NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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domenica 6 giugno 2021

Eros-Eris. Parte IV. La guerra fredda tra gli amanti: giuramenti falsi e tradimenti più o meno occulti

Il tradimento della fede da parte della donna ricordato nell'Ode I 33 è topico nelle situazioni amorose dei poeti elegiaci i quali ricevono ferite da questa attitudine dell'amante.
Invano le korivnqiai gunai'ke" nel primo stasimo della Medea  di Euripide avevano protestato contro questo tipo di giudizio malevolo comune dei poeti maschi: i canti dei poeti antichi smetteranno di ripetere la storia della mia malafede ("ta;n ejma;n uJmneu'sai ajpistosuvnan ", v. 422). Dopo il tradimento di Giasone a Medea ovviamente.
  
In effetti la considerazione malevola delle donne si trova già nell'XI canto dell'Odissea quando Agamennone finito nell'Ade dopo essere stato trucidato dalla suggerisce a Ulisse di stare molto attennto anche quando sarà tornato a Itaca:" ejpei; oujkevti pista; gunaixivn" (v. 456),  poiché non c'è più credibilità per le donne.
 Poi Esiodo nelle Opere  aveva scritto: chi si fida di una donna, si fida dei ladri (v. 375). Perciò il fratello dell'autore, Perse, doveva stare attento a non lasciarsi ingannare da una donna pugostovlo", dal deretano vezzoso, che mentre fa moine seducenti mira al granaio (vv. 373-374).
 
Una femmina oraziana che incarna il tradimento è l'etera Barine.
 Nell'Ode II 8 Orazio afferma che gli dèi non puniscono gli spergiuri in amore, come se il campo erotico fosse estraneo alla religione e alla morale.
Sembra la trasposizione scherzosa di quello che Tucidide fa dire agli Ateniesi nel dialogo con i Meli: riteniamo infatti che la divinità, secondo la nostra opinione,  e  l'umanità in modo evidente, in ogni occasione, per necessità di natura ("dia; panto;" uJpo; fuvsew" ajnagkaiva"") dove sia più forte, comandi,  V, 105, 2.
 In amore, come in guerra e in molti altri campi, i rapporti tra gli umani sono puri rapporti di forza. Barine non viene punita per i suoi spergiuri, non diventa più brutta, anzi.
 
Vediamo le prime due strofe saffiche.
"Ulla si iuris tibi peierati/poena, Barīne, nocuisset umquam,/dente si nigro fieres vel uno/turpior ungui,/ /crederem:sed tu simul obligasti/perfidum votis caput, enitescis/pulchrior multo iuvenumque prodis/publica cura " ( Ode, II, 8, vv. 5-8), Barìne, se la pena del giuramento violato ti avesse mai nociuto, se diventassi una dal dente nero o più brutta per una sola unghia, ti crederei: ma tu appena    hai impegnato la tua vita perfida con i voti, brilli molto più bella e vieni avanti, pubblico tormento per i giovani.
-iuris peierati poena:"in nessun'altra cosa come in amore si usa e si abusa a cuor leggero del giuramento. Ma gli antichi, che erano attaccati con tutta l'anima a una credenza che aveva tanta parte nella loro religione, nel diritto e nella vita comune, corsero ai ripari per ingannar se stessi: in amore sì, poiché lo si vede ogni giorno avvenire senza conseguenze, è lecito giurare falso senza pericolo, nel resto no"[1].
 Perfidum caput  è il consueto[2] aggettivo che indica la rottura del  foedus    e obligare, impegnare, è coerentemente un verbo del linguaggio giuridico. Enitescis  costituisce l' ajprosdovkhton che contrasta con la punizione mancata dell'annerimento dei denti in conseguenza dello spergiuro (dente si nigro fieres vel uno/turpior ungui ", vv. 2-3, se diventassi più brutta per la dentatura annerita o almeno per una sola unghia).
 " Orazio, negando che Barine abbia anche soltanto un tal neo, la glorifica perfetta: menzognera sì ma perfetta. Noi non possiamo immaginare che le parole del poeta carezzino, più che non feriscano, l'orecchio dell'ascoltatrice: donne di tal fatta non possono soffrire che si rinfaccino loro difetti fisici, o, peggio, l'età, ma sanno bene che mestiere fanno e non si dolgono se lo si ricorda loro con i debiti riguardi"[3].
Il publica cura  del v. 8 sovrappone la terminologia politica a una situazione erotica. "Orazio rincara la dose: essa non solo non ha sofferto della fede mancata, anzi a ogni giuramento falso divien più bella, ed esce per le vie accompagnata da un corteo sempre maggiore di giovani: nel publica cura si sente l'ironia, che però si rivolge molto più contro gli adoratori che non contro la bella donna, la quale fa, e ha ragione, i suoi interessi"[4].
 
