NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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venerdì 25 giugno 2021

Introduzione a Plutarco. Percorso intero

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Introduzione a Plutarco come antidoto contro la mediocrità e l'indifferenza dell'uomo moderno. L'informazione spesso deficitaria dei giornali. La cultura quale potenziamento della fuvsi".

 

Plutarco è noto soprattutto per le Vite parallele  le quali "sono il monumento classicistico della storia classica"[1].

In questo scrittore vissuto nell’età imperiale (48-125 d. C.) , biografo, storiografo, moralista, rivivono i grandi temi e i valori etici, politici, religiosi dell'età non solo classica ma anche arcaica,  particolarmente quel tema dell'eroismo, della grandezza umana, che abbiamo sempre cercato durante il percorso fatti insieme.

Plutarco viene trascurato dalla scuola del nostro tempo poiché le sue figure grandiose, nel bene e nel male, non sono di moda; il "genocidio culturale"[2] perpetrato dai mezzi di informazione ha annichilito prima di tutto la razza davvero umana delle persone intellettualmente e moralmente autonome, sostituendola con una massa di omuncoli privi di identità personale, eppure non sempre innocui.

Una genìa di cui già si lamentava Foscolo nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis  deplorando:"i delitti di tanti uomiciattoli ch'io degnerei di nominare, se le loro scelleraggini mostrassero il vigore d'animo, non dirò di Silla e di Catilina, ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto quantunque e' si vedano presso il patibolo-ma ladroncelli, tremanti, saccenti-più onesto insomma è tacerne"(4 dicembre).

L'homo consumens  odierno non deve avere a cuore altro che lo spendere e lo sprecare. Questo tramonto dell'eroe, con il rimpianto di alcuni fortunati, o sfortunati, pochi[3] che sentono il bisogno di tale dimensione, almeno proba e onesta se non anche eroica, un declino dell’uomo parallelo al tramonto degli dèi lamentato già da Sofocle[4], non è un fatto recente, se consideriamo il bisogno di Plutarco, e il rimpianto dei suoi grandi personaggi, in autori che certamente sono noti agli studenti liceali, almeno a quelli di una volta: Vittorio Alfieri, ad esempio, il quale nell'autobiografia scrive:"Ma il libro dei libri per me, e che in quell' inverno mi fece veramente trascorrere dell'ore di rapimento e beate, fu Plutarco, le vite dei veri Grandi. Ed alcune di quelle, come Timoleone, Cesare, Bruto, Pelopida, Catone, ed altre, sino a quattro e cinque volte le rilessi con un tale trasporto di grida, di pianti, e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato. All'udire certi gran tratti di quei sommi uomini, spessissimo io balzava in piedi agitatissimo, e fuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia mi scaturivano al vedermi nato in Piemonte e in tempi e governi ove niuna alta cosa non si poteva né fare né dire, ed inutilmente appena forse ella si poteva sentire e pensare"[5].

Insomma leggendo Plutarco troviamo, in età oramai non lontana dalla "tardo antica", quella grandiosità di sentimenti e concezioni che abbiamo amato in Omero, in Erodoto e nella tragedia. Il che non toglie, vedremo, quel senso della misura e quel rifiuto dell'eccesso che abbiamo pure individuato come valore fondamentale nello storiografo delle guerre persiane. Non per niente Plutarco fu sacerdote delfico.

Sull’ingresso del tempio si poteva leggere to; toiou'ton gravmma, tale iscrizione: Gnw'qi sautovn, conosci te stesso e Mhde;n a[gan, nulla di troppo.

A proposito di “Conosci te stesso”, l’iscrizione di Delfi,  sentiamo Platone

Il dialogo Carmide  verte sulla swfrosuvnh, e il personaggio Crizia ne dà questa definizione: “ e[gwge aujto; tou'to fhmi ei\nai swfrosuvnhn, to; gignwvskein eJautovn”, io per me affermo che proprio questo sia  assennatezza, conoscere se stesso, e tale l’iscrizione (to; toiou'ton gravmma) di Delfi corrisponde a un Cai`re, un salve, un saluto del dio (164d) il quale dice a colui che di volta in volta entra nel tempio: “oujk allo ti h] Swfrovnei”, nient’altro che sii saggio. Infatti Conosci te stesso e Sii saggio sono la stessa cosa “to; ga;r Gnw'qi sautovn kai; to; Swfrovnei e[stin me;n taujtovn” (165a).

 

Ma prima di esporre la vita  e le opere  che si trovano in tutti i manuali, e ciò nondimeno racconterò, più tardi però, e a modo mio, voglio riportare testimonianze davvero "autorevoli", non come quelle che ora vengono attribuite, a sproposito, ad alcuni scarabocchiatori dei giornali che sono, quando va bene, "la sfera dei secondi dell'orologio della storia", come dice bene Schopenhauer[6]. 

Non meno critico con i giornali e i giornalisti è Leopardi quando nell'ironica Palinodia Al Marchese Gino Capponi  ammette di avere riconosciuto "la pubblica letizia, e le dolcezze/del destino mortal"(vv. 21-22) dacché "viva rifulse/agli occhi miei la giornaliera luce/delle gazzette"(vv. 18-20).

Addirittura sarcastico nei confronti dei giornali "autorevoli" è il Leopardi-Tristano delle Operette morali  quando dice:"Credo ed abbraccio la profonda filosofia de' giornali, i quali uccidendo ogni altra letteratura e ogni altro studio, massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce dell'età presente"[7].

Messa in dubbio, attraverso un grande nome della letteratura ed uno della filosofia, l' autorevolezza che le "gazzette" e i gazzettieri effimeri si attribuiscono a vicenda, passiamo ad autori seri  per autorizzare Plutarco, un'operazione forse non inutile poiché l'autore delle Vite parallele  nella scuola non ha il posto che si merità siccome essa vuole ragazzi mediocri, apatici e servili. Cercherò di usare il biografo degli eroi, lo scrittore morale dei Moralia  come antidoto a tali malattie dello spirito inoculate dai media.

 

 

Corso del 29 giugno. Introduzione a Plutarco II parte

Per l'uomo moderno, Plutarco significa Shakespeare

Montaigne, Kierkegaard, Foscolo e Nietzsche

 

 

 Un accorato grido contro l'apatia e il vuoto mentale si trova in Kierkegaard che guarda all'Antico Testamento  e a Shakespeare come a rifugi.

 Plutarco non è nominato direttamente, ma proprio per questo abbiamo l'occasione di chiarire un nesso tra il drammaturgo elisabettiano e il nostro storiografo:" Per l'uomo moderno, Plutarco significa Shakespeare"[8], e viceversa. E allora diciamo subito che alcune tragedie di Shakespeare (il Giulio Cesare, l'Antonio e Cleopatra, il Coriolano ) dipendono da Plutarco che il drammaturgo inglese leggeva nella traduzione (del 1579) di Thomas North fatta su quella  francese (del 1559) del vescovo Amyot che tradusse pure i Moralia (1572)[9]. Nonostante la doppia traduzione ci sono, soprattutto nel Coriolano , situazioni e frasi che riproducono gli originali di Plutarco, tanto che Elias Canetti (1905-1994)  in un passo[10] de La provincia dell'uomo , afferma che " Plutarco non è affatto schizzinoso. Nelle sue pagine accadono cose terribili, come nelle pagine del suo seguace Shakespeare". Stabilito questo collegamento, diamo la parola al filosofo danese:"Lasciamo che gli altri si lamentino che i tempi sono cattivi; io mi lamento che il nostro tempo è miserabile, poiché è senza passioni. I pensieri degli uomini sono sottili e fragili come merletti, essi stessi miseri come le ragazze che fanno i merletti. I pensieri delle loro menti sono troppo meschini per essere peccaminosi. In un verme si potrebbe forse considerare come peccato l'avere tali pensieri, non in un uomo, creato a immagine di Dio. I loro desideri sono compassati e torpidi, le loro passioni sonnolente...Puah! Ed è per questo che la mia anima torna sempre all'Antico Testamento e a Shakespeare. Là si sente che quei che parlano sono uomini; là si odia, là si ama, si ammazza il nemico, si maledice la sua stirpe per tutte le generazioni, là si pecca"[11]. Un'idea simile si trova in Nietzsche:"Leggi Shakespeare: egli è pieno di questi uomini forti, rozzi, duri, potenti, uomini di granito. Di tali individui l'epoca nostra è poverissima, e quindi anche di uomini che abbiano animo capace di accogliere i miei pensieri"[12].

 Shakespeare dunque, e a maggior ragione il suo maestro Plutarco possono, o perfino debbono, essere utilizzati contro la mediocrità, la passività e la volgarità quando queste sembrano sommergere tutto. Aggiungiamo qualche altra testimonianza di scrittori per noi "autorevoli" che cercano nel greco quella dimensione eroica di cui tutti i figli della luce hanno bisogno. 

