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Introduzione a Plutarco come antidoto contro la mediocrità e l'indifferenza dell'uomo moderno. L'informazione spesso deficitaria dei giornali. La cultura quale potenziamento della fuvsi".
Plutarco è noto
soprattutto per le Vite parallele le quali "sono il monumento
classicistico della storia classica"[1].
In questo scrittore
vissuto nell’età imperiale (48-125 d. C.) , biografo, storiografo, moralista,
rivivono i grandi temi e i valori etici, politici, religiosi dell'età non solo
classica ma anche arcaica, particolarmente quel tema dell'eroismo, della
grandezza umana, che abbiamo sempre cercato durante il percorso fatti insieme.
Plutarco viene
trascurato dalla scuola del nostro tempo poiché le sue figure grandiose, nel
bene e nel male, non sono di moda; il "genocidio culturale"[2]
perpetrato dai mezzi di informazione ha annichilito prima di tutto la razza
davvero umana delle persone intellettualmente e moralmente autonome,
sostituendola con una massa di omuncoli privi di identità personale, eppure non
sempre innocui.
Una genìa di cui già si
lamentava Foscolo nelle Ultime lettere di
Jacopo Ortis deplorando:"i
delitti di tanti uomiciattoli ch'io degnerei di nominare, se le loro
scelleraggini mostrassero il vigore d'animo, non dirò di Silla e di Catilina,
ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto quantunque e' si
vedano presso il patibolo-ma ladroncelli, tremanti, saccenti-più onesto insomma
è tacerne"(4 dicembre).
L'homo consumens odierno non
deve avere a cuore altro che lo spendere e lo sprecare. Questo tramonto
dell'eroe, con il rimpianto di alcuni fortunati, o sfortunati, pochi[3]
che sentono il bisogno di tale dimensione, almeno proba e onesta se non anche
eroica, un declino dell’uomo parallelo al tramonto degli dèi lamentato già da
Sofocle[4],
non è un fatto recente, se consideriamo il bisogno di Plutarco, e il rimpianto
dei suoi grandi personaggi, in autori che certamente sono noti agli studenti
liceali, almeno a quelli di una volta: Vittorio Alfieri, ad esempio, il quale
nell'autobiografia scrive:"Ma il libro dei libri per me, e che in quell'
inverno mi fece veramente trascorrere dell'ore di rapimento e beate, fu
Plutarco, le vite dei veri Grandi. Ed alcune di quelle, come Timoleone, Cesare,
Bruto, Pelopida, Catone, ed altre, sino a quattro e cinque volte le rilessi con
un tale trasporto di grida, di pianti, e di furori pur anche, che chi fosse
stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per
impazzato. All'udire certi gran tratti di quei sommi uomini, spessissimo io balzava
in piedi agitatissimo, e fuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia mi
scaturivano al vedermi nato in Piemonte e in tempi e governi ove niuna alta
cosa non si poteva né fare né dire, ed inutilmente appena forse ella si poteva
sentire e pensare"[5].
Insomma leggendo
Plutarco troviamo, in età oramai non lontana dalla "tardo antica",
quella grandiosità di sentimenti e concezioni che abbiamo amato in Omero, in
Erodoto e nella tragedia. Il che non toglie, vedremo, quel senso della misura e
quel rifiuto dell'eccesso che abbiamo pure individuato come valore fondamentale
nello storiografo delle guerre persiane. Non per niente Plutarco fu sacerdote
delfico.
Sull’ingresso del
tempio si poteva leggere to; toiou'ton gravmma,
tale
iscrizione: Gnw'qi sautovn, conosci te stesso e Mhde;n a[gan, nulla di troppo.
A proposito di “Conosci te stesso”, l’iscrizione
di Delfi, sentiamo Platone
Il dialogo Carmide verte sulla swfrosuvnh,
e il personaggio Crizia ne dà questa definizione: “ e[gwge
aujto; tou'to fhmi ei\nai swfrosuvnhn, to;
gignwvskein eJautovn”, io per me affermo che proprio questo sia assennatezza, conoscere se stesso, e tale
l’iscrizione (to; toiou'ton gravmma)
di Delfi corrisponde a un Cai`re, un salve, un
saluto del dio (164d) il quale dice a colui che di volta in volta entra nel
tempio: “oujk allo ti h] Swfrovnei”, nient’altro che sii
saggio. Infatti Conosci te stesso e Sii saggio sono la stessa cosa “to;
ga;r Gnw'qi sautovn kai; to; Swfrovnei e[stin me;n taujtovn”
(165a).
Ma prima di esporre la
vita e le opere che si trovano in tutti i manuali, e ciò
nondimeno racconterò, più tardi però, e a modo mio, voglio riportare
testimonianze davvero "autorevoli", non come quelle che ora vengono
attribuite, a sproposito, ad alcuni scarabocchiatori dei giornali che sono,
quando va bene, "la sfera dei secondi dell'orologio della storia",
come dice bene Schopenhauer[6].
Non meno critico con i
giornali e i giornalisti è Leopardi quando nell'ironica Palinodia Al Marchese Gino Capponi ammette di avere riconosciuto "la pubblica
letizia, e le dolcezze/del destino mortal"(vv. 21-22) dacché "viva
rifulse/agli occhi miei la giornaliera luce/delle gazzette"(vv. 18-20).
Addirittura sarcastico
nei confronti dei giornali "autorevoli" è il Leopardi-Tristano delle Operette morali quando dice:"Credo ed abbraccio la
profonda filosofia de' giornali, i quali uccidendo ogni altra letteratura e
ogni altro studio, massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce
dell'età presente"[7].
Messa in dubbio, attraverso
un grande nome della letteratura ed uno della filosofia, l' autorevolezza che
le "gazzette" e i gazzettieri effimeri si attribuiscono a vicenda,
passiamo ad autori seri per autorizzare
Plutarco, un'operazione forse non inutile poiché l'autore delle Vite parallele nella scuola non ha il posto che si merità
siccome essa vuole ragazzi mediocri, apatici e servili. Cercherò di usare il
biografo degli eroi, lo scrittore morale dei Moralia come antidoto a tali
malattie dello spirito inoculate dai media.
Corso del 29 giugno. Introduzione
a Plutarco II parte
Per l'uomo moderno, Plutarco
significa Shakespeare
Montaigne, Kierkegaard,
Foscolo e Nietzsche
Un accorato grido contro l'apatia e il vuoto
mentale si trova in Kierkegaard che guarda all'Antico Testamento e a
Shakespeare come a rifugi.