Il tovpo" del giuramento amoroso tradìto.
 Pasquali cita varie testimonianze della sua affermazione per la quale solo in amore è lecito spergiurare.
aggiungo il Simposio di Platone dove Pausania fa notare che i più pensano che gli stessi dèi siano indulgenti verso gli spergiuri amorosi:"ajfrodivsion ga;r o{rkon ou[ fasin ei\nai" (183b), infatti dicono che non c'è giuramento d'amore.
Seguo qualche altra indicazione dell'autore di Orazio lirico :" Tibullo non ne fa uso se non in quella sua Ars amandi (I 4, 21) posta in bocca a Priapo" (p. 480). Vediamone due distici:"Nec iurare time: Veneris periuria venti/irrita per terras et freta summa ferunt.// Gratia magna Iovi; vetuit pater ipse valere,/iurasset cupide quidquid ineptus amor "  (I, 4, vv. 21-24), non aver paura di giurare: gli spergiuri di Venere i venti li trascinano annullati per le terre e in cima ai flutti. Dobbiamo essere molto grati a Giove; il padre ha personalmente vietato che avesse valore qualunque giuramento avesse bramosamente fatto uno spropositato amore.
 
Del cattivo esempio dato dal padre onnipotente in fatto di adultèri e tradimenti possiamo ricordare le Nuvole di Aristofane.
Ma torniamo al cattivo maestro di Aristofane.
Se  vuoi fare i tuoi comodi, continua l'Ingiusto, vieni a scuola da me: ti insegnerò a parlare in modo da avere sempre ragione:
"se vieni sorpreso in adulterio-moico;" ga;r h]n tuvch/" aJlou"- (1079), rispondi a quello
che non hai fatto niente di male-wJ" oujde;n hjdivkhka"-: quindi devi imputarne la colpa a Zeus,/ (1080)
anche lui è sottomesso all'amore e alle donne-kajkei'no" wJ" h[ttwn e[rwtov" ejsti kai; gunaikw'n (1081);
e allora tu che sei mortale, come potresti essere più forte- di un dio? qeou' mei'zon ; "(1082).
 
Una menzione ridicola del dongiovannismo di Zeus, e di Poseidone, si trova anche negli (Uccelli  del 414):
"bisogna proclamare la guerra santa contro Zeus e impedire agli dèi/
di andare e venire per la vostra terra a cazzo ritto
(toi`si qeoi`sin ajpeipei`n ejstukovsi, da stuvw, “ho un’erezione”, 557)
come una volta quando scendevano a sedurre le Alcmene
le Alopi e le Semele"(vv.556-559).
 
Pasquali fa ancora notare che "Ovidio imita questo passo di Tibullo nell' a. a. I 633 sgg"[5].
Vediamo qualche distici anche del magister Naso:"Iuppiter ex alto periuria ridet amantum/et iubet Aeolios inrita ferre Notos.// Per Styga Iunoni falsum iurare solebat/Iuppiter: exemplo nunc favet ipse suo " (Ars Amatoria ,I, 631-634), Giove dall'alto sorride agli spergiuri degli amanti e ordina che i venti di Eolo li portino via senza effetto. Sullo Stige Giove era solito giurare il falso a Giunone: ora favorisce personalmente chi segue il suo esempio.
Ovidio, fa notare Pasquali nella nota citata sopra, "aveva già adoperato il tovpo" in forma un po' diversa in due passi degli Amores, assai somiglianti tra loro: I 8, 85 nec, siquem falles, tu periurare timeto:/ commodat in lusus numina surda Venus"[6] , e se ingannerai qualcuno tu non esitare a spergiurare: per i giochi amorosi Venere rende sordi gli dèi.
 L'altro passo chiede indulgenza per gli spergiuri onesti:" Tu, dea, tu iubeas animi periuria puri/Carpathium tepidos per mare ferre Notos " (Amores , II, 8, 19-20), tu, dea, tu ordina che gli spergiuri di un animo puro li portino via i tiepidi venti del sud attraverso il mare Carpatico. La dea naturalmente è Venere, il mare Carpatico è l'Egeo chiamato così dall'isola di Carpato situata tra Creta e Rodi. Mare, isole e venti meridionali, tiepidi evocano vacanze e sensualità.    
  
Anche in Anna Karenina c'è un "codice di norme", quello di Vrònskij, che ammette lo spergiuro amoroso:" Le norme stabilivano senz'ombra di dubbio che bisognava pagare un baro, ma non obbligavano a pagare un sarto; che agli uomini non bisognava mentire, ma si poteva con le donne; che non bisognava ingannare nessuno ma un marito si poteva ingannare; che non si potevano perdonare le offese, ma che si poteva offendere, e così via"[7].
 