Foscolo nelle già citate Ultime lettere di Iacopo Ortis [13] scrive:"Col divino Plutarco potrò consolarmi de' delitti e delle sciagure della umanità volgendo gli occhi ai pochi illustri che quasi primati dell'umano genere sovrastano a tanti secoli e a tante genti". Andrea Maffei, l'autore del libretto de I masnadieri  di Verdi (1848), traducendo quasi alla lettera alcune parole del protagonista del dramma Die Räuber [14] di Schiller("Che nausea guardare questo secolo parolaio quando leggo Plutarco e i fatti dei grandi uomini"[15], I, 2) fa esordire Carlo Moor[16] ( che appare "immerso nella lettura d'un libro" come spiega la didascalia) con queste parole: "Quando io leggo in Plutarco, ho noia, ho schifo/di questa età d'imbelli!".  Plutarco dunque consola della volgarità imbelle dei tempi moderni, ma induce anche a disprezzarli, o a osservarli con distacco apollineo. Canetti nella pagina citata prima parla di duplice influenza: "Dinanzi alle sue creature, Plutarco non ha mai un atteggiamento acritico. Ma il suo pensiero ha posto per molti tipi di uomini. E' longanime come può esserlo solo un drammaturgo che opera sempre con molti personaggi dai caratteri diversi e in particolare con le loro diversità. Per questo ha esercitato due generi di influenza. Alcuni hanno ricavato i loro modelli da lui, come da un libro di oracoli, e hanno modellato la propria vita in conformità. Altri hanno assunto dentro di sé i suoi quasi cinquanta personaggi e sono, così, divenuti o rimasti drammaturghi". Ma tra gli estimatori di Plutarco il più attento alla sua funzione di educatore, la più interessante anche per noi, è Nietzsche che nell Prefazione alla seconda Considerazione Inattuale , Sull'utilità e il danno della storia per la vita  (del 1874) respinge come "odioso" (con parole di Goethe che però ciascuno di noi potrebbe sottoscrivere) "tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività"[17](p. 81), e rifiuta il "grado di insonnia, di ruminazione, di senso storico, in cui l'essere vivente riceve danno e alla fine perisce"[18], affermando che la storia è necessaria  "all' attivo e al potente, a colui che combatte una grande battaglia, che ha bisogno di modelli, maestri e consolatori, e che non può trovarli fra i suoi compagni e nel presente. Così essa occorreva a Schiller: il nostro tempo è infatti così cattivo, dice Goethe, che nella vita umana che lo attornia il poeta non incontra più nessuna natura utilizzabile"[19].

Il nostro tempo  è caratterizzato da gente non solo cattiva ma anche debole: "nella mancanza di dominio su se stessi, in ciò che i romani chiamano impotentia , si rivela la debolezza della personalità moderna"[20]. Un ajntifavrmako" , un ottimo contravveleno di questa impotenza può essere Plutarco:"Se invece rivivrete in voi la storia dei grandi uomini, imparerete da essa il supremo comandamento di diventare maturi e di sfuggire al fascino paralizzante dell'educazione del tempo, che vede la sua utilità nel non lasciarvi maturare  per dominare e sfruttare voi, gli immaturi. E se desiderate biografie, allora che non siano quelle col ritornello "Il signor Taldeitali e il suo tempo". Saziate le vostre anime con Plutarco ed osate credere in voi stessi, credendo ai suoi eroi. Con un centinaio di uomini educati in tal modo non moderno, ossia divenuti maturi e abituati all'eroico, si può oggi ridurre all'eterno silenzio tutta la chiassosa pseudocultura di questo tempo"[21].

Lo studio dei classici serve anche a questo: “non saprei infatti che senso avrebbe mai la filologia classica nel nostro tempo, se non quello di agire in esso in modo inattuale-ossia contro il tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore del tempo venturo”[22]

 

Insomma Plutarco e, più in generale, i Greci "impararono a poco a poco a organizzare il caos , concentrandosi, secondo l'insegnamento delfico, su se stessi, vale a dire sui loro bisogni veri, e lasciando estinguere i bisogni apparenti...E' questo un simbolo per ognuno di noi: ognuno deve organizzare il caos in sé, concentrandosi sui suoi bisogni veri"[23]. Il giovane deve capire che la cultura può essere "qualcos'altro che decorazione della vita , cioè in fondo unicamente dissimulazione e velame, poiché ogni ornamento nasconde la cosa ornata. Così gli si svelerà il concetto greco della cultura-in contrapposizione a quello romano-il concetto della cultura come una nuova e migliore physis , senza interno ed esterno, senza dissimulazione e convenzione, della cultura come unanimità fra vivere, pensare, apparire e volere"[24]. E' con questo spirito che affrontiamo lo studio di Plutarco.    

 

Introduzione a Plutarco III parte

 

La vita di Plutarco, sacerdote delfico e funzionario dell'impero romano. Il rapporto degli scrittori Greci con la lingua latina secondo Leopardi.

 

Plutarco nacque a Cheronea poco prima del 50 d. C. da famiglia antica, illustre e benestante.

Anche la cittadina dove lo scrittore vide la luce e passò la maggior parte della sua vita, per non renderla ancora più piccola con la sua assenza, come scrisse[25], era del resto illustre: là infatti, nell'estate del  338 a. C  "ebbe luogo l'epocale battaglia"[26] con cui  finì il mondo delle povlei" greche indipendenti, sconfitte da Filippo II di Macedonia e da suo figlio Alessandro che divennero i padroni dell'Ellade.

Al tempo della vita di Plutarco però i signori della Grecia erano diventati i Romani e il nostro autore, dovette fare i conti con loro.

Non furono calcoli particolarmente eroici i suoi invero, o per lo meno tutt'altro che rivoluzionari, poiché, come afferma Mazzarino, "egli, cittadino di Cheronea e filosofo e sacerdote greco, poteva riassumere in sé gli ideali dell'alta borghesia greca, da cui proveniva, e quelli delle classi dirigenti "umanistiche" di Roma"[27].

Tutta la sua opera monumentale insomma "mira a rappresentare (ed a giustificare storicamente) la 'condirezione greco-romana del vasto impero"[28]. Canfora fa anche notare[29] che Plutarco "raccomanda, nei suoi Precetti politici  (composti non molto dopo la morte di Domiziano[30]) di "tener l'occhio fisso ai calzari dei Romani che sono al di sopra del tuo capo"(813E)".

All'inizio dello stesso paragrafo Plutarco prescrive al politico greco di dire a se stesso: governi da governato, in quanto la città è sottoposta ai proconsoli, ai procuratori di Cesare ("uJpotetagmevnh" povlew" ajnqupavtoi", epitrovpoi" Kaivsaro"").

Più avanti(824B) l'autore consiglia di calzare il coturno di Teramene in caso di sedizione e di dialogare con le due parti senza aderire a nessuna, ma molto meglio sarà prevenirne gli scoppi poiché quello che conta è il benessere economico e ai popoli tocca tanta libertà quanta ne concedono i dominatori" ejleuqeriva" d  j o{son oiJ kratou'nte" nevmousi toi'" dhvmoi" mevtesti"(824C). Questo scritto tutt'altro che eroico "non manca di precisare con brutale franchezza quelli che sono i limiti dell'autonomia cittadina rispetto agli organi di governo provinciale romano"[31], e forse non sarebbe piaciuto a Jacopo Ortis , al pari della vita vissuta da Plutarco,  ma questa appartiene a lui solo, mentre le sue biografie di  eroi sono patrimonio di tutti.

Plutarco, pur essendo legato alla sua cittadina, e alla non lontana Delfi dove fu sacerdote del tempio di Apollo, viaggiò in Grecia e in altre regioni dell'impero: si recò ad Atene, dove frequentò la scuola dell'accademico Ammonio che lo avviò alla conoscenza di Platone, a Sparta, ad Alessandria, a Roma e in altre località dell'Italia dove del resto non imparò bene la lingua latina in quanto "preso dai doveri politici e dall'insegnamento della filosofia"[32].

 

“I Greci, a partire da Polibio, incominciano a raccontare la storia dei “vincitori” , magari alla luce di un presupposto in cui i loro intellettuali hanno fermamente creduto: quello di un “condominio” greco-romano del mondo via via inglobato nell’impero di Roma. L’idea stessa delle Vite parallele di Plutarco si basa su questo presupposto. L’obiettivo, non sempre concretamente realizzabile, dovrebbe essere quello espresso efficacemente da Arnold J. Toynbee (Civilization on trial[33]), di “studiare la storia greca e romana come una storia ininterrotta, con un corso unico e indivisibile”[34].  

 

Se vogliamo salvare la nostra cultura dobbiamo difendere e impiegare bene la nostra lingua.

Parlare male fa male alla nostra anima e al nostro pensiero.

 

Plutarco come quasi tutti i Greci più o meno latinizzati scrisse comunque in greco.

 Questo greco dunque che accettava il predominio romano come ineluttabile, non si latinizzò fino a scrivere in latino invece come fecero tanti altri intellettuali non Greci che  furono collaboratori dell'impero .  A tale proposito sono interessanti alcune riflessioni dello Zibaldone di Leopardi

"Un argomento chiaro di quanto poco i greci studiassero il lat. così assolutamente, come in particolare rispetto a quello che i latini studiavano il greco, è quello che dicono Plutarco nel principio del Demostene, e Longino dove parla di Cic.[35]". Più avanti Leopardi chiarisce questo concetto "Ridotti in provincie romane i diversi paesi dell'impero, tutti gli scrittori che uscirono di queste provincie, qualunque lingua fosse in esse originaria o propria, scrissero in latino. I Seneca, Quintiliano, Marziale, Lucano...ed altri Spagnuoli; Ausonio...Terenzio, Marziano Capella, Frontone, Apuleio, Nemesiano, Tertulliano...S. Agostino, S. Cipriano, Lattanzio ed altri Affricani...Non così i greci... Nessuno di questi scrisse in latino, ma tutti in greco, eccetto pochissimi"[36].

