domenica 6 giugno 2021

Eros-Eris. Parte III. Orazio, Properzio, Tibullo

Orazio nell'Ode 26 del terzo libro[1], nello stesso tempo scherzosa e malinconica, impiega la metafora della milizia d'amore dichiarando il suo addio alle armi che,  come la lira usata per sedurre, saranno appese alla parete del tempio di Venere:"Vixi puellis nuper idoneus/et militavi non sine gloria;/nunc arma defunctumque bello/barbiton hic paries habebit " (26, 1-4) sono vissuto fino a poco fa idoneo alle ragazze, e ho fatto il servizio militare non senza gloria: ora questa parete avrà le armi e  la lira che ha compiuto la guerra.
Più tardi, nella prima Ode del quarto libro[2] il poeta arrivato intorno alla cinquantina (circa lustra decem , v. 6) chiede a Venere di risparmiargli la guerra:"Intermissa, Venus, diu/rursus bella moves?  Parce, precor, precor " (vv. 1-2),  dopo lunga tregua, Venere, mi fai di nuovo  guerra? Risparmiami, ti prego, ti prego. Il secondo verso "si configura come una ajpopomphv, cioè come una preghiera destinata ad allontanare da chi prega il pericolo proveniente da una divinità"[3].
Il pericolo è costituito dai dardi dell'amore.
Orazio è contemporaneo dei poeti elegiaci, ossia scrive nei decenni nei quali va definendosi il modo di considerare il rapporto dell'uomo con la donna. Nel poeta di Venosa, a differenza che in Catullo (il quale precorre gli elegiaci), non c'è una donna che accentra l'attenzione: egli, come scrisse Pasquali, vola di fiamma in fiamma senza bruciarsi le ali.
Anche nel poeta di Venosa tuttavia c'è il mal d'amore: vediamo l' Ode I, 19 per Glìcera. La prima strofe (asclepiadea IV) mette il rilievo fin dal suo incipit la dura crudeltà di Venere:" Mater saeva Cupidinum/Thebanaeque iubet me Semĕlae puer/et lasciva Licentia/finitis animum reddere amoribus"( vv. 1-4), la madre crudele degli Amori e il figlio della Tebana Semele-Semevlh- e la Licenza sfrenata mi impongono di ridare il mio animo ad amori finiti. Il puer è Bacco poiché il vino è viatico per l'amore come si legge in Apuleio ( L'asino d'oro , II, 11). Nella contrasto tra iubet me  e lasciva Licentia  vediamo una delle  contraddizioni dell'amore: quando siamo innamorati vogliamo libertà e servitù assoluta nello stesso tempo.  
 Nella seconda strofe  c'è una fiamma che divora:"urit me Glycĕrae nitor/splendentis Pario marmore purius,/urit grata protervitas/et voltus nimium lubrĭcus adspici " (vv. 5-8), mi infiamma il fulgore di Glìcera il quale brilla più splendidamente del marmo Pario, mi infiamma la sfrontatezza gradita e il volto troppo pericoloso a guardarsi. L'anafora di urit  mette in rilievo la forza del fuoco e anche se il nome della donna contiene la dolcezza[4], il suo volto lubrico è un rischio per il poeta che può scivolarci sopra[5].
Nella terza strofe successiva l'innamoramento è visto come un assalto subìto:"in me tota ruens Venus/Cyprum deseruit nec patitur Scythas/et versis animosum equis/Parthum dicere nec quae nihil attĭnent " (vv. 9-12), Venere lanciandosi tutta contro di me ha lasciato Cipro, e non permette che io canti gli Sciti e il Parto audace sui cavalli girati né ciò che non la riguarda.  Venere tota ruens  è come Cipride nell'Ippolito citato sopra (v. 443) e come Eros dell'Antigone  che si abbatte su quello che trova (pivptei" v. 782) giacché amor omnibus idem  come scrive Virgilio"(Georgica III, v.244). Sicché Orazio innamorato è del tutto pervaso da questa divinità crudele, è già in guerra con lui, e non può dedicarsi a cantare altre guerre, quelle esterne. Nell'ultima strofe il poeta si dispone a riti propiziatori per mitigare la divinità crudele che esige sacrifici:"hic vivum mihi caespitem, hic/verbēnas, pueri, ponite turaque/bini cum patĕra meri:/mactata veniet lenior hostia" (vv. 13-16), ponetemi qui una zolla viva, ragazzi, qui ramoscelli ponete e incenso con una tazza di vino dell'altro anno: verrà più mite una volta ammazzata la vittima.   
 
Cipride stessa vanta la propria potenza entrando in scena all’inizio dell’Ippolito di Euripide “ Pollh; me;n ejn brotoi'" koujk ajnwvnumo"-qea; kevklhmai Kuvpri~, oujranou' t j e[sw ( vv. 1-2),  grande e non oscura dea, sono chiamata Cipride, tra i mortali e nel cielo.
Nel primo episodio la  nutrice di Fedra le attribuisce  una forza d'urto ineluttabile:" Kuvpri" ga;r ouj forhto;n h]n pollh; rJuh'/" (v. 443), Cipride infatti non è sostenibile quando si avventa con tutta la forza.
 La potenza di Cipride viene celebrata anche all'inizio della Parodo delle Trachinie di Sofocle:"mevga ti sqevno" aJ Kuvpri" ejkfevretai-nivka" ajeiv" (vv. 497-498), Cipride porta con sé una grande potenza, sempre vittorie.
 