Plutarco non è nominato direttamente, ma
proprio per questo abbiamo l'occasione di chiarire un nesso tra il drammaturgo
elisabettiano e il nostro storiografo:" Per l'uomo moderno, Plutarco
significa Shakespeare"[8],
e viceversa. E allora diciamo subito che alcune tragedie di Shakespeare (il Giulio Cesare, l'Antonio e Cleopatra, il
Coriolano ) dipendono da Plutarco che il drammaturgo inglese leggeva nella
traduzione (del 1579) di Thomas North fatta su quella francese (del 1559) del vescovo Amyot che
tradusse pure i Moralia (1572)[9].
Nonostante la doppia traduzione ci sono, soprattutto nel Coriolano , situazioni e frasi che riproducono gli originali di
Plutarco, tanto che Elias Canetti (1905-1994) in un passo[10]
de La provincia dell'uomo , afferma
che " Plutarco non è affatto schizzinoso. Nelle sue pagine accadono cose
terribili, come nelle pagine del suo seguace Shakespeare". Stabilito
questo collegamento, diamo la parola al filosofo danese:"Lasciamo che gli
altri si lamentino che i tempi sono cattivi; io mi lamento che il nostro tempo
è miserabile, poiché è senza passioni. I pensieri degli uomini sono sottili e
fragili come merletti, essi stessi miseri come le ragazze che fanno i merletti.
I pensieri delle loro menti sono troppo meschini per essere peccaminosi. In un
verme si potrebbe forse considerare come peccato l'avere tali pensieri, non in
un uomo, creato a immagine di Dio. I loro desideri sono compassati e torpidi,
le loro passioni sonnolente...Puah! Ed è per questo che la mia anima torna
sempre all'Antico Testamento e a Shakespeare. Là si sente che quei che parlano
sono uomini; là si odia, là si ama, si ammazza il nemico, si maledice la sua
stirpe per tutte le generazioni, là si pecca"[11].
Un'idea simile si trova in Nietzsche:"Leggi Shakespeare: egli è pieno di
questi uomini forti, rozzi, duri, potenti, uomini di granito. Di tali individui
l'epoca nostra è poverissima, e quindi anche di uomini che abbiano animo capace
di accogliere i miei pensieri"[12].
Shakespeare dunque, e a maggior ragione il suo
maestro Plutarco possono, o perfino debbono, essere utilizzati contro la
mediocrità, la passività e la volgarità quando queste sembrano sommergere
tutto. Aggiungiamo qualche altra testimonianza di scrittori per noi
"autorevoli" che cercano nel greco quella dimensione eroica di cui
tutti i figli della luce hanno bisogno.
Foscolo nelle già citate Ultime lettere di Iacopo Ortis [13]
scrive:"Col divino Plutarco potrò consolarmi de' delitti e delle sciagure
della umanità volgendo gli occhi ai pochi illustri che quasi primati dell'umano
genere sovrastano a tanti secoli e a tante genti". Andrea Maffei, l'autore
del libretto de I masnadieri di Verdi (1848), traducendo quasi alla
lettera alcune parole del protagonista del dramma Die Räuber [14]
di Schiller("Che nausea guardare questo secolo parolaio quando leggo
Plutarco e i fatti dei grandi uomini"[15],
I, 2) fa esordire Carlo Moor[16]
( che appare "immerso nella lettura d'un libro" come spiega la
didascalia) con queste parole: "Quando io leggo in Plutarco, ho noia, ho
schifo/di questa età d'imbelli!".
Plutarco dunque consola della volgarità imbelle dei tempi moderni, ma
induce anche a disprezzarli, o a osservarli con distacco apollineo. Canetti
nella pagina citata prima parla di duplice influenza: "Dinanzi alle sue
creature, Plutarco non ha mai un atteggiamento acritico. Ma il suo pensiero ha
posto per molti tipi di uomini. E' longanime come può esserlo solo un
drammaturgo che opera sempre con molti personaggi dai caratteri diversi e in
particolare con le loro diversità. Per questo ha esercitato due generi di
influenza. Alcuni hanno ricavato i loro modelli da lui, come da un libro di
oracoli, e hanno modellato la propria vita in conformità. Altri hanno assunto
dentro di sé i suoi quasi cinquanta personaggi e sono, così, divenuti o rimasti
drammaturghi". Ma tra gli estimatori di Plutarco il più attento alla sua
funzione di educatore, la più interessante anche per noi, è Nietzsche che nell
Prefazione alla seconda Considerazione
Inattuale , Sull'utilità e il danno
della storia per la vita (del 1874)
respinge come "odioso" (con parole di Goethe che però ciascuno di noi
potrebbe sottoscrivere) "tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza
accrescere o vivificare immediatamente la mia attività"[17](p.
81), e rifiuta il "grado di insonnia, di ruminazione, di senso storico, in
cui l'essere vivente riceve danno e alla fine perisce"[18],
affermando che la storia è necessaria
"all' attivo e al potente, a colui che combatte una grande
battaglia, che ha bisogno di modelli, maestri e consolatori, e che non può
trovarli fra i suoi compagni e nel presente. Così essa occorreva a Schiller: il
nostro tempo è infatti così cattivo, dice Goethe, che nella vita umana che lo
attornia il poeta non incontra più nessuna natura utilizzabile"[19].
Il nostro tempo è caratterizzato da gente non solo cattiva ma
anche debole: "nella mancanza di dominio su se stessi, in ciò che i romani
chiamano impotentia , si rivela la
debolezza della personalità moderna"[20].
Un ajntifavrmako" , un ottimo contravveleno di questa impotenza può
essere Plutarco:"Se invece rivivrete in voi la storia dei grandi uomini,
imparerete da essa il supremo comandamento di diventare maturi e di sfuggire al
fascino paralizzante dell'educazione del tempo, che vede la sua utilità nel non
lasciarvi maturare per dominare e
sfruttare voi, gli immaturi. E se desiderate biografie, allora che non siano
quelle col ritornello "Il signor Taldeitali e il suo tempo". Saziate
le vostre anime con Plutarco ed osate credere in voi stessi, credendo ai suoi
eroi. Con un centinaio di uomini educati in tal modo non moderno, ossia
divenuti maturi e abituati all'eroico, si può oggi ridurre all'eterno silenzio
tutta la chiassosa pseudocultura di questo tempo"[21].