Vengono fatti alcuni nomi, tra cui quello di Macrobio (forse nativo dell'Africa) e del siriano Ammiano Marcellino. Quindi continua così:"Ma del resto i greci di qualunque parte, ancorché sudditi romani, ancorché cittadini romani, ancorché vissuti lungo tempo in Roma o in Italia, ancorché scrivendo precisamente in Italia o in Roma, e in mezzo ai latini... ancorché nel tempo dell'assoluta padronanza, ed intiera estensione del dominio della nazione latina, ancorché impiegati in cariche, in onori ec. al servizio de' Romani, e nella stessa Roma, ancorché finalmente nominati con nomi e prenomi latini, scrissero sempre in greco, e non mai altrimenti che in greco. Così Polibio, familiare, compagno, e commilitone del minore Scipione; così Dionigi d'Alicarnasso, vissuto 22 anni in Roma...così Plutarco...Da tutto ciò si deduce in primo luogo, quanto, e con quanta differenza dalle altre nazioni, i greci di qualunque paese fossero tenaci della lingua e letteratura loro, e noncuranti della latina, anche durante e dopo il suo massimo splendore...la lingua latina, (eccetto nella Magna Grecia e in Sicilia) non solo non estirpò, ma non prevalse mai in nessun modo e in nessun luogo alla lingua e letteratura greca, se non come pura lingua della diplomazia: quella lingua latina, dico, la quale nelle Gallie aveva, se non distrutta, certo superata quell'antichissima lingua Celtica così varia, così dolce, così armoniosa, così maestosa, così pieghevole... lingua della cui purità erano depositarii e custodi gelosissimi quei famosi Bardi che avevano e conservarono per sì lungo tempo ancor dopo la conquista fatta da' Romani, tanta influenza sulla nazione, e massime poi la letteratura...Questa lingua e letteratura cedette alla romana...la greca non mai...e in ultimo, piuttosto i latini vincitori e signori si ridussero a parlare quotidianamente e scrivere il greco, e divenir greci... Ed ora la lingua latina non si parla in veruna parte del mondo, la greca, sebbene svisata, pur vive ancora in quell'antica e prima sua patria. Tanta è l'influenza di una letteratura estesissima in ispazio di tempo, e in quantità di cultori e di monumenti; sebbene ella già fosse cadente a' tempi romani, e a' tempi di Costantino[37], possiamo dire, spenta. Ma i greci se ne ricordavano sempre, e non da altri imparavano a scrivere che da' loro sommi e numerosiss. scrittori passati, siccome non da altri a parlare, che dalle loro madri...Certo è che la letteratura influisce sommam. sulla lingua...Una lingua senza letteratura, o poca, non difficilmente si spegne, o si travisa in maniera non riconoscibile...E sebbene anche i latini ebbero una letteratura, e grande, e che sommam. contribuì a formare la loro lingua, tuttavia si vede ch'essa letteratura, venuta, per così dire, a lotta colla greca, in questo particolare, dové cedere, giacché non solamente non poté snidare la lingua e letterat. greca, da nessun paese ch'ella avesse occupato, ma neanche introdursi né essa né la sua lingua in veruno di questi paesi"[38].

E più avanti: “Non si sa che i costumi de’ romani passassero ai greci neppur dopo Costantino…Da che i costumi de’ greci furono formati, essi li comunicarono agli altri ma non li ricevettero più da nessuno. Quindi la sì lunga incorruttibilità della loro lingua, e la sua durata fino al presente. La tenacità che i greci ebbero sempre per le cose loro, e l’amore esclusivo che portarono e portano alla loro nazione, e a’ loro nazionali, è maravigliosa. Ho udito di alcune colonie greche ancora sussistenti in Corsica e in Sicilia, dove i coloni parlano ancora il greco, conservano i costumi greci, e non hanno stretta relazione se non fra loro, benché abitino in mezzo a un paese di nazione diversa, e sieno soggetti a un governo forestiero….E non è meraviglioso lo stato presente dei greci?”. Leopardi nota che altre lingue, compresa l’italiana, si sono mescolate e confuse “Ma i greci non sono divenuti mai turchi, né i turchi greci” (Zibaldone, 1591-1592).

“Polibio non si accorge, come non sembra essersi accorto Posidonio, della superiorità che la classe politica romana si era procurata imparando a parlare greco, mentre i Greci non sapevano il latino”[39].

Plutarco dunque non imparò il latino e non scrisse mai in questa lingua.

 

 

 

Plutarco cittadino romano e le sue opere scritte tutte in greco

 

Plutarco fu cittadino romano, eppure non scrisse alcuna opera in latino non scrisse alcuna opera in latino dunque

 

Nondimeno  fu cittadino romano con il nome di Mestrio, e se fu colpito dal bando con il quale Domiziano nel 93/94 d. C. decretò la cacciata dei filosofi da Roma, da Traiano ricevette gli ornamenta consularia ( in greco "th;n tw'n uJpatw'n ajxivan", secondo la voce Plutarco della Suda , un'enciclopedia letteraria bizantina, messa insieme nel X secolo d. C.), mentre al principio del regno di Adriano gli fu affidato l'incarico di curatore della provincia di Acaia, ossia di procuratore della Grecia, secondo una notizia del Chronicon  di Eusebio[40]. L'Adriano romanzato della Yourcenar ricorda:"A Cheronea, dove ero andato a commuovermi sulle antiche coppie di amici del Battaglione Sacro, fui per due giorni ospite di Plutarco"[41].

Non è stato Plutarco stesso a lasciarci le notizie sulle sue cariche alte, sebbene soltanto onorifiche, di funzionario dell'impero romano; egli invece ci parla delle sue magistrature locali, quelle di Cheronea e della Beozia dove fu arconte eponimo, sovrintendente all'edilizia pubblica e televarco", sovrintendente alla polizia di Tebe. Ma soprattutto fu fiero del suo sacerdozio delfico, incarico per il quale organizzava i giochi pitici, presiedeva le Anfizionie, offriva sacrifici, guidava processioni e danzava[42]. L'autore delle Vite parallele dunque con i suoi impegni politici e amministrativi "rappresenta bene i comportamenti ( e la visione del proprio posto nella compagine imperiale) proprî dei gruppi dirigenti filoromani. La tutela degli interessi della propria regione, o anche della propria cittadina, diventa preminente preoccupazione di questi gruppi dirigenti: è il modo in cui essi vedono concretamente attuarsi quella 'condirezione dell'impero che non poteva certo essere impostata-ed essi ne erano ben consapevoli-su un piano di parità"[43]. Plutarco morì in età alquanto avanzata in una data compresa tra il 120 e il 127 d. C.

 

 Bologna 20 giugno 2021 ore 11, 18

giovanni ghiselli

 

 

 

Plutarco IV

Le opere

 

Il Corpus Plutarcheum  comprende 260 titoli: la Suda  ne fornisce 227 che costituiscono il cosiddetto catalogo di Lampria, un presunto figlio dell'autore che avrebbe compilato un elenco degli scritti paterni. In realtà Lampria si chiamavano il nonno e un fratello di Plutarco. L'attribuzione dunque è errata e il catalogo incompleto, poiché non contiene tutti i titoli delle opere delle quali abbiamo i testi o le testimonianze: ce ne sono altre 33, quindici delle quali  andate perdute. Di questa numerosissima produzione ci è arrivato un terzo: centoventi opere, intere o frammentarie, che si possono dividere in due grandi gruppi: le cinquanta biografie delle Vite parallele  (Bivoi paravllhloi) e i settanta scritti[44] che vengono designati come Moralia , ossia Scritti etici  (in greco  jHqikav) poiché il tono prevalente, come d'altra parte anche nel resto dell'opera, è quello della filosofia morale, o, per dirla con Platone, il massimo maestro riconosciuto da Plutarco con devozione quasi assoluta, dell' ajnqrwpivnh sofiva[45]. Montaigne, che era un grande estimatore di Plutarco, scrive che egli "è ammirevole in tutto, ma principalmente là dove giudica delle azioni umane"[46], e che gli Opuscoli  dello scrittore di Cheronea "da quando è divenuto francese" sono, come le Lettere  di Seneca, "la parte più bella dei suoi scritti, e la più utile", in quanto, afferma, l'autore dei Saggi :"hanno tutti e due questo vantaggio notevole per la mia indole, che la scienza che vi cerco vi è trattata a brani scuciti, che non richiedono l'obbligo di un lungo lavoro"[47]. 

 Le biografie parallele sono ventidue coppie formate tutte dalle vite di un greco e di un romano, tranne una coppia doppia, ossia costituita da due Greci (i re spartani Agide e Cleomene) e due Romani (i tribuni Tiberio e Caio Gracco). Inoltre ci sono pervenute quattro biografie singole: quelle di Arato, di Artaserse (unica figura esterna al mondo greco-romano), di Galba e di Otone. Il catalogo di Lampria riporta titoli di altre vite che non ci sono arrivate: per esempio la coppia Epaminonda-Scipione.

Poiché, come si è visto, si tratta di un'opera assai vasta e varia  è piuttosto imbarazzante fare una scelta che metta in luce le quintessenze del plutarchismo: dovrò limitarmi ad alcune Vite parallele  antologizzando le parti che possono considerarsi dichiarazioni programmatiche dell'autore; quindi seguirò il criterio di scegliere alcunii passi utili a integrare le storie dei personaggi o ad ampliare i temi che ho evidenziato studiando negli autori precedenti. Partiremo dunque dal proemio "metodologico" della Vita di Alessandro  dove l'autore, tra l'altro, dichiara di non scrivere storie ma biografie.

La lingua di Plutarco ha una base attica che ammette gli influssi della koinhv. I suoi periodi sono ampi ma non "difficili" per la regolarità e la chiarezza logica con cui sono costruiti. Per quanto riguarda lo stile, c'è una costante attenzione a evitare lo iato e, più in generale, all'armonia del suono e all'equilibrio della struttura dei periodi. Nel complesso la lettura è agevole e gradevole, dunque, ancora una volta, :"Lector, intende; laetaberis ".    

giovanni ghiselli

 

 

Introduzione a Plutarco parte V

 

Assimilazione o dissimilazione dello scrittore e del lettore rispetto al personaggio raccontato. L'educazione impartita attraverso esempi positivi e negativi. Plutarco e Machiavelli.

 All'inizio della Vita di Alessandro ,  Plutarco annuncia il suo intento di raccontare la biografia del re usando il pluralis maiestatis  "gravfonte""  e assimilandosi così in qualche modo al sovrano di cui vuole narrare le vicende. In effetti uno degli scopi del biografo di Cheronea è l'assimilazione all'eroe. Nel proemio alle vite  di Timoleonte ed Emilio Paolo  (1) egli dichiara: all'inizio mi è capitato di mettere mano a scrivere le vite per gli altri, ma oramai continuo e insisto anche per me stesso, poiché, scrutando attraverso la storia come in uno specchio ("wJvsper ejn ejsovptrw/ th'/ iJstoriva/ peirwvmenon") mi avviene in qualche modo di adornare e uniformare la  vita alle virtù di quegli illustri personaggi ("kosmei'n kai; ajformiou'n pro" ta;" ejkeivnwn ajreta;" to;n bivon") .

Così del resto faceva Machiavelli leggendo. Lo racconta nella Lettera a Francesco Vettori  :"Venuta la sera, mi ritorno in casa et entro nel mio scrittoio; et in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e, rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum  è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni. E quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi tranferisco in loro...Die 10 Decembris 1513  ".