   Il tovpo" del rapporto rischioso con un Eros crudele e ostile si trova pure, con accentuazione del dolore, in Properzio il quale dipinge Amore come un nemico armato dal quale nessuno può allontanarsi senza ricevere ferite:" Et merito hamatis manus est armata sagittis,/ et pharetra ex umero Gnosia utroque iacet,/Ante ferit quoniam, tuti quam cernimus hostem, /nec quisquam ex illo vulnere sanus abit " (II, 12, 11- 12), giustamente la mano è armata di frecce uncinate, e dai due omeri pende una faretra cretese, poiché ferisce prima che noi al riparo vediamo il nemico né alcuno scampa immune da quella ferita.   Il poeta ne è già stato colpito al punto che il dio fa una guerra continua dentro il suo sangue:" Assiduusque meo sanguine bella gerit" (v. 16). Amore dovrebbe vergognarsi di tanto accanimento e  scagliare i suoi dardi contro qualcun altro:" Si pudor est, alio traice tela tua " (v. 18). Oramai è l'ombra sottile di Properzio, non più la persona che busca bastonate:"non ego, sed tenuis vapulat umbra mea" (20). Se il canto deve continuare dunque bisogna che almeno l'umbra non vada perduta e Amore smetta di menare colpi.
  La differenza tra Orazio e gli elegiaci è che questi non cercano di attenuare la violenza di Eros ma accettano tutti gli aspetti dolorosi della passione.
Nell'Ode I 33 di consolazione a Tibullo, Orazio allega all'amore una parola chiave della poesia amorosa che è dolere , patire il dolor, la sofferenza amorosa consigliando all'amico Albio di evitarla. Vediamo la prima stofe ( asclepiadea terza):" Albi, ne doleas plus nimio memor/immitis Glycĕrae, neu miserabilis/decantes elegos, cur tibi iunior/laesa praeniteat fide " (vv. 1-4), Albio non dolerti più  troppo memore della crudele Glìcera e non andare cantando lamentosi distici perché, violata la fedeltà, uno più giovane prevale su te con il suo splendore.
Immitis Glycerae  presenta un rapporto ossimorico tra l'aggettivo e  la dolcezza contenuta nel nome della donna.. Questo ossimoro anticipa il successivo saevo cum ioco  (v. 12): alla dea Venere con divertimento crudele piace sottomettere a gioghi di bronzo anime e aspetti incongrui.
 
 Il motivo della donna immitis  è ricorrente nella poesia elegiaca: nel corpus Tibullianum  uno dei componimenti di Ligdamo indica un rapporto di necessità tra la padrona crudele e l'amore:"Nescis quid sit amor, iuvenis, si ferre recusas/immitem dominam coniugiumque ferum " (III, 4, 73-74), non sai cosa sia l'amore , giovane, se rifiuti di soffrire una padrona crudele e un accoppiamento feroce.
 
Tornando all'Ode oraziana (I, 33)   il verbo decantare del v. 3 allude al ripetuto, continuo piagnisteo della poesia elegiaca e così pure miserabilis= miserabiles (v. 2).
Nella seconda strofe c'è un poliptoto che significa la singolare catena d'amore nella quale chi ama non è riamato:"Insignem tenui fronte Lycorida/Cyri torret amor, Cyrus in asperam/declīnat Pholoen: sed prius Apulis/iungentur caprae lupis,//quam turpi Pholoe peccet adultero. Sic visum Veneri, cui placet imparis/Formas atque animos sub iuga aenea/Saevo mittere cum ioco " (vv. 5-12), l'amore per Ciro brucia Licorida notevole per la fronte piccola, Ciro è incline all'aspra Foloe: ma le capre si accoppieranno con i lupi apuli prima che Foloe pecchi con un amante brutto. Così è parso giusto a Venere cui sembra opportuno sottoporre a gioghi di bronzo aspetti e anime differenti con divertimento crudele. 
E' il tovpo" dell'amore che insegue chi fugge e viceversa.
quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor  (Ovidio, Amores , 2, 20, 36). Lo tratteremo più avanti.
In torret (v. 6) ritroviamo la metafora del fuoco molto frequente nella poesia amorosa.
 L'accoppiamento di capre e lupi è un esempio di adynaton, cosa impossibile. Orazio in ogni caso non soffre troppo poiché ha capito e si è rassegnato alla tragica legge del crudele gioco erotico per la quale amiamo chi non ci ama e non amiamo chi ci ama. Sembra che capire questo, e magari riderci sopra, sia l'antidoto al dolore:"Ipsum me melior cum peteret Venus,/Grata detinuit compede Myrtale/Libertina, fretis acrior Hadriae/Curvantis Calabros sinus " (vv. 13-16), me pure, quando mi cercava un amore più degno, tenne avvinto con ceppi graditi  Mìrtale liberta, più violenta dei flutti dell'Adriatico che incurva i golfi salentini. Il giogo amoroso è accettato volentieri dal poeta.
Del resto i caratteri forse non erano troppo impares poiché Orazio nell'Ode III 9 viene definito dall'amante Lidia "improbo/iracundior Hadria " (vv. 21-22), più collerico dell'Adriatico in tempesta.
In ogni modo il rapporto amoroso è difficile quanto la traversata dell'Adriatico in tempesta. Ma vale la pena affrontarlo poiché ci aiuta a scoprire l'identità: come scrivere un libro, impresa che  "non cessa mai di essere una cosa folle, eccitante, la traversata di un oceano su un minuscolo canotto, un volo solitario attraverso il Tutto[6]".
Bologna 6 giugno 2021 ore 10, 35
giovanni ghiselli
 


[1]Edito con i primi due nel 23 a. C.
[2]Edito nel 13 a. C.
[3]A. La Penna, Orazio, Le Opere, Antologia , p. 438.
[4] glukei'a=dolce.
[5]Ho colto diversi  suggerimenti su questa Ode da una conferenza tenuta da Paolo Fedeli durante il XV Certamen Horatianum di Venosa (maggio 2001).

[6]H. Hesse, La Cura , p. 73.

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