo, infuria e fluttua in un grande ribollimento di ire.
Ecco dunque il contrasto tra la quiete della natura e l'agitazione della creatura che si sente in colpa.
La natura in Saffo è sempre portatrice di luminosa bellezza che offre ristoro ai mali, consolazione per le perdite, e compagnia di vario genere: malinconica nella solitudine, festosa, floreale e variopinta nei momenti lieti.
Vediamo un paio di notturni. Fr. 94D:
"E' tramontata la luna
e le Pleiadi; è a metà
la notte[6], trascorre la giovinezza
e io dormo sola (e[gw de, movna kateuvdw)"[7].
Admeto dopo il funerale di Alcesti lamenta il fatto che
i vestiti a lutto con mevlane~ stolmoiv lo accompagnano a casa levktrwn koivta~ ej~ ejrhvmou~ (Euripide, Alcesti, v. 925), a giacigli di letti vuoti.
Fr. 4D."Le stelle intorno alla bella luna
nascondono di nuovo l'immagine lucente,
quando, piena, splende al massimo
su tutta la terra
...e si inargenta"[8].
Il notturno secondo me più suggestivo è quello di Alcmane lirico corale, di lingua dorica, del VII secolo:" Dormono le cime dei monti e i burroni/e le balze e anche le gole/e le specie degli animali quante ne nutre la nera terra/e le fiere montane e la stirpe delle api/e i mostri negli abissi del mare purpureo; /dormono le razze degli uccelli dalle ampie ali" (fr. 58 D.).
Il contrasto rilevato da Virgilio si trova in Apollonio Rodio quando cala la notte che porta il desiderio del sonno a tutti ma non a Medea tenuta sveglia dal desiderio di Giasone:" quindi la notte portava la tenebra sopra la terra; nel mare i marinai fissarono l'Orsa Maggiore e le stelle di Orione dalle navi, e qualche viandante e custode di porte desiderava il sonno, e un denso torpore avvolgeva una madre di bambini morti; né c'era più abbaiare di cani per la città, né chiasso sonoro: il silenzio possedeva la tenebra che diventava nera. Ma il dolce sonno non prese Medea: molti pensieri la tenevano sveglia poiché le mancava Giasone e temeva la possente forza dei tori"(Le Argonautiche , III, 744-753).
Già in questo poeta ellenistico alla natura forte e sana del lirico arcaico Alcmane è succeduto un mondo che incornicia il dolore degli uomini. Quella madre di bimbi morti sembra anticipare vedove, orfani e simili sofferenti pascoliani.
Bologna 9 giugno 2021 ore 10, 11
giovanni ghiselli
p. s.
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[1]Cfr. VII, Le Talisie , 22.
[2] =virides.
[3] In questi versi l'istinto amoroso si associa non solo al fuoco ma anche a Eris.
[4] =amantes.
[5]I migliori editori espungono questo verso considerandolo un'interpolazione ricavata dal molto simile IX 225).
[6]La divisione della locuzione mezzanotte ha forse influito sull'espressione di Leopardi "è notte senza stelle a mezzo il verno"(Aspasia , 108)
[7]Admeto dopo il funerale di Alcesti lamenta il fatto che
i vestiti a lutto con mevlane~ stolmoiv lo accompagnano a casa levktrwn koivta~ ej~ ejrhvmou~ (Euripide, Alcesti, v. 925), a giacigli di letti vuoti.
Orazio(in Sat . I, 5, 82-83) utilizzerà, in un contesto ironico, il luogo saffico:"hic ego mendacem stultissimus usque puellam/ad mediam noctem expecto ", qui io sono tanto stupido da aspettare fino a mezzanotte una ragazza bugiarda.
[8]Un rapporto così forte e umano con la natura è riscontrabile, tra i moderni, oltre che in Leopardi, in D'Annunzio dal quale(La sera fiesolana , 5- 6:" su l'alta scala che s'annera/contro il fusto che s'inargenta") , non per caso, traducendo abbiamo preso l'ultimo verbo, e in Hermann Hesse che in Peter Camezind (p.12) scrive:"Le montagne, il lago, le tempeste e il sole erano i miei educatori e amici, che per molto tempo mi furono più cari e noti degli uomini e del loro destino".
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