La lettura dei classici dunque per il segretario fiorentino aveva un valore catartico. Lo stesso significato positivo ha per Plutarco lo scrivere biografie: nella prefazione alla coppia Timoleonte - Emilio Paolo  infatti l'autore procede dicendo: il mio lavoro mi appare proprio come un conversare, un vivere quotidianamente in intimità con costoro, quando, per narrarne le vicende, io li ricevo quasi e li accolgo a turno come ospiti uno per uno, e considero  quanto  grande e quale sia (" o{sso" e[hn oi|ov" te"[48]), scegliendo fra le loro azioni quelle che furono le più importanti e le belle per la conoscenza:"ta; kuriwvtata kai; kavllista pro;" gnw'sin ajpo; tw'n pravxewn lambavnonte"". Insomma "il biografo si rimira nello specchio della storia per accordare la propria esistenza ai grandi paradigmi di virtù fornitigli dai suoi personaggi, vive anzi con loro (come poi Montaigne), desideroso di preservare nell'animo la memoria fragrante di ciò che varrà poi ad espellere l'ignobile sentore della quotidianità. Gli exempla virtutis  costituiscono il più sicuro esercizio di virtù per l'autore"[49].

Quindi Plutarco cita un frammento di Sofocle[50]:"feu' feu', tiv touvtou cavrma mei'zon  a]n lavboi"; ", ah, ah, quale gioia potresti prendere maggiore di questa, e, aggiunge, quale più efficace per il raddrizzamento dei costumi? Lo studio della Storia allora infonde gioia in chi lo coltiva, come  la poesia: Erodoto narra che in attesa del canto di Arione, nel cuore dei pur spietati marinai corinzi che lo avevano condannato a morte per derubarlo, si insinuò il piacere [51].

La catarsi avviene non solo assimilando il valore, ma anche respingendo i vizi, e questo accade sia imitando la virtù degli uomini grandi e buoni, il cui esempio aiuta a respingere quella dose di pochezza (" ti fau'lon") o malvagità ("h] kakovhqe"") o volgarità ("h] ajgennev"", ) che le compagnie di coloro con i quali si deve  vivere  insinuano ("aiJ tw'n sunovntwn ejx ajnavgkh" oJmilivai prosbavllousin"[52]),  sia prendendo quali contromodelli uomini grandi e cattivi.

 

Anche secondo Tito Livio la conoscenza della tradizione storica fornisce a chi la possiede il grande strumento dei modelli positivi da imitare e di quelli negativi da respingere:"Hoc illud est praecipue in cognitione rerum salūbre ac frugiferum, omnis te exempli documenta in inlustri posita monumento intuēri: indi tibi tuaeque rei publicae quod imitēre capias, inde foedum inceptu, foedum exitu quod vites"[53], questo soprattutto è salutare e produttivo nella conoscenza della storia, che tu consideri attentamente i documenti di ogni esempio situati in una tradizione illustre: di qui puoi prendere modelli da imitare per te e per il tuo Stato, di qui contromodelli da evitare in quanto turpe nel movente, turpe nel risultato.

 

giovanni ghiselli

 

 

 

Introduzione a Plutarco

Vizi di Antonio

 

Plutarco assimila le sue biografie che rivelano i caratteri all’opera dei pittori.

Orazio scriverà ut pictura poesis ( Ars poetica, 361.

 

In un'altra prefazione, quella a Demetrio-Antonio,  Plutarco afferma che forse non è male inserire tra gli esempi le vite  di uomini che hanno fatto uso del loro ingegno in modo troppo sconsiderato, e sono divenuti celebri nel potere e nelle grandi imprese per i loro vizi ("eij" kakivan").

Vediamo allora alcuni aspetti di negatività di Antonio ripresi da Shakespeare

Nella prima scena del primo atto dell’Antonio e Cleopatra  entrano Demetrio e Filone, amici di Antonio.

Filone dice: la passione del nostro generale passa la misura “o’erflows the measure (1-2): i suoi occhi che in battaglia scintillavano come quelli di Marte coperto dall’armatura, ora abbassano lo sguardo, devotamente su una fronte abbronzata e il suo cuore di condottiero è diventato il mantice e il ventaglio to cool a gipsy’s lust (10) per raffreddare la lussuria di una zingara,

Poi entrano i due amanti devoti pesti futurae con le  dame e gli eunuchi che fanno vento a Cleopatra. Quindi Filone aggiunge: facci caso e lo vedrai il terzo pilastro del mondo: “ trasform’d into a strumpet’s – Old France strupe Late L. strupum from L. stuprum-fool” (12-13), trasformato nello zimbello di una sgualdrina

Per il tardo latino strupum cfr. Dante:”non è sanza cagion l’andare al cupo- vuolsi nell’alto, là dove Michele-fe’ la vendetta swl superbo strupo” sono parole di Virgilio a Pluto (Inferno, VII, 10-12).

 

Antonio è colpevole di avere sottoposto la ragione al piacere: dopo la vittoria di Ottaviano, Cleopatra domanda a Enobarbo : “Is Antony or we in fault for this?”, la colpa è di Antonio o mia? E l’amico di Antonio, in procinto di abbandonarlo risponde: “Antony only, that would make his will-Lord of is reason” (III, 13), solo di Antonio che ha sottoposto la sua ragione al suo piacere.

Antonio era amato dai suoi soldati poiché amava gozzovigliare con loro. Fondamentale per lui era la figura di Ercole. Tendeva a indossare abiti che ricordavano Ercole e anche la barba a tutto viso. Il suo comportamento, cameratesco, generoso, passionale, era visto come Erculeo. 

Antonio ed Ercole godevano di una popolarità che Ottaviano/Augusto e Apollo non avrebbero mai raggiunto. Il loro comune discendente, Nerone, univa in sé i due opposti. Non a caso le due divinità con cui si identificava erano Apollo/Sole ed Ercole.

Plutarco precisa che  racconta non solo le virtù ma anche il loro pervertimento in vizi non per per offrire diversivi al piacere dei lettori ma per procedere didatticamente, come procedeva il flautista tebano Ismenia che faceva ascoltare ai discepoli quelli che suonavano bene e quelli che suonavano male il flauto, ed era solito dire:"ou{tw" aujlei'n dei',- kai; pavlin- ou{tw" aujlei'n ouj dei'", così bisogna suonare, e viceversa, così non bisogna suonare il flauto. Perciò, conclude Plutarco, a me sembra che anche noi saremo maggiormente desiderosi di essere osservatori e imitatori di uomini migliori se non rimarremo nell'ignoranza della storia di quelli viziosi e biasimati:"ou{tw" moi dokou'men hJmei'" proqumovteroi tw'n beltiovnwn e[sesqai kai; qeatai; kai; mimhtai; bivwn, eij mhde; tw'n fauvlwn kai; yegomevnwn ajnistorhvtw" e[coimen" (Vita di Demetrio, 1, 6).

 

 Plutarco  paragona la propria opera di biografo a quella dei pittori:

Noi infatti non scriviamo storie, ma vite, né del resto nelle azioni più famose è sempre insita una manifestazione di virtù o di vizio, ma spesso un'azione breve e una parola e una battuta danno un'immagine del carattere più che battaglie con innumerevoli morti e schieramenti di eserciti enormi e assedi di città.

Come dunque i pittori-w{sper ou\n oiJ zw/vgrafoi- colgono le somiglianze dal volto e dalle espressioni relative allo sguardo nelle quali si mostra il carattere, mentre delle parti restanti si prendono pochissima cura, così a noi si deve concedere di penetrare più nei segni dell'anima, e attraverso questi rappresentare la vita di ciascuno, lasciando ad altri le grandezze e le contese  ( Introduzione alle Vite di Alessandro e Cesare, I. 2-3)

 

Bologna 20 giugno 2021 ore 17, 35

giovanni ghiselli

 

Introduzione a Plutarco

VII e ultima parte

Importanza degli esempi per l’educazione

 

In effetti l'esempio , positivo e negativo, è la stella polare dell'educazione antica, il punto di orientamento più efficace. Già nel primo canto dell'Odissea  compaiono i paradigmi educativi:  Egisto è presentato dallo stesso Zeus quale contromodello, siccome è uno degli uomini che soffrono dolori contro il destino per  la loro follia:"sfh'/sin ajtasqalivh/sin ujpe;r movron a[lge j e[cousin"(v. 34), e viceversa Oreste più avanti  viene indicato a Telemaco da Atena-Mente quale paradigma positivo in quanto ha ucciso il negativo Egisto appunto, e ha vendicato il padre. Anche tu sii forte, lo incoraggia la dea, poiché ti vedo bello e grande assai:" "kai; suv, fivlo", mala gavr s joJrovw kalovn te mevgan te-a[lkimo" e[ss  j"(vv.  301-302). Senza l'esempio mancherebbe l'elemento concreto indispensabile per un elleno: "il realismo, in arte, è greco; l'allegorismo è ebraico", ebbe a scrivere Pavese[54]. Quando il figlio di Odisseo si reca a Pilo, Nestore gli ricorda lo stesso paradigma e gli rinnova l'incoraggiamento ( Odissea  III, vv. 193-200). La cultura greca tende a sviluppare organicamente le forme originarie: tra Omero e Plutarco l'uso dell'esempio concreto non viene mai meno, e pure Platone utilizza spesso modelli e contromodelli:  nel Gorgia  il filosofo presentato i tiranni tra gli incurabili ("ajnivatoi", 525c) diventati tali poiché hanno commesso i crimini più atroci e non espiabili: ebbene costoro, non potendo più redimersi, servono come paradeivgmata, esempi negativi per gli altri, stando sospesi nel carcere dell'Ade.

 Plutarco  nel preambolo alla coppia Demetrio - Antonio  dice che questi due sono uomini adatti a testimoniare quanto Platone scrisse: " o{ti kai; kakiva" megavla" w{sper ajreta;" aiJ megavlai fuvsei" ejkfevrousi", che le grandi nature producono grandi virtù come anche grandi vizi.

