lunedì 7 giugno 2021

Eros-Eris. Parte VI. La storia di Didone prima parte

Nella storia virgiliana di Didone l’ amore è associato al dolore attraverso ferite, incendi, fiamme, follia, colpa, peste e suicidio.
Al dolore della donna abbandonata segue l’odio per l’uomo.
 
Fin dal primo canto Venere invia il figlio Cupido a Cartagine  : "ut faciem mutatus et ora Cupido/ pro dulci Ascanio veniat donisque  furentem/ incendat reginam atque ossibus implicet ignem " (Eneide I , 658-660) affinchè, mutato nel volto e nell'aspetto, vada  al posto del dolce Ascanio, con i suoi doni infiammi la regina alla follia e faccia penetrare nelle ossa il fuoco d'amore.
 
L'ardore erotico che arriva alle ossa è un locus reperibile già in Teocrito: "wj" ejk paido;"  [Arato" uJjp j  ojstevon ai[qet j e[rwti" (VII, Le Talisie, v. 1O2) Aristi sa cantare come Arato arda fin sotto le ossa per amore di un ragazzo.
 
Il fuoco d'amore  è attestato fin da Saffo che anzi inaugura il topos della cottura amorosa:"o[ptai" a[mme" (fr. 38 Voigt), tu mi cuoci.
 
In questo stesso  Licida è ojpteuvomenon (v. 55), cottp da Afrodite per Ageanatte.
 
Questo fuoco di Virgilio non è di cottura né purificatore, ma deleterio, velenoso, ingannevole:"occultum inspires ignem fallasque veneno " (I, v. 688), infondile un fuoco occulto e ingannala con il veleno, ordina Cipride al figlio. L'amore  è causa di infelicità, è pestifero, mortale, e Didone innamorata di Enea è predestinata alla rovina:" Praecipue infelix, pesti devota futurae,/expleri mentem nequit ardescitque tuendo " (I, 712-713), sopra tutti l'infelice, consacrata alla rovina imminente, non sa saziare il cuore e s'infiamma guardando.
 
L'infelicità connessa all'amore prima ancora che questo si realizzi si trova pure nella storia di Medea delle Argonautiche  di Apollonio Rodio: quando la ragazza si avvia incontro a Giasone, che è stato salvato da lei e le ha promesso le nozze, la Luna la osserva e, con parole ambigue tra la simpatia e il dispetto, le dice: il dio del dolore ("daivmwn  ajlginovei"", IV, v. 64) ti ha dato il penoso Giasone per la tua sofferenza. Va' allora e sopporta in ogni modo, per  quanto sapiente tu sia, la pena luttuosa.
 Questo presunto amore di Medea e Giasone non dona gioia ai due amanti, al punto che l'autore rivolge un'apostrofe ad Eros quale latore di infiniti dolori: Eros atroce, grande sciagura, grande abominio per gli uomini ("Scevtli&  [Erw", mevga ph'ma, mega stuvgo" ajnqrwvpoisin" (IV, 445) da te provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti si agitano per giunta. àrmati contro i figli dei miei nemici, demone, quale gettasti l'accecamento odioso nell'animo di Medea ( oi'Jo" Mhdeivh/ stugerh;n fresi;n e{mbale" a[thn", v. 449).
Catullo  usa la parola pestis  in nesso allitterante con pernicies  per definire il proprio amore doloroso dal quale chiede agli dèi di liberarlo come da una malattia non meritata (O di (…) eripite han pestem perniciemque mihi-76, 16 e -2o).
In Apollonio e in Catullo era presente la tragedia greca, specialmente Euripide. Anche Virgilio si collega a Euripide direttamente (e non solo attraverso Apollonio e Catullo): il IV libro meglio degli altri dell'Eneide  ci mostra come egli utilizzi e fonda suggestioni non solo di autori vari, ma di autori che sono già tra loro in un rapporto di dipendenza, quasi ponendosi coscientemente all'estremità di una catena letteraria. Euripide poteva offrirgli spunti non solo per il personaggio di Didone, ma anche, con Giasone o altri, per il personaggio di Enea."[1].
E' quella che Musil definisce la  "catena di plagi"[2] che lega le grandi figure del mondo artistico l'una all'altra.
 
Su Catullo come primo anello latino di questa catena che rende malato l'amore sentiamo Paolo Fedeli:"Grazie a Catullo una nutrita serie di vocaboli acquista diritto di cittadinanza nel linguaggio d'amore: basterà ricordare la definizione dell'amore come dolor  (2 7) ardor  (2 8) cura  (2 10; 68 51), ma anche come morbus  (76 25) , come pestis  e pernicies  che s'insinua nelle membra simile a un torpor  (76 20) e le divora (31 15) ; oppure la definizione dell'amata come desiderium  (2 5); dell'innamorato come vesanus  (7 10) miser  (8 1; 51 5) e dell'innamorata che si strugge come misella (31 14); dell'innamoramento come equivalente dell'ineptire  (8 1), del perdite amare  (45 3) dell'amore deperire (35 12), del tabescere (68 55) dell'ardere (68 53)"[3].
 
L'ardore e il fuoco a dire il vero sono già presenti negli amorazzi dei giovani della commedia:"Sperabam iam defervisse adulescentiam :/ gaudebam. Ecce autem de integro! " fa Micione negli Adelphoe di Terenzio (v. 151-152) a proposito del nipote, speravo che fossero sbolliti quegli ardori giovanili: me ne rallegravo. Ecco invece di nuovo.
 