Lo studio dei classici serve
anche a questo: “non saprei infatti che senso avrebbe mai la filologia classica
nel nostro tempo, se non quello di agire in esso in modo inattuale-ossia contro
il tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore del tempo venturo”[22]
Insomma Plutarco e, più in
generale, i Greci "impararono a poco a poco a organizzare il caos , concentrandosi, secondo l'insegnamento
delfico, su se stessi, vale a dire sui loro bisogni veri, e lasciando
estinguere i bisogni apparenti...E' questo un simbolo per ognuno di noi: ognuno
deve organizzare il caos in sé, concentrandosi sui suoi bisogni veri"[23].
Il giovane deve capire che la cultura può essere "qualcos'altro che decorazione della vita , cioè in fondo
unicamente dissimulazione e velame, poiché ogni ornamento nasconde la cosa
ornata. Così gli si svelerà il concetto greco della cultura-in contrapposizione
a quello romano-il concetto della cultura come una nuova e migliore physis , senza interno ed esterno,
senza dissimulazione e convenzione, della cultura come unanimità fra vivere,
pensare, apparire e volere"[24].
E' con questo spirito che affrontiamo lo studio di Plutarco.
Introduzione a Plutarco III
parte
La vita di Plutarco,
sacerdote delfico e funzionario dell'impero romano. Il rapporto degli scrittori
Greci con la lingua latina secondo Leopardi.
Plutarco nacque a Cheronea
poco prima del 50 d. C. da famiglia antica, illustre e benestante.
Anche la cittadina dove lo
scrittore vide la luce e passò la maggior parte della sua vita, per non
renderla ancora più piccola con la sua assenza, come scrisse[25],
era del resto illustre: là infatti, nell'estate del
Al tempo della vita di
Plutarco però i signori della Grecia erano diventati i Romani e il nostro
autore, dovette fare i conti con loro.
Non furono calcoli
particolarmente eroici i suoi invero, o per lo meno tutt'altro che
rivoluzionari, poiché, come afferma Mazzarino, "egli, cittadino di
Cheronea e filosofo e sacerdote greco, poteva riassumere in sé gli ideali
dell'alta borghesia greca, da cui proveniva, e quelli delle classi dirigenti
"umanistiche" di Roma"[27].
Tutta la sua opera
monumentale insomma "mira a rappresentare (ed a giustificare storicamente)
la 'condirezione greco-romana del vasto impero"[28].
Canfora fa anche notare[29]
che Plutarco "raccomanda, nei suoi Precetti
politici (composti non molto dopo la
morte di Domiziano[30])
di "tener l'occhio fisso ai calzari dei Romani che sono al di sopra del
tuo capo"(813E)".
All'inizio dello stesso
paragrafo Plutarco prescrive al politico greco di dire a se stesso: governi da
governato, in quanto la città è sottoposta ai proconsoli, ai procuratori di
Cesare ("uJpotetagmevnh"
povlew" ajnqupavtoi", epitrovpoi" Kaivsaro"").
Più avanti(824B) l'autore
consiglia di calzare il coturno di Teramene in caso di sedizione e di dialogare
con le due parti senza aderire a nessuna, ma molto meglio sarà prevenirne gli
scoppi poiché quello che conta è il benessere economico e ai popoli tocca tanta
libertà quanta ne concedono i dominatori" ejleuqeriva" d j o{son oiJ kratou'nte" nevmousi
toi'" dhvmoi" mevtesti"(
Plutarco, pur essendo legato
alla sua cittadina, e alla non lontana Delfi dove fu sacerdote del tempio di
Apollo, viaggiò in Grecia e in altre regioni dell'impero: si recò ad Atene,
dove frequentò la scuola dell'accademico Ammonio che lo avviò alla conoscenza
di Platone, a Sparta, ad Alessandria, a Roma e in altre località dell'Italia
dove del resto non imparò bene la lingua latina in quanto "preso dai
doveri politici e dall'insegnamento della filosofia"[32].
“I Greci, a partire da
Polibio, incominciano a raccontare la storia dei “vincitori” , magari alla luce
di un presupposto in cui i loro intellettuali hanno fermamente creduto: quello
di un “condominio” greco-romano del mondo via via inglobato nell’impero di Roma.
L’idea stessa delle Vite parallele di
Plutarco si basa su questo presupposto. L’obiettivo, non sempre concretamente
realizzabile, dovrebbe essere quello espresso efficacemente da Arnold J.
Toynbee (Civilization on trial[33]), di
“studiare la storia greca e romana come una storia ininterrotta, con un corso
unico e indivisibile”[34].
Se vogliamo salvare la nostra
cultura dobbiamo difendere e impiegare bene la nostra lingua.
Parlare male fa male alla nostra
anima e al nostro pensiero.
Plutarco come quasi tutti i
Greci più o meno latinizzati scrisse comunque in greco.
Questo greco dunque che accettava il
predominio romano come ineluttabile, non si latinizzò fino a scrivere in latino
invece come fecero tanti altri intellettuali non Greci che furono collaboratori dell'impero . A tale proposito sono interessanti alcune
riflessioni dello Zibaldone di
Leopardi
"Un argomento chiaro di
quanto poco i greci studiassero il lat. così assolutamente, come in particolare
rispetto a quello che i latini studiavano il greco, è quello che dicono
Plutarco nel principio del Demostene, e Longino dove parla di Cic.[35]".
Più avanti Leopardi chiarisce questo concetto "Ridotti in provincie romane
i diversi paesi dell'impero, tutti gli scrittori che uscirono di queste
provincie, qualunque lingua fosse in esse originaria o propria, scrissero in
latino. I Seneca, Quintiliano, Marziale, Lucano...ed altri Spagnuoli;
Ausonio...Terenzio, Marziano Capella, Frontone, Apuleio, Nemesiano,
Tertulliano...S. Agostino, S. Cipriano, Lattanzio ed altri Affricani...Non così
i greci... Nessuno di questi scrisse in latino, ma tutti in greco, eccetto
pochissimi"[36].