Nella Repubblica  (491e) di Platone Socrate infatti spiega al giovane Adimanto che le anime di natura migliore, se ottengono un' educazione cattiva diventano straordinariamente cattive, poiché le grandi malvagità nascono da nature grandi.

Torniamo quindi a Demetrio e Antonio, i due "eroi negativi" di Plutarco:"genovmenoi d& oJmoivw" ejrwtikoi; potikoi; stratiwtikoi; megalovdwroi polutelei'" uJbristaiv, kai; ta;" kata; tuvchn oJmoiovthta" ajkolouvqou" e[scon" (Vita di Demetrio, 1, 8), divenuti ugualmente amatori, bevitori, bellicosi, munifici, sontuosi, violenti, ebbero anche somiglianze conseguenti di destino, ossia, spiega, con infime cadute nella polvere e sublimi salite sui fastigi del potere.

E' da notare che il biografo platonico ricorda, nel rappresentare questi due uomini "uJbristaiv", alcune caratteristiche che Platone attribuisce al tiranno destinato a divenire paradigma negativo: il turanniko;" ajnh;r è , per natura, o per le abitudini, tra l'altro,"mequstikov" te kai; ejrwtikov"" (Repubblica, 573c) incline al bere e anche al sesso.

 

giovanni ghiselli
Antonio e Cleopatra

Ultimo scambio di battute tra Cleopatra e Ottaviano nell’Antonio e Cleopatra di Shakespeare

L’ereditarietà della colpa. Il disprezzo del lavoro mercantile

 

.

Cleopatra dice: si deve sapere che noi, le persone più grandi della storia umana, siamo mal giudicati per cose fatte male da altri-be it known thate we, the greatest, are miss-thought/ for things that other do,  e quando cadiamo rispondiamo con il nostro nome di quanto hanno meritato altri, and when we fall,-we answer other merits L. meritum-merere in our name,  e  quindi siamo degni di compassione, and therefore to be pitied” (V, 2, 276-279)

Ancora una negazione della felicità di chi raggiunge o eredita il potere nel cui ambito vige, secondo Cleopatra, la legge della ereditarietà della colpa chiarita per la propria stirpe da Eteocle nei Sette a Tebe di Eschilo.

Un problema grande nell’uomo greco è quello della ereditarietà delle colpe dei padri. Sentiamone alcune espressioni: Eteocle nei Sette a Tebe non è personalmente colpevole ma deve pagare per :"la trasgressione antica/dalla rapida pena/che rimane fino alla terza generazione:/quando Laio faceva violenza/ad Apollo che diceva tre volte,/negli oracoli Pitici dell'ombelico/del mondo, di salvare la città/morendo senza prole;/ma quello vinto dalla sua dissennatezza/generò il destino per sé,/Edipo parricida,/quello che osò seminare/il sacro solco della madre, dal quale nacque/radice insanguinata,/e fu la pazzia a unire/gli sposi dementi"(vv.742-757).

Il Coro dell ’Antigone  di Sofocle deplora la catastrofe della ragazza con queste parole: "Avanzando verso l'estremità dell'audacia,/hai urtato , contro l'eccelso trono della Giustizia,/creatura, con grave caduta,/ del resto sconti una colpa del padre" (vv. 853-856).

Ora leggiamone un’interpretazione, a sua volta parecchio problematica, di Pasolini:“Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti. E’ il coro-un coro democratico- che si dichiara depositario di tale verità: e la enuncia senza introdurla e senza illustrarla, tanto gli pare naturale”

Pasolini trova una ragione nella legge  della tragica predestinazione a ereditare le colpe: i giovani del 1975 sono figli di padri colpevoli, padri “che si son resi responsabili, prima, del fascismo, poi di un regime clerico-fascista, fintamente democratico, e, infine, hanno accettato la nuova forma del potere, il potere dei consumi, ultima delle rovine, rovina delle rovine”. I figli dunque sono puniti. “Ma sono figli “puniti” per le nostre colpe, cioè per le colpe dei padri. E’ giusto? Era questa, in realtà, per un lettore moderno, la domanda senza risposta, del motivo dominante del teatro greco. Ebbene sì, è giusto. Il lettore moderno ha vissuto infatti un’esperienza che gli rende finalmente, e tragicamente, comprensibile l’affermazione-che pareva così ciecamente irrazionale e crudele-del coro democratico dell’antica Atene: che i figli cioè devono pagare le colpe dei padri. Infatti i figli che non si liberano delle colpe dei padri sono infelici: e non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità”.

E le colpe dei padri? Esse sono la complicità col vecchio fascismo e l’accettazione del nuovo fascismo. Perché tali colpe?

“Perché c’è-ed eccoci al punto-un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante. In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese [55].

 

Ottaviano risponde a Cleopatra che non intende sottrarle nulla di quanto ella ha dichiarato e si è meritata e prende le proprie distanze dalla figura del mercante che l’antica aristocrazia disprezzava e magari anche la moderna lo fa, soprattutto se è di origine mercantile.

Caesar ’s no merchant, to make prize with you-of things that merchants sold” (V, 2, 183-184), Cesare non è un mercante da contrattare  con  voi un prezzo delle cose vendute dai mercanti.

 

Il disprezzo del mercante risale all’Odissea

 Odisseo si offende poiché il Feace Eurialo gli ha detto che non sembra un atleta bensì un ajrco;" nautavwn oi{ te prhkth're" e[asi (Odissea, VIII, 162) capo di marinai che sono mercanti ed è ejpivskopo" kerdevwn aJrpalevwn, ispettore di guadagni rapaci (163-164).

Cfr. la lex Claudia de senatoribus ( del218 a. C.) proposta dal tribuno della plebe Quinto Claudio e approvata. Prescriveva che nessun senatore potesse avere una nave con una capacità superiore alle 300 anfore. .

 Id satis habitum ad fructus ex  agris vectandos, quaestus omnis patribus indecōrus visus” tale carico si ritenne impiegato per il trasporto dei prodotti agricoli, ogni profitto ritenuto indecoroso per i senatori (Livio, XXI, 63)

La legge aveva avuto l’appoggio del senatore Caio Flaminio il quale allora ebbe la malevolenza del patriziato e il favore della plebe che lo elesse console per la seconda volta. Venne eletto senza che si fossero presi gli auspìci. Morirà nel 217 sconfitto da Annibale al Trasimeno

 

Dante nell’elogio di San Francesco scrive:

“Né li gravò viltà di cor le ciglia

Per esser fi’ di Pietro Bernardone,

né per parer dispetto a maraviglia” (Paradiso, XI, 88-90)

Il padre di Francesco di Assisi era un mercante appunto.

Se ne ricorda Parini nell'ode Alla Musa   dove considera estraneo alla poesia  "il mercadante che con ciglio asciutto/fugge i figli e la moglie ovunque il chiama/dura avarizia nel remoto flutto"  (vv. 1-3).

Leopardi nel canto Il pensiero dominante  condanna la sua età "superba,/ che di vote speranze si nutrica,/vaga di ciance, e di virtù nemica;/stolta, che l'util chiede,/e inutile la vita/quindi più sempre divenir non vede"(vv. 59-64).

Ancora più duramente si esprime nei confronti del lucro  il poeta di Recanati nella Palinodia al Marchese Gino Capponi :" anzi coverte/fien di stragi l'Europa e l'altra riva/dell'atlantico mar...sempre che spinga/contrarie in campo le fraterne schiere/di pepe o di cannella o d'altro aroma/fatale cagione, o di melate canne,/o cagion qual si sia ch'ad auro torni" (vv. 61-67).

 

Bologna 26 aprile 2021, ore 19, 40

giovanni ghiselli

 

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Corso di giugno XXVIII La dignità nella morte di Cleopatra e di Polissena

Il cesto di fichi per Cleopatra e quello di fragole nel Riccardo III

Uscito Ottaviano, Cleopatra commenta le promesse di lui con Iras e Carmiana: egli mi raggira, ragazze, mi raggira con parole perché non agisca nobilmente verso me stessa “he words latino verbum- me that I should not be noble to myself (V, 2, 191-192).

Il carattere nobile rimane tale anche nel momento supremo della morte.

 

Cfr. la morte di Polissena nell’Ecuba di Euripide

La principessa troiana dice a Odisseo che non deve temere di venire importunato da suppliche. Ti seguirò per via della necessità, poi sono io che voglio morire qanei'n te crhv/zomai (347).

 

Se non lo volessi, continua Polissena, kakh; fanou'mai kai; filovyuco" gunhv (348) apparirò quale donna vile e attaccata alla vita. Vengo da una condizione principesca, una ragazza h|/  path;r h\n a[nax-Frugw'n ajpavntwn (349-350) il cui padre era il signoe di tutti i Frigi e dovevo sposare un re. Avevo molti pretendenti. Ero i[sh qeoi'si plh;n to; katqanei'n movnon (356), simile alle dèe a parte che sarei dovuta morire, nu'n  dj eijmi; douvlh, ora sono una schiava. Basta questo nome cui non sono avvezza a farmi amare il morire. Ora posso essere comprata per denaro da padroni crudeli, io, la sorella di Ettore e di molti altri eroi, addetta alla necessità di fare il pane,- prosqei;"  d j ajnavgkhn sitopoiovn ejn dovmoi", 362, di spazzare la casa- saivrein te dw'ma- e stare al telaio  363.

Uno schiavo comprato da qualche parte dou'lo" wjnhtov"  povqen  insozzerà il mio letto- levch de; tajma; cranei' , che una volta era considerato degno di principi. No di certo-Ouj dh't j (367)

Mando fuori dagli occhi una luce libera attribuendo il mio corpo all’Ade (367).

Polissena quindi chiede alla madre di non impedirle quanto ha deciso: mhde;n ejmpodwvn gevnh/ (372), anzi di condividere la sua volontà: morire è meglio che subire turpitudini immeritate (374). Chi non è abituato ad assaggiare i mali li porta sul collo con sofferenza e si sente più fortunato morendo.

Torniamo a Shakespeare.

Carmiana dice che il giorno luminoso è finito: we are for the dark (V, 2, 194) siamo pronte per il buio.