Torniamo all’ Ode II 8 di Orazio:" Expedit matris cineres opertos/fallere et toto taciturna noctis/signa cum caelo gelidaque divos/morte carentis[8].//Ridet hoc, inquam, Venus ipsa, rident/simplices Nymphae, ferus et Cupido/ semper ardentis acuens sagittas/cote cruenta " (vv. 9-16), ti giova ingannare le ceneri sepolte di tua madre e le silenti costellazioni della notte con l'intero cielo e gli dèi immuni dal gelo della morte. Ride di questo, lo affermo, la stessa Venere, ridono le Ninfe ingenue e il feroce Cupido che aguzza sempre i dardi ardenti sulla cote cruenta.
 
 matris cineres opertos (coperti dalla tomba) fallere: il giuramento sulle ossa e le ceneri dei genitori è particolarmente grave: lo usa Properzio per rendere indubitabile la sua dedizione (gravitas) a Cinzia  fino alla morte e oltre:"ossa tibi iuro per matris et ossa parentis/ si fallo, cinis heu sit mihi uterque gravis " (II, 20, 15-16), te lo giuro sulle ossa di mia madre, sulle ossa di mio padre, se ti inganno siano opprimenti per me le ceneri di entrambi. Se venisse meno la gravitas di Properzio interverrebbe negativamente quella della cenere. Ma forse il poeta sa o teme di essere lui stesso gravis per Cinzia.-
 
"La scena della terza strofa, il giuramento per la tomba della madre sotto il cielo stellato è romantica e atta a ispirare terrori misteriosi. Orazio riprende qui uno spunto che aveva trattato nella sua romantica giovinezza[9] (epod. XV 1):"nox erat et caelo fulgebat luna sereno inter minora sidera, cum tu magnorum numen laesura deorum, in verba iurabas mea", era notte e la luna brillava nel cielo sereno tra gli astri minori, quando tu, pronta a violare la potenza degli dèi grandi, giuravi sulle mie parole (vv. 1-4) Si tratta di Neera che giura, falsamente a Orazio "fore hunc amore mutuum " (v. 10). Ma il Venosano saprà reagire eroicamente: "nec semel offensae cedet constantia formae/si certus intrarit dolor " (vv. 15-16, un esametro e un dimetro giambico), e la costanza non cederà alla bellezza una volta rivelatasi odiosa, se un dolore certo sarà entrato nell’animo
 
 Il non cedere è caratteristico dell'eroe: lo stesso Orazio definisce Achille incapace di cedere[10] .
 E il rivale felicior , più fortunato cui il poeta si rivolge con un quicumque es (v. 17), chiunque tu sia- come il coro o un personaggio della tragedia greca a Zeus (Eschilo, Agamennone 160; Euripide, Troiane , 885)  e come Enea a Mercurio (Eneide IV, 577)-, presto piangerà anche lui l'amore passato da un'altra parte e il poeta a sua volta riderà:" Heu heu! translatos alio maerebis amores/Ast ego vicissim risero " (epod. XV vv. 23-24). L'ultimo distico applica all'amore l'idea dell'orbis che ogni cosa porta in giro, in tutti i sensi.  
-Ridet…rident : il poliptoto a cornice e inquam rafforzano questo distacco sorridente dalla vicenda amorosa, ben diverso dagli scoppi di gelosia e dalle maledizioni con le quali reagiscono ai tradimenti e agli spergiuri Catullo e gli elegiaci.
Faccio l'esempio di Properzio: nel primo libro (pubblicato attorno al 28 a. C.) l'amante geloso ricorda a Cinzia, la quale lo fa soffrire con la sua leggerezza (levitas) e la sua perfidia, che lo spergiuro può provocare la vendetta divina:"desine iam revocare tuis periura verbis,/Cyntia, et oblitos parce movere deos " (15, 25-26), smettila di tirare fuori di nuovo gli spergiuri con le tue parole, Cinzia, evita di irritare l'oblio dei numi.
 Nel secondo libro, redatto tra il 28 e il 26, Properzio sembra replicare all’ ode di Orazio citata sopra.
Sentiamo questa obiezione all’impunità dei tradimenti amorosi"non semper placidus periuros ridet amantes/Iuppiter et surda neglegit aura preces./vidistis toto sonitus percurrere caelo,/fulminaque aetheria desiluisse domo?/non haec Pleiades faciunt neque aquosus Orion,/nec sic de nihilo fulminis ira cadit;/periuras tunc ille solet punire puellas,/deceptus quoniam flevit et ipse deus " ( Properzio, II, 16, 47-54), non sempre Giove ride calmo degli amanti spergiuri e con orecchie sorde trascura le preghiere. Hai visto i tuoni trascorrere per tutto il cielo e i fulmini saltati giù dalla dimora eteria? Questi non sono effetti delle Pleiadi né del piovoso Orione, né così cade dal niente l'ira del fulmine; allora quello suole punire le ragazze spergiure, poiché anche lui stesso, un dio, pianse ingannato.   
E' il ribaltamento del gioco sofistico che utilizzato dal Discorso Ingiusto nelle Nuvole di Aristofane e ripreso da orazio, poi da Ovidio. Anzi, secondo Pasquali "l'ultimo verso par quasi una risposta alla elegia citata dal primo libro di Tibullo ( I, 4, 21-24 citato sopra) pubblicato appunto in quello stesso torno di tempo: come lì Giove perdonava, conscio di aver dato lui il cattivo esempio, così qui punisce per dispetto degli inganni in cui egli è caduto"[11]. Properzio in un'altra elegia del medesimo libro fa dipendere la malattia di Cinzia non tanto dal caldo canicolare quanto dal fatto che la fanciulla non ha rispettato gli dèi:" venit enim tempus, quo torridus aestuat aer,/ incipit et sicco fervĕre terra Cane./sed non tam ardoris culpa est neque crimina caeli,/quam totiens sanctos non habuisse deos " (II, 28, 5-6), è venuto il tempo nel quale l'aria ribolle torrida, e la terra comincia a bruciare per la Canicola assetata. Ma la colpa non è tanto del caldo né delitto del cielo, quanto non avere considerati santi gli dèi. Il tovpo" degli spergiuri si trova anche in un'altra elegia di Tibullo, quella contro il fanciullo Maratho (I, 9). Il poeta all'inizio utilizza il motivo della sera numinis vindicta , la punizione divina che tarda ma arriva contro gli spergiuri:"  Ah miser, et siquis primo periuria celat,/sera tamen tacitis Poena venit pedibus!" (vv. 3-4), ah sciagurato, se qualcuno in un primo momento nasconde gli spergiuri, la punizione arriva comunque anche se tardi con piedi silenziosi.
 