Vengono fatti alcuni nomi,
tra cui quello di Macrobio (forse nativo dell'Africa) e del siriano Ammiano
Marcellino. Quindi continua così:"Ma del resto i greci di qualunque parte,
ancorché sudditi romani, ancorché cittadini romani, ancorché vissuti lungo
tempo in Roma o in Italia, ancorché scrivendo precisamente in Italia o in Roma,
e in mezzo ai latini... ancorché nel tempo dell'assoluta padronanza, ed intiera
estensione del dominio della nazione latina, ancorché impiegati in cariche, in
onori ec. al servizio de' Romani, e nella stessa Roma, ancorché finalmente
nominati con nomi e prenomi latini, scrissero sempre in greco, e non mai
altrimenti che in greco. Così Polibio, familiare, compagno, e commilitone del
minore Scipione; così Dionigi d'Alicarnasso, vissuto 22 anni in Roma...così
Plutarco...Da tutto ciò si deduce in primo luogo, quanto, e con quanta
differenza dalle altre nazioni, i greci di qualunque paese fossero tenaci della
lingua e letteratura loro, e noncuranti della latina, anche durante e dopo il
suo massimo splendore...la lingua latina, (eccetto nella Magna Grecia e in
Sicilia) non solo non estirpò, ma non prevalse mai in nessun modo e in nessun
luogo alla lingua e letteratura greca, se non come pura lingua della
diplomazia: quella lingua latina, dico, la quale nelle Gallie aveva, se non
distrutta, certo superata quell'antichissima lingua Celtica così varia, così
dolce, così armoniosa, così maestosa, così pieghevole... lingua della cui
purità erano depositarii e custodi gelosissimi quei famosi Bardi che avevano e
conservarono per sì lungo tempo ancor dopo la conquista fatta da' Romani, tanta
influenza sulla nazione, e massime poi la letteratura...Questa lingua e
letteratura cedette alla romana...la greca non mai...e in ultimo, piuttosto i
latini vincitori e signori si ridussero a parlare quotidianamente e scrivere il
greco, e divenir greci... Ed ora la lingua latina non si parla in veruna parte
del mondo, la greca, sebbene svisata, pur vive ancora in quell'antica e prima
sua patria. Tanta è l'influenza di una letteratura estesissima in ispazio di
tempo, e in quantità di cultori e di monumenti; sebbene ella già fosse cadente
a' tempi romani, e a' tempi di Costantino[37],
possiamo dire, spenta. Ma i greci se ne ricordavano sempre, e non da altri
imparavano a scrivere che da' loro sommi e numerosiss. scrittori passati,
siccome non da altri a parlare, che dalle loro madri...Certo è che la
letteratura influisce sommam. sulla lingua...Una lingua senza letteratura, o
poca, non difficilmente si spegne, o si travisa in maniera non
riconoscibile...E sebbene anche i latini ebbero una letteratura, e grande, e
che sommam. contribuì a formare la loro lingua, tuttavia si vede ch'essa
letteratura, venuta, per così dire, a lotta colla greca, in questo particolare,
dové cedere, giacché non solamente non poté snidare la lingua e letterat.
greca, da nessun paese ch'ella avesse occupato, ma neanche introdursi né essa né
la sua lingua in veruno di questi paesi"[38].
E più avanti: “Non si sa che
i costumi de’ romani passassero ai greci neppur dopo Costantino…Da che i
costumi de’ greci furono formati, essi li comunicarono agli altri ma non li
ricevettero più da nessuno. Quindi la sì lunga incorruttibilità della loro
lingua, e la sua durata fino al presente. La tenacità che i greci ebbero sempre
per le cose loro, e l’amore esclusivo che portarono e portano alla loro
nazione, e a’ loro nazionali, è maravigliosa. Ho udito di alcune colonie greche
ancora sussistenti in Corsica e in Sicilia, dove i coloni parlano ancora il
greco, conservano i costumi greci, e non hanno stretta relazione se non fra
loro, benché abitino in mezzo a un paese di nazione diversa, e sieno soggetti a
un governo forestiero….E non è meraviglioso lo stato presente dei greci?”.
Leopardi nota che altre lingue, compresa l’italiana, si sono mescolate e
confuse “Ma i greci non sono divenuti mai turchi, né i turchi greci” (Zibaldone, 1591-1592).
“Polibio non si accorge, come
non sembra essersi accorto Posidonio, della superiorità che la classe politica
romana si era procurata imparando a parlare greco, mentre i Greci non sapevano
il latino”[39].
Plutarco dunque non imparò il
latino e non scrisse mai in questa lingua.
Plutarco cittadino romano e
le sue opere scritte tutte in greco
Plutarco fu cittadino romano,
eppure non scrisse alcuna opera in latino non scrisse alcuna opera in latino
dunque
Nondimeno fu cittadino romano con il nome di Mestrio, e
se fu colpito dal bando con il quale Domiziano nel 93/94 d. C. decretò la
cacciata dei filosofi da Roma, da Traiano ricevette gli ornamenta consularia ( in greco "th;n tw'n uJpatw'n ajxivan", secondo la voce Plutarco della Suda , un'enciclopedia letteraria
bizantina, messa insieme nel X secolo d. C.), mentre al principio del regno di
Adriano gli fu affidato l'incarico di curatore della provincia di Acaia, ossia
di procuratore della Grecia, secondo una notizia del Chronicon di Eusebio[40].
L'Adriano romanzato della Yourcenar ricorda:"A Cheronea, dove ero andato a
commuovermi sulle antiche coppie di amici del Battaglione Sacro, fui per due
giorni ospite di Plutarco"[41].
Non è stato Plutarco stesso a
lasciarci le notizie sulle sue cariche alte, sebbene soltanto onorifiche, di
funzionario dell'impero romano; egli invece ci parla delle sue magistrature
locali, quelle di Cheronea e della Beozia dove fu arconte eponimo,
sovrintendente all'edilizia pubblica e televarco",
sovrintendente alla polizia di Tebe. Ma soprattutto fu fiero del suo sacerdozio
delfico, incarico per il quale organizzava i giochi pitici, presiedeva le
Anfizionie, offriva sacrifici, guidava processioni e danzava[42].
L'autore delle Vite parallele dunque
con i suoi impegni politici e amministrativi "rappresenta bene i comportamenti
( e la visione del proprio posto nella compagine imperiale) proprî dei gruppi
dirigenti filoromani. La tutela degli interessi della propria regione, o anche
della propria cittadina, diventa preminente preoccupazione di questi gruppi
dirigenti: è il modo in cui essi vedono concretamente attuarsi quella
'condirezione dell'impero che non poteva certo essere impostata-ed essi ne
erano ben consapevoli-su un piano di parità"[43].