Poi rientra Dolabella e conferma che Ottaviano intende inviare la regina a Roma (V, 2, 200-202)

Lo abbiamo già visto nella Vita di Plutarco (84, 2)

Cleopatra rivolta a Iras le dice che cosa si aspetta da quella deportazione: “thou, an Egyptian puppet-dimin. of L. pupa-, shalt be shown-in Rome, as well as I (207-208) tu, quale una marionetta egiziana sarai messa in mostra come me, e saremo alzate alla vista di tutti da volgari schiavi  and forced to drink their vapour- e costrette ad aspirare le loro emanazioni .

Piuttosto che vedersi vilipesa da littori e istrioni i quali rappresenteranno Antonio come ubriaco e che dover assistere a qualche giovanotto mentre,  travestito da becera Cleopatra squeaking Cleopatra , avvilisce la sua grandezza raffigurandola in the posture of a whore (V, 2, 214-219), nell’atteggiamento di una puttana, la donna regale, la donna non comune decide di uccidersi.

Prima di morire però chiede a Charmian e alle altre anncelle  di adornarla dalla regina che  siccome vuole tornare sul Cidno a incontrare Marco Antonio : “I am again for Cydnus-to meet Mark Antony” (V, 2,  227-228)

Comunque ha deciso: “My resolution is placed, and I haved nothing of woman in me: now from head to foot I am a marble-constant; now the fleeting moon non planet of mine” (V, 2, 238-241), la mia risoluzione è presa e io non ho nulla di femminile in me, adesso sno salda come il marmo dalla testa ai piedi,  adesso la luna incostante non è il mio pianeta.

 

Cfr. Lady Macbeth che vuole defemminilizzarsi quando invoca gli spiriti che apportano pensieri di morte:"unsex me here", snaturatemi il sesso ora, e riempitemi dalla testa ai piedi della crudeltà più orrenda (of direst cruelty). Il sangue di cui gronda la tragedia, nel suo corpo deve  addensarsi e chiudere ogni via di accesso al rimorso ( Macbeth, I, 5).

Cfr. pure la Medea di Seneca la quale pensa di incenerire l'istmo di Corinto e di assumere la ferocia massima negando la propria femminilità:" pelle femineos metus/et inhospitalem Caucasum mente indue./ " (vv. 42-44, scaccia le paure femminili e indossa mentalmente il Caucaso inospitale, dice a se stessa.

 

Lady Macbeth e Medea vogliono uccidere altre persone, Cleopatra  solo la schiava che diventerebbe dopo la vittoria di Ottaviano,  e lo fa con regalità: the stroke of death is as a lover's pinch (V, 2, 294), il tocco della morte è come il pizzicotto di un amante.

 

Plutarco racconta che Cleopatra dopo avere incoronato di fiori e abbracciato la tomba di Antonio  ejkevleusen auJth`/ loutro;n genevsqai (Vita di Antonio, 85, 1) ordinò che le si preparasse un bagno. Dopo essersi lavata e accomodata a tavola, fece un pranzo splendido.

Vuole riassestarsi per  incontrare Antonio.

 

Intanto era arrivato un uomo dalla campagna con un cesto- kai; ti" h|ken ajp j ajgrou` kivsthn tina; komivzwn (85, 2).

 

Le guardie gli domandarono che cosa contenesse ed egli scoperchiatolo e tolte le foglie, mostrò il recipiente pieno di fichi- suvkwn ejpivplewn to;

ajggei`on edeixe (85, 3).

 

Nel dramma di Shakespeare una guardia  annuncia il contadino: “Here is a rural- L. rur-stem of rus- fellow-that will not be denied your higness’ presence-he brings you figs. (V, 2, 233-234), qui c’è un campagnolo che non vuole gli si neghi la presenza di vostra altezza, egli vi porta dei fichi.


Il cestino con la frutta che sembra un dono, prefigura la morte.

Nel Riccardo III anticipa di poco una condanna capitale.

   Nella Torre siede l’intero consiglio della corona  che   aspetta Riccardo il Lord Potettore il quale ha già deciso di condannare a morte il ciambellano lord Hastings che ha cercato di non cedere al complotto ordito per esautorare il legittimo successore al trono,  figlio del defunto Edoardo IV e nipote di Riccardo.

Il quale aveva già risposto “Chop off his head”, tagliargli la testa , alla domanda di Buckingham: “Now, my lord, what shall we do if we perceive Lord Hastings will not yeld to our complots?” allora, signore, che cosa dobbiamo fare se ci rendiamo conto che Lord Hastings non cede ai nostri complotti? (III, 1, 191-193)

Entra dunque Il duca di Gloucester e Lord Potettore del nipote erede al trono. Sono tutti trepidi temendo ciascuno per  sé ma il più allarmato è Hastings che si è opposto al colpo di Stato.

Riccardo non si scopre subito, anzi assume un tono svagato prima di decretare la condanna del ciambellano: “My Lord of Ely, when I was last in Holborn-I saw good strawberries in your garden there;-I do beseech, send for some of them” III, 4, 31-33)

Poche battute dopo, nonostante Hastings abbia cercato di fare ammenda, Riccardo grida infuiato: Off with his hear!” (III, 4, 76), gli si tagli la testa!

 

Jan Kott commenta: “Shakespeare non sapeva la gerogafia. Per lui la Boemia si trova in riva al mare. Anche Firenze per Shakespeare è un porto di  mare. Ignorava anche la storia. Cleopatra si fa slacciare il busto da un’ancella. Shakespeare non aveva mai visto il mare , né una battaglia, né le montagne” Ma conosceva le leggi e gli usi del potere . “Questo è un capitolo del Principe di Machiavelli fatto dramma: la grande scena del colpo di Stato. Ma questa scena è rappresentata da uomini vivi, ed è in questo che sta la superiorità di Shakespeare. Uomini che sanno di essere mortali e che mercanteggiando cercano  di strappare alla storia spietata un briciolo di rispetto per se stessi, le apparenze del coraggio, le apparenze della decenza. Non ci riusciranno: la storia prima ne fsrà degli stracci, poi taglierà loro la testa”[56].  

 

Bologna 28 aprile 2021 ore 19, 36

giovanni ghiselli

 

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Corso di giugno XXIX. il corteggiamento di Cleopatra al serpente.

L'invidia degli dèi.  Amore e morte

 

Uscita la guardia, Cleopatra commenta: " what poor an instrument-may do a noble deed! he brings me liberty" (V, 2, 235-236), che misero strumento può compiere un'azione nobile! Egli mi porta la libertà.

 

Nobiltà e libertà sono associate alla morte quando questa ci sottrae alla perdita dell'identità che è insopportabile se una persona ne ha  una propria, non gregaria. Si pensi a Dante che è morto terminata la Commedia oppure a Fausto Coppi che, punto da una zanzara, si è lasciato morire appena ha smesso di correre in bicicletta.

 

Segue la negazione della femminilità già citata sopra  , e accostata a quelle di Medea e di lady Macbeth: “and I have nothing of woman in me” (238-239). E’ più facile rinunciare alla propria femminilità, un’identità collettiva, che a quella della nobiltà, identità molto più rara

La guardia esce ed entra il contadino cui Cleopatra domanda: “Hast thou the pretty worm of Nilus there-that kills and pains not? (243)  hai tu lì il grazioso serpente del Nilo che uccide senza fare male?

Cleopatra invero riprende la sua femminilità con il serpente quasi corteggiandolo come un amante. Poco più avanti dirà la battuta già citata: the stroke of death is as a lover's pinch (V, 2, 294), il tocco della morte è come il pizzicotto di un amante.

Poi arriva a mostrare un sentimento da nutrice per l'aspide dicendo a Carmiana: "Peace, peace! dost thou not see my baby at my breast-that sucks the nurse asleep?" (V, 2, 317-320), silenzio, silenzio!, non vedi che ho Il mio bambino al petto vhe succhia fino a fare addormentare la balia?

Invero Cleopatra è troppo femminile per poter negare la femminilità che fa parte della sua identità profonda non meno della propria regalità

Il contadino conferma che il morso del serpente uccide. Però deve avere notato che Cleopatra corteggia il serpente come il suo prossimo e ultimo amante perché, congedato da Cleopatra, la saluta dicendo: "I wish you all joy of the worm" (260), vi auguro ogni gioia con il serpente.

Chi ama la vita e ama l'amore non smette mai di corteggiare, non può farne a meno.

 

Nel suo ultimo romanzo Svevo scrive. "Ne ho cinquantasette degli anni e sono sicuro che (…) la mia ultima occhiata dal mio letto di morte sarà l'espressione del mio desiderio per la mia infermiera, se questa non sarà mia moglie e se mia moglie avrà permesso che sia bella!" (La coscienza di Zeno, Preambolo)

 

Plutarco scrive che quando il contadino  ebbe scoperto i fichi, le guardie ne ammirarono to; kavllo" kai; to; mevgeqo" (85, 3) la grandezza e la grossezza e furono invitati a prenderne, sicché cadde ogni diffidenza verso di lui. La bellezza, anche quella dei fichi, apre molte porte.

Dopo il pranzo, cleopatra sigillò una tavoletta scritta da lei e la mandò a Ottaviano. Gli chiedeva di farla seppellire con Antonio su;n  jAntwnivw/

qavyai- (85, 5).

La tendenza a corteggiare sempre non esclude la fedeltà alla persona del tutto congeniale.

 

Allora torniamo a Shakespeare.

Rientra Iras con un manto e una corona . Cleopatra se ne fa adornare perchè sente Antonio che la chiama: "I hear him mock-the luck of Caesar (284-285), lo sento schernire la fortuna di Cesare, "which the gods give men-to excuse their after wrath" (285-286)  che gli dèi concedono agli uomini per giustificare la loro ira futura. Sento un'eco proveniente da Erodoto che avverte sull'invidia degli dèi nei confronti degli uomini dai successi eccessivi.

Quello (Solone)  allora disse:"O Creso, tu fai domande sulle vicende umane a me che so che il divino è tutto invidioso e perturbatore. to; qei`on pa`n ejo;n fqonero;n kai; taracw`de"- (Erodoto, Storie, I, 32, 1).