Appendice
Una confutazione generale all’impunità di tutte le malefatte
la Giustizia di cui Zeus è garante arriva, prima o poi, ma sempre. Lo afferma Solone dell'Elegia alle Muse :" pavntw" u{steron h\lqe divkh"(fr. 13 W., v. 8), più tardi in ogni caso arriva giustizia.
Plutarco nello scritto I ritardi della punizione divina cita un proverbio: “i mulini degli dei macinano tardi” (550) La formulazione completa è che essi macinano tardi, però macinano finemente. L’autore dei Moralia spiega tale lentezza con la volontà divina di dare un esempio “per eliminare la violenza e il furore delle nostre vendette. Il dio insegna a non aggredire chi ci ha offeso” (550 E).
Orazio ricorda che “raro antecedentem scelestum/deseruit pede Poena claudo” (Carm., III, 2, 31-32), raramente la Pena dal piede zoppo lasciò davanti a sé il colpevole. Si pensi alla zoppia del tiranno che dopo tutto si punisce da solo.
E Stazio, a proposito delle “ardite femmine spietate” dell’isola di Lemno, le quali “tutti li maschi loro a morte dienno”[12] ricorda, attraverso il racconto di Ipsipile, che “lentoque inrepunt agmine Poenae” (Tebaide, V, 60), le punizioni che procedono in colonna, senza fretta, quindi la “divum sera per aequor iustitia” ( V, 359-360), la giustizia degli dèi che arriva tardi, ma arriva.   
Ancora: in La tempesta di Shakspeare, Ariele ricorda ai tre peccatori (You are three men of sin, III, 3) Alonso, Sebastiano e Antonio i quali hanno spodestato da Milano il buon Prospero, che per il loro atto “The powers, delayng, not forgetting, have-Incens’d the seas and shores”, le potenze che rimandano, non scordano, hanno aizzato i mari e le rive.   
Bologna 6 giugno 2021 ore 11, 55
giovanni ghiselli
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[1] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 477.
[2]Cfr. perfide  in Catullo 64, 133 già visto; più avanti lo troveremo in bocca a Didone in Eneide  IV 305.
[3]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 484.
[4]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 485.
[5]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 480, n. 2.
[6] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 480, n. 2.
[7] L. Tolstoj, Anna Karenina, p. 310.
[8] carentis=carentes.-
[9] Pasquali, op. cit., p. 485. Gli Epodi furono pubblicati intorno al 30 a. C.
[10] Odi , I, 6, 6.
[11] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 481. 
[12] Dante, Inferno, XVII, 89 e 90.

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