Plutarco morì in età alquanto avanzata in una data compresa tra il 120 e il 127
d. C.
Bologna 20 giugno 2021 ore 11, 18
giovanni ghiselli
Plutarco IV
Le opere
Il Corpus Plutarcheum comprende
260 titoli:
Le biografie parallele sono ventidue coppie
formate tutte dalle vite di un greco e di un romano, tranne una coppia doppia,
ossia costituita da due Greci (i re spartani Agide e Cleomene) e due Romani (i
tribuni Tiberio e Caio Gracco). Inoltre ci sono pervenute quattro biografie
singole: quelle di Arato, di Artaserse (unica figura esterna al mondo
greco-romano), di Galba e di Otone. Il catalogo di Lampria riporta titoli di
altre vite che non ci sono arrivate: per esempio la coppia Epaminonda-Scipione.
Poiché, come si è visto, si
tratta di un'opera assai vasta e varia è
piuttosto imbarazzante fare una scelta che metta in luce le quintessenze del
plutarchismo: dovrò limitarmi ad alcune Vite
parallele antologizzando le parti
che possono considerarsi dichiarazioni programmatiche dell'autore; quindi
seguirò il criterio di scegliere alcunii passi utili a integrare le storie dei
personaggi o ad ampliare i temi che ho evidenziato studiando negli autori
precedenti. Partiremo dunque dal proemio "metodologico" della Vita di Alessandro dove l'autore, tra l'altro, dichiara di non
scrivere storie ma biografie.
La lingua di Plutarco ha una
base attica che ammette gli influssi della koinhv. I suoi
periodi sono ampi ma non "difficili" per la regolarità e la chiarezza
logica con cui sono costruiti. Per quanto riguarda lo stile, c'è una costante
attenzione a evitare lo iato e, più in generale, all'armonia del suono e
all'equilibrio della struttura dei periodi. Nel complesso la lettura è agevole
e gradevole, dunque, ancora una volta, :"Lector, intende; laetaberis ".
giovanni ghiselli
Introduzione a Plutarco parte
V
Assimilazione o
dissimilazione dello scrittore e del lettore rispetto al personaggio
raccontato. L'educazione impartita attraverso esempi positivi e negativi.
Plutarco e Machiavelli.
All'inizio della Vita di Alessandro ,
Plutarco annuncia il suo intento di raccontare la biografia del re usando
il pluralis maiestatis "gravfonte"" e assimilandosi così in qualche modo al
sovrano di cui vuole narrare le vicende. In effetti uno degli scopi del
biografo di Cheronea è l'assimilazione all'eroe. Nel proemio alle vite di Timoleonte
ed Emilio Paolo (1) egli dichiara:
all'inizio mi è capitato di mettere mano a scrivere le vite per gli altri, ma
oramai continuo e insisto anche per me stesso, poiché, scrutando attraverso la
storia come in uno specchio ("wJvsper ejn ejsovptrw/ th'/ iJstoriva/ peirwvmenon") mi avviene in
qualche modo di adornare e uniformare la
vita alle virtù di quegli illustri personaggi ("kosmei'n kai; ajformiou'n
pro" ta;" ejkeivnwn ajreta;" to;n bivon") .
Così
del resto faceva Machiavelli leggendo. Lo racconta nella Lettera a Francesco Vettori
:"Venuta la sera, mi ritorno in casa et entro nel mio scrittoio; et
in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi
metto panni reali e curiali; e, rivestito condecentemente, entro nelle antique
corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di
quel cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non
mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni. E
quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo
alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce
la morte: tutto mi tranferisco in loro...Die
10 Decembris 1513 ".
La
lettura dei classici dunque per il segretario fiorentino aveva un valore
catartico. Lo stesso significato positivo ha per Plutarco lo scrivere
biografie: nella prefazione alla coppia Timoleonte
- Emilio Paolo infatti l'autore
procede dicendo: il mio lavoro mi appare proprio come un conversare, un vivere
quotidianamente in intimità con costoro, quando, per narrarne le vicende, io li
ricevo quasi e li accolgo a turno come ospiti uno per uno, e considero quanto
grande e quale sia (" o{sso" e[hn oi|ov" te"[48]), scegliendo fra le loro
azioni quelle che furono le più importanti e le belle per la conoscenza:"ta; kuriwvtata kai; kavllista
pro;" gnw'sin ajpo; tw'n pravxewn lambavnonte"". Insomma "il
biografo si rimira nello specchio della storia per accordare la propria
esistenza ai grandi paradigmi di virtù fornitigli dai suoi personaggi, vive anzi
con loro (come poi Montaigne), desideroso di preservare nell'animo la memoria
fragrante di ciò che varrà poi ad espellere l'ignobile sentore della
quotidianità. Gli exempla virtutis costituiscono il più sicuro esercizio di
virtù per l'autore"[49].
Quindi
Plutarco cita un frammento di Sofocle[50]:"feu' feu', tiv touvtou cavrma
mei'zon a]n lavboi"; ", ah, ah, quale gioia potresti prendere maggiore di
questa, e, aggiunge, quale più efficace per il raddrizzamento dei costumi? Lo
studio della Storia allora infonde gioia in chi lo coltiva, come la poesia: Erodoto narra che in attesa del
canto di Arione, nel cuore dei pur spietati marinai corinzi che lo avevano
condannato a morte per derubarlo, si insinuò il piacere [51].
La
catarsi avviene non solo assimilando il valore, ma anche respingendo i vizi, e
questo accade sia imitando la virtù degli uomini grandi e buoni, il cui esempio
aiuta a respingere quella dose di pochezza (" ti fau'lon") o malvagità ("h] kakovhqe"") o volgarità ("h] ajgennev"", ) che le compagnie
di coloro con i quali si deve
vivere insinuano ("aiJ tw'n sunovntwn ejx
ajnavgkh" oJmilivai prosbavllousin"[52]), sia prendendo quali contromodelli uomini
grandi e cattivi.