Volendo nobilitare "l'invidia degli dèi" avvalendoci di parti dell'opera, vediamo che essa  scatta nei confronti degli uomini di potere che, superando la giusta misura umana, si inorgogliscono e peccano di u{bri", o fanno errori politici, o sbagli militari: come Creso appunto, come Policrate tiranno di Samo, come Serse cui lo zio Artabano dice che il fulmine si abbatte sugli edifici e gli alberi più alti, poiché il dio  tende a troncare tutto ciò che si innalza  "filevei ga;r oJ qeo;" ta; uJperevconta pavnta kolouvein", VII, 10).

 

Quindi Carmiana saluta e bacia le ancelle amiche Carmiana e Iras  che cade morta.

Quindi la battuta splendida con l'associazione tra il tocco della morte e il pizzicotto di un amate which hurts and is desired (295) che fa male ed è desiderato.

E' l'associazione amore e morte diffusa in letteratura antica e moderna

Sentiamo H. Hesse:"Amore e voluttà gli parevano l'unica cosa che potesse davvero scaldare la vita, e darle un valore (…) L'amore delle donne, il gioco dei sessi stava per lui in cima a tutto e il fondo della sua frequente tendenza alla malinconia e al disgusto aveva origine nell'esperienza di quanto sia instabile e fugace la voluttà (…) Morte e voluttà erano una cosa sola"1

 

 

Nota

Narciso e Boccadoro, p. 252.

 

 

 

La morte di Cleopatra. Un poco di metodologia storiografica

 

Siamo arrivati alla morte di Cleopatra. Partiamo da Shakespeare. La regina si rammarica del fatto che Iras sia morta pima di lei. Teme di apparire vile a riccioluto Antonio ( the curled Antony, v., 2, 300):  quando Iras lo avrà raggiunto, lui domanderà di Cleopatra e darà a lei quel bacio che era pronto per l’amante arrivata in cielo. Ma la regina si è fatta precedere dalla parrucchiera ed è in ritardo.  Quindi invita l’aspide a venire da lei e se lo applica al petto. Gli chiede: “with thy sharp teeth this knot intrinsicate –of life at once untie” (303-304) con i tuoi denti aguzzi sciogli in un colpo solo questo intricato nodo della vita.

 

La funzione di sciogliere gli intrighi rivelando le verità nascoste viene attribuita da Cordelia, la figlia buona di Re Lear, al tempo:" Time shall unfold what plaited cunning hides", il tempo spiegherà ciò che l' attorcigliata astuzia nasconde (I, 1).

 Il tempo ha la funzione benefica di salvare l’umanità quando questa giunge sull’orlo del baratro

Ancora nel Re Lear il duca di Albania aspetta una salvezza dal tempo auspicandone la fretta: “Se il cielo non manda subito i suoi spiriti a frenare queste colpe orrende, sarà per forza necessario che l’umanità vada a caccia di se stessa, come i mostri del mare like monsters of the deep (IV, 2).

Il serpente è arrivato nel momento opportuno per  salvare la dignità di Cleopatra.

La regina gli fa fretta: “poor venenous fool, be angry and dispatch”, (304-305), povero sciocco velenoso, irritati e fai presto. Se l’aspide potesse parlare, Cleopatra lo udirebbe chiamare the great Cesare- ass unpolicied (306-307) un asino grossolano.

Quindi la battuta già citata sul serpente assimilato a un bambino che succhia fino a fare addormentare la nutrice.

Infine la regina prende un altro aspide e se lo applica al braccio. Inizia la frase: “what should I stay (311)  perché dovrei restare….ma non la finisce perché muore

La  completa  Carmiana: “in this vile world? In questo mondo spregevole?

Quindi l’amica la saluta e ne fa l’elgio funebre con queste parole: “now boast thee, death, in thy possession lies –a lass unparalle’ d” (514-515), ora vantati morte, in tuo potese giace una ragazza senza pari.

Plutarco racconta che l’aspide fu portato con i fichi nascosto sotto le foglie secondo l’ordine di Cleopatra che non voleva vederlo, ma tolti i fichi lo vide e disse “eri qui dunque” (86, 3). E denudato il braccio lo offrì al morso. Altri dicono che il serpente era custodito in un orcio e che Cleopatra lo povocò e lo irritò con un fuso d’oro finché questo saltò fuori e le morse il baccio. Ma nessuno conosce la verità- to; d’ ajlhqe;" oujdei;" oi\den (86, 4)

C’è una terza versione secondo la quale Cleiopatra teneva del veleno in uno spillone cavo nascosto tra i capelli.

Come si vede Plutarco non usa il dialogo e non sceglie fra tre versioni della morte di Cleopatra. Questo di riferire tutte le fonti disponibili, pure quelle poco verosimili è un metodo seguito anche da altri storiografi.

Ne faccio quattro esempi.

A proposito della diceria secondo la quale le ragazze indigene con penne di uccello spalmate di pece traevano pagliuzze d’oro da un lago situato in un’isola posta davanti alla costa africana Erodoto scrive : “tau'ta  eij mh; e[sti ajlhqevw~ oujk oi\da, ta; de; levgetai gravfw” (I, 195, 2), queste cose non so se sono vere, ma quello che si dice lo scrivo.

E per quanto  riguarda un’intesa tra i Persiani e gli Argivi: “ejgw; de; ojfeivlw levgein tav legovmena, peivqesqaiv ge me;n ouj pantavpasin ojfeivlw” (VII, 152, 3), io sono tenuto a dire le parole dette, a credere a tutte invece non sono tenuto.

  

In modo simile  Curzio Rufo:“Equidem plura transcribo quam credo: nam nec adfirmare sustineo, de quibus dubito, nec subducere, quae accepi” (9, 1, 34), per conto mio riporto più notizie di quelle cui presto fede: infatti non me la sento di confermare notizie delle quali non sono sicuro, né di sottrarre quelle che ho ricevuto.

Quindi, a proposito  del cadavere di Alessandro che giaceva nel sarcofago da sei giorni, trascurato, e, nonostante il caldo estivo, il corpo non era degenerato, Curzio scrive: “ Traditum magis quam creditum refero (10, 10, 12).

 

Arriano a proposito della morte di Alessandro Magno riporta una notizia alla quale non crede, della quale anzi afferma che dovrebbero vergognarsi quanti l’hanno scritta.

Si racconta dunque che il condottiero macedone,  sentendosi morire, voleva gettarsi nell’Eufrate per sparire accreditando la fama di una sua assunzione in cielo in quanto nato da un dio. Glielo impedì Rossane ed egli le disse che lo privava della gloria di essere nato dio. Ebbene lo storiografo di Nicomedia precisa che ha riportato queste notizie wJ" mh; ajgnoei'n dovxaimi perché non sembri che io le ignori, più che per il fatto che esse sembrino pista; ej" ajfhvghsin, (7, 27, 3) credibili a raccontarle.

 

Concludo citando Tacito

Ut conquirere fabulosa et fictis oblectare legentium animos procul

gravitate coepti operis crediderim, ita vulgatis traditisque

demere fidem non ausim. die, quo Bedriaci certabatur, avem

invisitata specie apud Regium Lepidum celebri luco conse-

disse incolae memorant, nec deinde coetu hominum aut cir-

cumvolitantium alitum territam pulsamve, donec Otho se ipse

interficeret; tum ablatam ex oculis: et tempora reputantibus

initium finemque miraculi cum Othonis exitu competisse. (Historiae, II, 50)

Come reputerei lontano dalla serietà dell’opera iniziata  andare in cerca di miti e dilettare le anime dei lettori con delle invenzioni, così non oserei togliere credito a tradizioni diffuse. Nel giorno in cui si combatteva a Bedriaco, gli abitanti ricordano che un uccello di aspetto mai visto si posò in un frequentato bosco sacro presso Reggio Emilia, e che non venne spaventato né scacciato di lì dalla grande quantità delle persone né degli uccelli che svolazzavano intorno, finché Otone non si fu ucciso; allora scomparve alla vista; e per chi tiene conto dei tempi, il principio e la fine del prodigio coincide con la fine di Otone.

Sono fatti dell’aprile del ’69.

 

Bologna 30 aprile 2021 ore 20

giovanni ghiselli

p. s

Sempre1122320

Oggi376

Ieri487

Questo mese13409

Il mese scorso13315

 

 

Corso di giugno XXXI. La nobiltà nella morte di Cleopatra e delle sue ancelle Carmiana e Iras.

 

Morta Cleopatra,  entrano correndo delle guardie

Carmiana chiede loro di parlare piano, di non svegliare la regina. La prima guardia inizia a dire. “Caesar hath sent”…, Cesare ha mandato…

E Carmiana conclude: “too slow a  messengger” (V, 2, 320), un messaggero troppo lento. Quindi pure lei si applica una aspide (in greco e in latino il genere è femminile lo conservo in italiano come fa Foscolno con “arbore amica”, Sepolcri, 39 )

La prima guardia chiede alla seconda di avvicinarsi. “all’s not well: Caesar’s beguiled” (321), non va tutto bene: Cesare è stato ingannato.

Per il servo contano solo gli interessi del potere.

La morte di una persona in sé non conta niente.

Come non contava niente la morte di Pinelli per i servi presenti nell’ultima puntata di Piazza pulita che ho commentato con due pezzi situati nel mio blog e facebook.

 

La pima guardia  dunque si rivolge a Carmiana morente e le rivolge la domanda "Charmian, is this well done?",  e l'amica di Cleopatra ribatte : "It is well done, and fitting for a princess-Descended of so many royal kings. Ah, soldier! (V, 2, 324-327)", è ben fatto e si confà a una sovrana discesa da tanti nobili re. Ah soldato!