L'amore in ogni caso secondo questi autori fa male, rende infelici, malati, ferisce, consuma, brucia. "Deve" fare male poiché chi lo vive senza sensi di colpa è meno intimidibile e ricattabile; insomma è meno soggetto al potere, ai tempi di Augusto come ai nostri.
Su questo stesso motivo sentiamo D. H. Lawrence (1885-1930):"C'è un desiderio incoffessato, implacabile, dietro a tutte le teorie del sesso. Ed è desiderio di annullare, di cancellare completamente il mistero della bellezza. (…) La scienza ha una misteriosa avversione per la bellezza, in quanto non riesce a sistemarla adeguatamente nella visione che essa ha del mondo come serie di cause ed effetti. La società a sua volta ha una misteriosa avversione per il sesso, in quanto interferisce perpetuamente con la organizzazione bene ordinata che l'uomo sociale ha inventato per fare quattrini. Le due avversioni si assommano e ne risulta che il sesso e la bellezza sono soltanto espressioni dell'istinto di riprodursi. E allora diciamolo: il sesso e la bellezza sono una cosa sola, come la fiamma e il fuoco. Se provi odio per il sesso, lo provi anche per la bellezza. Se ammiri la bellezza vivente, provi rispetto anche per il sesso…La sventura della nostra civiltà deriva dall'odio morboso che proviamo per il sesso"[4].
 
La fobia del sesso fa parte della propaganda di qualsiasi regime.
Deriva spesso dalla storia personale e, quando è espressa da autori maschi, deve essere collegata alla paura delle donne. Faccio un esempio che  accosta, paradossalmente, Aristofane a Manzoni.
Nelle Rane  di Aristofane  il personaggio Eschilo si vanta di non avere mai fatto agire nei suoi drammi Fedre né Stenebee puttane (povrna", v. 1043) e anzi di non avere mai creato una donna in amore (" ejrw'san pwvpot  j ejpoivhsa gunai'ka", v. 1044).
Il personaggio Euripide ribatte maliziosamente che nei drammi del rivale in effetti non c'è nulla di Afrodite (1045), ossia non c'è grazia.
 
Ebbene lo stesso merito, dubbio assai, se lo attribuisce Manzoni nel Fermo e Lucia :" Non si deve scrivere di amore in modo da far consentire l'animo di chi legge a questa passione. Di amore ce n'è seicento volte di più di quanto sia necessario alla conservazione della nostra riverita specie. Io stimo dunque opera impudente l'andarlo fomentando con gli scritti".
 
A queste parole dell'autore aggiungo alcune frasi prese da una tesi di abilitazione all'insegnamento secondario di una giovane laureata  della SSIS di Bologna:"Il carattere di Lucia è architettato sulla base d'un sistema che uccide il pensiero…Le sue aspirazioni, il suo voto incontrano freddezza nel lettore di cuore sano; essa appare o insipida o egoista e tutta la maestria della disposizione non basta a infondere sangue a quella creazione…Lucia fa olocausto di sé sull'altare di un sistema"[5]. 
 
Manzoni, maniaco dell'antisesso, si noti, è un moderato e uno che si dice cristiano. Eppure il Cristo disse bene della peccatrice :"Remissa sunt peccata eius multa, quoniam dilexit multum, cui autem minus dimittitur, minus diligit " (Luca, 7, 47), le sono perdonati i suoi molti peccati poiché ha amato molto, quello invece cui si perdona meno, ama meno. E' una di quelle splendide pagine del Vangelo che sono ignorate o fraintese dai furfanti bigotti i quali adulterano le parole sante. A tale categoria appartiene "la vecchia Bovary" la quale, quando il farmacista propose di chiamare sua nipote Madeleine "protestò aspramente contro quel nome di peccatrice"[6].
Tolstoj ci scherza sopra con intelligenza:" I libertini, queste Maddalene di sesso maschile, hanno un segreto senso della propria innocenza, né più né meno come le Maddalene femminili, e basato sulla medesima speranza di perdono:"Tutto le sarà perdonato, perché ha molto amato; e a lui tutto sarà perdonato, perché si è molto divertito"[7].
 
Ma torniamo all’Eneide con Didone che all’inizio del quarto canto dopo il racconto di Enea è già ferita dal volnusvulnus- amoroso:"At regina gravi iamdudum saucia cura/volnus alit venis et caeco carpitur igni " (IV, vv. 1-2) ma la regina, già da tempo colpita da pesante affanno, /ravviva nelle vene la ferita ed è divorata da un fuoco nascosto.-
at: la congiunzione avversativa connette il primo verso di questo canto all'ultimo del terzo  con il quale Virgilio dichiara concluso il racconto di Enea, capace, come Odisseo, di sedurre attraverso le parole il cui lungo fluire ha messo in agitazione la regina mentre ha dato finalmente quiete all'eroe che ha raccontato se stesso:"Conticuit tandem factoque hic fine quievit" (III, 718), tacque infine e posto qui un termine si riposò.
 
Bologna 7 giugno 2021 ore 10, 40
 
giovanni ghiselli
 
 
 
 


[1]A. La Penna-C. Grassi (a cura di) Virgilio, Le Opere, Antologia , p. 357.
[2]L'uomo senza qualità , p. 270.
[3]Lo spazio letterario di Roma antica, 1, p. 153.
[4] Fantasia dell'inconscio e altri saggi sul desiderio, l'amore, il piacere , Mondadori, Milano, 1978. Tratto da Lunario dei giorni d'amore , pp. 427-428.
[5] G. Morandini, La voce che è in lei, Bompiani, 1997, p. 16. La tesi è di Alessandra Neri, alumna optima .
[6] G. Flaubert, Madame Bovary, p. 74. 
[7]Guerra e pace , p. 855.

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