Anche
secondo Tito Livio la conoscenza della tradizione storica fornisce a chi
la possiede il grande strumento dei modelli positivi da imitare e di quelli
negativi da respingere:"Hoc illud est praecipue in cognitione rerum
salūbre ac frugiferum, omnis te exempli documenta in inlustri posita monumento
intuēri: indi tibi tuaeque rei publicae quod imitēre capias, inde foedum
inceptu, foedum exitu quod vites"[53],
questo soprattutto è salutare e produttivo nella conoscenza della storia, che tu
consideri attentamente i documenti di ogni esempio situati in una tradizione
illustre: di qui puoi prendere modelli da imitare per te e per il tuo Stato, di
qui contromodelli da evitare in quanto turpe nel movente, turpe nel risultato.
giovanni
ghiselli
Introduzione
a Plutarco
Vizi
di Antonio
Plutarco assimila le sue biografie che rivelano i
caratteri all’opera dei pittori.
Orazio scriverà ut pictura poesis ( Ars poetica,
361.
In
un'altra prefazione, quella a Demetrio-Antonio, Plutarco afferma che forse non è male
inserire tra gli esempi le vite di
uomini che hanno fatto uso del loro ingegno in modo troppo sconsiderato, e sono
divenuti celebri nel potere e nelle grandi imprese per i loro vizi ("eij" kakivan").
Vediamo
allora alcuni aspetti di negatività di Antonio ripresi da Shakespeare
Nella
prima scena del primo atto dell’Antonio e
Cleopatra entrano Demetrio e Filone,
amici di Antonio.
Filone
dice: la passione del nostro generale passa la misura “o’erflows the measure (1-2): i suoi occhi che in battaglia
scintillavano come quelli di Marte coperto dall’armatura, ora abbassano lo
sguardo, devotamente su una fronte abbronzata e il suo cuore di condottiero è
diventato il mantice e il ventaglio to
cool a gipsy’s lust (10) per raffreddare la lussuria di una zingara,
Poi
entrano i due amanti devoti pesti futurae
con le dame e gli eunuchi che fanno
vento a Cleopatra. Quindi Filone aggiunge: facci caso e lo vedrai il terzo
pilastro del mondo: “ trasform’d into a
strumpet’s – Old France strupe Late L.
strupum from L. stuprum-fool”
(12-13), trasformato nello zimbello di una sgualdrina
Per
il tardo latino strupum cfr.
Dante:”non è sanza cagion l’andare al cupo- vuolsi nell’alto, là dove
Michele-fe’ la vendetta swl superbo strupo” sono parole di Virgilio a Pluto (Inferno, VII, 10-12).
Antonio
è colpevole di avere sottoposto la ragione al piacere: dopo la vittoria di
Ottaviano, Cleopatra domanda a Enobarbo : “Is
Antony or we in fault for this?”, la colpa è di Antonio o mia? E l’amico di
Antonio, in procinto di abbandonarlo risponde: “Antony only, that would make his will-Lord of is reason” (III, 13),
solo di Antonio che ha sottoposto la sua ragione al suo piacere.
Antonio
era amato dai suoi soldati poiché amava gozzovigliare con loro. Fondamentale
per lui era la figura di Ercole. Tendeva a indossare abiti che ricordavano
Ercole e anche la barba a tutto viso. Il suo comportamento, cameratesco,
generoso, passionale, era visto come Erculeo.
Antonio
ed Ercole godevano di una popolarità che Ottaviano/Augusto e Apollo non
avrebbero mai raggiunto. Il loro comune discendente, Nerone, univa in sé i due
opposti. Non a caso le due divinità con cui si identificava erano Apollo/Sole
ed Ercole.
Plutarco
precisa che racconta non solo le virtù
ma anche il loro pervertimento in vizi non per per offrire diversivi al piacere
dei lettori ma per procedere didatticamente, come procedeva il flautista tebano
Ismenia che faceva ascoltare ai discepoli quelli che suonavano bene e quelli
che suonavano male il flauto, ed era solito dire:"ou{tw" aujlei'n dei',- kai;
pavlin- ou{tw" aujlei'n ouj dei'", così bisogna suonare, e viceversa, così non
bisogna suonare il flauto. Perciò, conclude Plutarco, a me sembra che anche noi
saremo maggiormente desiderosi di essere osservatori e imitatori di uomini
migliori se non rimarremo nell'ignoranza della storia di quelli viziosi e
biasimati:"ou{tw"
moi dokou'men hJmei'" proqumovteroi tw'n beltiovnwn e[sesqai kai; qeatai;
kai; mimhtai; bivwn, eij mhde; tw'n fauvlwn kai; yegomevnwn ajnistorhvtw"
e[coimen"
(Vita di Demetrio, 1, 6).
Plutarco
paragona la propria opera di biografo a quella dei pittori:
“Noi infatti non scriviamo
storie, ma vite, né del resto nelle azioni più famose è sempre insita una
manifestazione di virtù o di vizio, ma spesso un'azione breve e una parola e
una battuta danno un'immagine del carattere più che battaglie con innumerevoli
morti e schieramenti di eserciti enormi e assedi di città.
Come dunque i pittori-w{sper ou\n oiJ zw/vgrafoi- colgono le somiglianze
dal volto e dalle espressioni relative allo sguardo nelle quali si mostra il
carattere, mentre delle parti restanti si prendono pochissima cura, così a noi
si deve concedere di penetrare più nei segni dell'anima, e attraverso questi
rappresentare la vita di ciascuno, lasciando ad altri le grandezze e le contese ( Introduzione
alle Vite di Alessandro e Cesare, I.
2-3)
Bologna
20 giugno 2021 ore 17, 35
giovanni
ghiselli
Introduzione
a Plutarco
VII
e ultima parte
Importanza
degli esempi per l’educazione
In
effetti l'esempio , positivo e negativo, è la stella polare dell'educazione
antica, il punto di orientamento più efficace. Già nel primo canto dell'Odissea
compaiono i paradigmi educativi:
Egisto è presentato dallo stesso Zeus quale contromodello, siccome è uno
degli uomini che soffrono dolori contro il destino per la loro follia:"sfh'/sin ajtasqalivh/sin ujpe;r
movron a[lge j e[cousin"(v.
34), e viceversa Oreste più avanti viene
indicato a Telemaco da Atena-Mente quale paradigma positivo in quanto ha ucciso
il negativo Egisto appunto, e ha vendicato il padre. Anche tu sii forte, lo
incoraggia la dea, poiché ti vedo bello e grande assai:" "kai; suv, fivlo", mala gavr
s joJrovw kalovn te mevgan te-a[lkimo" e[ss j"(vv.