 

"Shakespeare è inoltre maestro del linguaggio drammatico, intendendo come tale il linguaggio che suggerisce, anzi impone attraverso la parola scritta, il gesto o il tono che non possono non accompagnarla se detta: oppure l'espressione disadorna, priva di valori poetici-e quindi lirici-in sé e per sé, ma che si carica di significazione poetica in foza della situazione in cui si trova inserita (…) valga,  ora, l'ultima parola , "Ah soldier!, che Charmin morente getta sprezzantemente in faccia alla guardia , quando, di fronte al cadavere di Cleopatra, che uccidendosi, si è sottratta all'umiliazione di adornare il trionfo del vincitore a Roma, il romano le rivolge l'ottusa domanda is this well done?": "It is well done, and fitting for a princess-Descended of so many royal kings. Ah, soldier!, risponde Charmian con il suo ultimo fiato, e la parola non ha certo alcun valore poetico-lirico- in sé e per sé- ma inserita in quella situazione, acquista un significato d'inaudita violenza: "Che cosa puoi capire , tu-"soldato!"  degli alti sensi della mia regale signora?"; e dei suoi stessi , in realtà, in quanto nel medesimo istante, poiché della sua "regale signora" ha seguito l'esempio, muore.

E ancora, in The Merchant of Venice, l'elementare "I am not well" (IV, 1, 96) non mi sento bene di Shylock sconfitto, quando chiede al tribunale il permesso di allontanarsi.

E infine l'ineffabile "Do you love me?" (III, 1, 67) Mi vuoi bene? di Miranda a Ferdinand in The Tempest, dove la più vieta delle frasi d'amore sembra pronunciata per la prima volta nella storia dell'umanità" (Carlo Izzo, Storia della letteratura inglese, I volume, pp. 407-408). Ho fatto questa lunga citazione per gratitudine verso il miglior maestro trovato all'Università quando ero studente.

 

Vediamo adesso la medesima situazione descritta da Plutarco che ha insegnato a Shakespeare le battute che Shakespeare ha insegnato a Carlo Izzo, Calro Izzo a me, e io a voi che mi leggete. Così non muoiono le civiltà, anche se certe trasmissioni televisive con le loro volgarità, menzogne e reticenze cercano di sommergerlr nella loro palude. Suggerisco ai miei lettori di evitarle o di imparare da esse l'opposto di quello che vogliono inculcarci.

 

Veniamo dunque alla Vita di Antonio. Plutarco descrive lo stato delle due donne ancelle e amiche di Cleopatra: Iras stava morendo ai piedi della regina già morta, mentre Carmione h[dh sfallomevnh kai; karhbarou`sa , già barcollante e con la testa appesantita, accomodava il diadema sulla testa di lei-katekovsmei to; diadhma to; peri; th;n kefalh;n aujth`"- (85, 7) . Questo gesto mostra la nobiltà dell'ancella di gran lunga superiore a quella di Ottaviano ed entra nell' argomento la bellezza nella morte che tratterò sabato prossimo, 8 maggio, in un convegno on line al quale vi invito.

Concludo le vicende di Cleopatra con le parole di Carmiana nella biografia di Plutarco

Quando uno le dice con ira. eijpovnto" dev tino" ojrgh`/-   "kala; tau'ta Cavrmion ;" è bello questo? , Carmiana  risponde  "kavllista me;n ou\n kai; prevponta th'/ tosouvtwn ajpogovnw/ basilevwn" ( 85, 8), è bellissimo e si confà a una donna che discende da re tanto grandi. Non disse altro ma cadde lì presso il letto- ajll j aujtou` para; th;n klivnhn e[pese. . Credo sia doveroso questo omaggio a Carmiana, un'ancella che aveva imparato lo stile della regalità dalla sua regina

Nell'Elena  si trova l'espressione "per gli schiavi nobili" ( gennaivoisi douvloi~, v. 1641) che lascia  un’eco in Terenzio: propterea quod servibas liberaliter (Andria, v. 38), poiché facevi lo schiavo con animo libero.

Viceversa molti sedicenti o presunti personaggi  nobili o importanti, o vincenti, ricchi e famosi sono dei servi. Ne abbiamo visti diversi due sere fa nella vergognosa trasmissione di Formigli.

Difficile est saturam non scribere (…) facit indignatio versum (Giovenale, I, 30 e I 79)

Bologna 1 maggio ore 11, 49 giovanni ghiselli. Oggi è la festa del lavoro e la festeggio lavorando in modo che tristezza e noia non rechin l’ore, date le offerte di rapporti umani ora vigenti.

 



[1]S. Mazzarino, Il Pensiero Storico Classico , Laterza, Bari, 1974.  p. 136 III vol.

[2]Denunciato da Pasolini negli Scritti corsari , Garzanti, Milano, 1975, pp. 285-286:" E' in corso nel nostro paese, come ho detto, una sostituzione di valori e di modelli, sulla quale hanno avuto grande peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la televisione. Con questo non sostengo affatto che tali mezzi siano in sé negativi: sono anzi d'accordo che potrebbero costituire un grande strumento di progresso culturale; ma finora sono stati, così come li hanno usati, un mezzo di spaventoso regresso, di sviluppo appunto senza progresso, di genocidio culturale per due terzi almeno degli italiani".

[3]Echeggio, non per caso l'Enrico V  di Shakespeare : il re prima della battaglia di Agincourt (1415) esorta se stesso e i suoi con un discorso che culmina con il noto e quasi paradossale makarismov": "We few, we happy few, we band of brothers "(IV, 3), noi pochi, noi fortunati pochi, noi schiera di fratelli.

[4]Cfr. Edipo re , v. 910:" e[rrei de; ta; qei'a".

[5]La vita di Vittorio Alfieri scritta da esso , Epoca terza, cap. VII.

[6]Parerga E Paralipomena , Tomo II, p. 593. Scopenhauer nel luogo citato aggiunge che "L'esagerazione in ogni caso è il tratto essenziale del giornalismo come dell'arte drammatica: bisogna, infatti, ricavare il più possibile da ogni avvenimento. Per queta ragione, tutti i giornalisti sono, dato il loro mestiere, degli allarmisti: è il loro modo di rendersi interessanti. Essi somigliano in ciò a dei botoli, che, appena sentono un rumore, si mettono ad abbaiare con impeto".

[7]Dialogo di Tristano e di un amico .

[8]Mazzarino, op. cit., p. 138. L'autore continua così:"significa Robespierre e Verginaud e Danton; solo uno storico di razza (sia pure uno storico moralista, storico dell' ethos  di grandi individui) poteva trasmetterci l'eredità classica, in quanto eredità di tradizione storica, in maniera così rilevante e decisiva.

[9]Traduzioni approvate, da Montaigne  (1533-1592) che, qualche anno più tardi, scrive nei Saggi  :" Io do giustamente, mi sembra, la palma a Jacques Amyot su tutti i nostri scrittori francesi, non solo per la semplicità e la purezza del linguaggio, nella quale supera tutti gli altri, né per la costanza di un così lungo lavoro, né per la profondità del suo sapere, poiché ha potuto volgarizzare così felicemente un autore tanto spinoso...ma soprattutto gli sono grato di aver saputo discernere e scegliere un libro tanto degno e tanto appropriato per farne dono al suo paese. Noialtri ignoranti saremmo stati perduti se questo libro non ci avesse sollevato dal pantano; grazie a lui, osiamo ora e parlare e scrivere; le signore ne dànno lezione ai maestri di scuola; è il nostro breviario"(II, 4, pp. 467-468).

[10]In Canetti  Opere 1932-1973 , trad. it. Bompiani, Milano, 1990,  p. 1812.

[11]Aut- Aut in Kierkegaard Opere , p. 12.

[12]Epistolario , novembre 1883, p. 204.

[13]18 ottobre 1797.

[14] Del 1781

[15]Traduzione di L. Ruggieri.

[16] Tipo del  grande ribelle

[17] Cfr. il sapere  che si verifica-diventa vero- nel potenziamento del nostro carattere  e del nostro vivere.

[18] Capitolo I

[19] Capitolo II

[20] Capitolo V

[21] Capitolo VI.

[22] Nietzsche,  Cosiderazioni inattuali, II, capitolo I

[23]Nietsche, Utilità e danno della storia , capitolo X.

[24]Nietsche, Op. cit., capitolo X.

 [25]Vita di Demostene , 2

[26]Musti, Storia greca , p. 629.

[27]Il Pensiero Storico Classico , III vol., p. 171.

[28]Canfora, Storia Della Letteratura Greca , p. 558.

[29]Opera e pagina citate sopra.

[30]Avvenuta nel 96 d. C.

[31]P. Desideri, Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica , Vol. I, Tomo III, p. 22.

[32]Vita di Demostene , 2.

[33] Civiltà sotto pocesso del 1948.

[34] L. Canfora, Prima lezione di storia greca, p. 67.

[35]Pagina 44.

[36]Pagine 990-991.

[37]Morto nel 337 d. C.

[38]Zibaldone , pp. 992-996.

[39] A. Momigliano, La storiografia greca, p. 267.

[40]Vescovo di Cesarea e amico dell'imperatore Costantino, autore, tra l'altro, di questa storia universale e parallela di vari popoli  con una tavola sincronica che giungeva fino al 303 d. C.. Ne rimangono frammenti in greco e larghi passi in traduzione latina.

[41]M. Yourcenar, Memorie di Adriano , p. 73.

[42]Cfr. An seni sit gerenda res publica  , 16, 792F.

[43]Canfora, op. cit., p. 559.

[44]Senza contare quelli molto probabilmente apocrifi.

[45]Apologia di Socrate , 20d.

[46]Saggi , II, 31, p. 947.

[47]Saggi , II, 10, pp. 532-533.

[48]Citazione dall'Iliade :"oJvsso" e[hn oi'Jov" te", 24, 630, detto di Achille.

[49]G. Camassa, Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica , Vol. I, Tomo III, p. 329.

[50]Fr. 579 Nauck, v. 1.

[51] I, 24:"kai; toi'si ejselqei'n ga;r hjdonh;n eij mevvlloien ajkouvsesqai tou' ajrivstou ajnqrwvpou ajoidou'".

 [52] E' sempre la prefazione a Timoleonte-Emilio Paolo

[53] Storie , Praefatio, 10.

[54]Il mestiere di vivere , 29 settembre 1946.

[55] P. P. Pasolini, Lettere luterane, I giovani infelici, pp. 5-12.

[56] Shakespeare nostro contemporaneo, passim

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