301-302). Senza l'esempio
mancherebbe l'elemento concreto indispensabile per un elleno: "il
realismo, in arte, è greco; l'allegorismo è ebraico", ebbe a scrivere Pavese[54]. Quando il figlio di
Odisseo si reca a Pilo, Nestore gli ricorda lo stesso paradigma e gli rinnova
l'incoraggiamento ( Odissea III, vv. 193-200). La cultura greca tende
a sviluppare organicamente le forme originarie: tra Omero e Plutarco l'uso dell'esempio
concreto non viene mai meno, e pure Platone utilizza spesso modelli e
contromodelli: nel Gorgia il filosofo presentato i tiranni tra gli
incurabili ("ajnivatoi", 525c) diventati tali poiché hanno commesso i
crimini più atroci e non espiabili: ebbene costoro, non potendo più redimersi,
servono come paradeivgmata, esempi negativi per gli altri, stando sospesi nel
carcere dell'Ade.
Plutarco
nel preambolo alla coppia Demetrio
- Antonio dice che questi due sono
uomini adatti a testimoniare quanto Platone scrisse: " o{ti kai; kakiva"
megavla" w{sper ajreta;" aiJ megavlai fuvsei" ejkfevrousi", che le grandi
nature producono grandi virtù come anche grandi vizi.
Nella
Repubblica (491e) di Platone Socrate infatti spiega al
giovane Adimanto che le anime di natura migliore, se ottengono un' educazione
cattiva diventano straordinariamente cattive, poiché le grandi malvagità
nascono da nature grandi.
Torniamo
quindi a Demetrio e Antonio, i due "eroi negativi" di Plutarco:"genovmenoi d& oJmoivw"
ejrwtikoi; potikoi; stratiwtikoi; megalovdwroi polutelei'" uJbristaiv,
kai; ta;" kata; tuvchn oJmoiovthta" ajkolouvqou" e[scon" (Vita di Demetrio, 1, 8), divenuti
ugualmente amatori, bevitori, bellicosi, munifici, sontuosi, violenti, ebbero
anche somiglianze conseguenti di destino, ossia, spiega, con infime cadute
nella polvere e sublimi salite sui fastigi del potere.
E'
da notare che il biografo platonico ricorda, nel rappresentare questi due
uomini "uJbristaiv", alcune
caratteristiche che Platone attribuisce al tiranno destinato a divenire
paradigma negativo: il turanniko;"
ajnh;r è , per
natura, o per le abitudini, tra l'altro,"mequstikov" te kai; ejrwtikov"" (Repubblica, 573c) incline al bere e
anche al sesso.
giovanni
ghiselli
Antonio e Cleopatra
Ultimo scambio di battute tra
Cleopatra e Ottaviano nell’Antonio e
Cleopatra di Shakespeare
L’ereditarietà
della colpa. Il disprezzo del lavoro mercantile
.
Cleopatra dice: si deve
sapere che noi, le persone più grandi della storia umana, siamo mal giudicati
per cose fatte male da altri-be it known
thate we, the greatest, are miss-thought/ for things that other do, e quando cadiamo rispondiamo con il nostro
nome di quanto hanno meritato altri, and
when we fall,-we answer other merits L. meritum-merere
in our name, e quindi siamo degni di compassione, and therefore to be pitied” (V, 2,
276-279)
Ancora una negazione della
felicità di chi raggiunge o eredita il potere nel cui ambito vige, secondo
Cleopatra, la legge della ereditarietà della colpa chiarita per la propria
stirpe da Eteocle nei Sette a Tebe di
Eschilo.
Un problema grande nell’uomo
greco è quello della ereditarietà delle colpe dei padri. Sentiamone alcune
espressioni: Eteocle nei Sette a Tebe
non è personalmente colpevole ma deve pagare per :"la trasgressione
antica/dalla rapida pena/che rimane fino alla terza generazione:/quando Laio
faceva violenza/ad Apollo che diceva tre volte,/negli oracoli Pitici
dell'ombelico/del mondo, di salvare la città/morendo senza prole;/ma quello
vinto dalla sua dissennatezza/generò il destino per sé,/Edipo parricida,/quello
che osò seminare/il sacro solco della madre, dal quale nacque/radice
insanguinata,/e fu la pazzia a unire/gli sposi dementi"(vv.742-757).
Il
Coro dell ’Antigone di Sofocle deplora la catastrofe della ragazza
con queste parole: "Avanzando verso
l'estremità dell'audacia,/hai urtato , contro l'eccelso trono della
Giustizia,/creatura, con grave caduta,/ del resto sconti una colpa del
padre" (vv. 853-856).
Ora leggiamone
un’interpretazione, a sua volta parecchio problematica, di Pasolini:“Uno dei temi più
misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le
colpe dei padri. Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro
padri hanno peccato, essi devono essere puniti. E’ il coro-un coro democratico-
che si dichiara depositario di tale verità: e la enuncia senza introdurla e
senza illustrarla, tanto gli pare naturale”
Pasolini
trova una ragione nella legge della
tragica predestinazione a ereditare le colpe: i giovani del 1975 sono figli di
padri colpevoli, padri “che si son resi responsabili, prima, del fascismo, poi
di un regime clerico-fascista, fintamente democratico, e, infine, hanno
accettato la nuova forma del potere, il potere dei consumi, ultima delle
rovine, rovina delle rovine”. I figli dunque sono puniti. “Ma sono figli
“puniti” per le nostre colpe, cioè per le colpe dei padri. E’ giusto? Era
questa, in realtà, per un lettore moderno, la domanda senza risposta, del
motivo dominante del teatro greco. Ebbene sì, è giusto. Il lettore moderno ha
vissuto infatti un’esperienza che gli rende finalmente, e tragicamente,
comprensibile l’affermazione-che pareva così ciecamente irrazionale e
crudele-del coro democratico dell’antica Atene: che i figli cioè devono pagare
le colpe dei padri. Infatti i figli che non si liberano delle colpe dei padri
sono infelici: e non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che
l’infelicità”.
E
le colpe dei padri? Esse sono la complicità col vecchio fascismo e
l’accettazione del nuovo fascismo. Perché tali colpe?
“Perché
c’è-ed eccoci al punto-un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune
a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi
la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della
classe dominante. In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in
questo: credere che la storia non sia e
non possa essere che la storia borghese” [55].
Ottaviano
risponde a Cleopatra che non intende sottrarle nulla di quanto ella ha
dichiarato e si è meritata e prende le proprie distanze dalla figura del
mercante che l’antica aristocrazia disprezzava e magari anche la moderna lo fa,
soprattutto se è di origine mercantile.
“Caesar ’s no merchant, to make prize with
you-of things that merchants sold” (V, 2, 183-184), Cesare non è un
mercante da contrattare con voi un prezzo delle cose vendute dai
mercanti.
Il
disprezzo del mercante risale all’Odissea
Odisseo si offende poiché il Feace Eurialo gli
ha detto che non sembra un atleta bensì un ajrco;" nautavwn oi{ te prhkth're" e[asi (Odissea, VIII, 162) capo di marinai che sono mercanti ed è ejpivskopo" kerdevwn
aJrpalevwn, ispettore di guadagni rapaci
(163-164).
Cfr. la lex Claudia de senatoribus ( del218 a. C.) proposta dal tribuno
della plebe Quinto Claudio e approvata. Prescriveva che nessun senatore potesse
avere una nave con una capacità superiore alle 300 anfore. .
“Id
satis habitum ad fructus ex agris
vectandos, quaestus omnis patribus indecōrus visus” tale carico si ritenne
impiegato per il trasporto dei prodotti agricoli, ogni profitto ritenuto
indecoroso per i senatori (Livio, XXI, 63)
La
legge aveva avuto l’appoggio del senatore Caio Flaminio il quale allora ebbe la
malevolenza del patriziato e il favore della plebe che lo elesse console per la
seconda volta. Venne eletto senza che si fossero presi gli auspìci. Morirà nel
217 sconfitto da Annibale al Trasimeno
Dante nell’elogio di San Francesco
scrive:
“Né li gravò viltà di cor le
ciglia
Per esser fi’ di Pietro
Bernardone,
né per parer dispetto a
maraviglia” (Paradiso, XI, 88-90)
Il padre di Francesco di
Assisi era un mercante appunto.
Se ne ricorda Parini
nell'ode Alla Musa dove considera estraneo alla poesia "il mercadante che con ciglio
asciutto/fugge i figli e la moglie ovunque il chiama/dura avarizia nel remoto
flutto" (vv. 1-3).
Leopardi nel canto Il pensiero dominante condanna la sua età "superba,/ che di
vote speranze si nutrica,/vaga di ciance, e di virtù nemica;/stolta, che l'util chiede,/e inutile la
vita/quindi più sempre divenir non vede"(vv. 59-64).
Ancora più duramente si
esprime nei confronti del lucro il poeta
di Recanati nella Palinodia al Marchese
Gino Capponi :" anzi coverte/fien di stragi l'Europa e l'altra
riva/dell'atlantico mar...sempre che spinga/contrarie in campo le fraterne
schiere/di pepe o di cannella o d'altro aroma/fatale cagione, o di melate
canne,/o cagion qual si sia ch'ad auro torni" (vv. 61-67).
Bologna 26 aprile 2021, ore
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Corso di giugno XXVIII La
dignità nella morte di Cleopatra e di Polissena
Il cesto di fichi per
Cleopatra e quello di fragole nel Riccardo
III
Uscito
Ottaviano, Cleopatra commenta le promesse di lui con Iras e Carmiana: egli mi
raggira, ragazze, mi raggira con parole perché non agisca nobilmente verso me
stessa “he words latino verbum- me that I should not be noble to myself (V,
2, 191-192).
Il
carattere nobile rimane tale anche nel momento supremo della morte.
Cfr.
la morte di Polissena nell’Ecuba di
Euripide
La principessa troiana dice a
Odisseo che non deve temere di venire importunato da suppliche. Ti seguirò per
via della necessità, poi sono io che voglio morire qanei'n te crhv/zomai (347).
Se
non lo volessi, continua Polissena, kakh; fanou'mai kai; filovyuco" gunhv (348) apparirò quale donna
vile e attaccata alla vita. Vengo da una condizione principesca, una ragazza h|/ path;r h\n a[nax-Frugw'n ajpavntwn (349-350) il cui padre era
il signoe di tutti i Frigi e dovevo sposare un re. Avevo molti pretendenti. Ero
i[sh qeoi'si plh;n
to; katqanei'n movnon (356),
simile alle dèe a parte che sarei dovuta morire, nu'n dj
eijmi; douvlh, ora sono una schiava.
Basta questo nome cui non sono avvezza a farmi amare il morire. Ora posso
essere comprata per denaro da padroni crudeli, io, la sorella di Ettore e di
molti altri eroi, addetta alla necessità di fare il pane,- prosqei;" d j ajnavgkhn
sitopoiovn ejn dovmoi", 362, di spazzare la casa- saivrein te dw'ma- e stare al telaio
363.
Uno
schiavo comprato da qualche parte dou'lo" wjnhtov" povqen
insozzerà il mio letto- levch de; tajma; cranei' , che una volta era considerato degno di
principi. No di certo-Ouj
dh't j (367)
Mando
fuori dagli occhi una luce libera attribuendo il mio corpo all’Ade (367).
Polissena
quindi chiede alla madre di non impedirle quanto ha deciso: mhde;n ejmpodwvn gevnh/ (372), anzi di condividere
la sua volontà: morire è meglio che subire turpitudini immeritate (374). Chi
non è abituato ad assaggiare i mali li porta sul collo con sofferenza e si
sente più fortunato morendo.
Torniamo
a Shakespeare.
Carmiana
dice che il giorno luminoso è finito: we
are for the dark (V, 2, 194) siamo pronte per il buio.
Poi
rientra Dolabella e conferma che Ottaviano intende inviare la regina a Roma (V,
2, 200-202)
Lo
abbiamo già visto nella Vita di
Plutarco (84, 2)
Cleopatra
rivolta a Iras le dice che cosa si aspetta da quella deportazione: “thou, an Egyptian puppet-dimin. of L. pupa-,
shalt be shown-in Rome, as well as I (207-208) tu, quale una marionetta
egiziana sarai messa in mostra come me, e saremo alzate alla vista di tutti da
volgari schiavi and forced to drink their vapour- e costrette ad aspirare le loro
emanazioni .
Piuttosto che vedersi vilipesa da littori
e istrioni i quali rappresenteranno Antonio come ubriaco e che dover assistere
a qualche giovanotto mentre, travestito
da becera Cleopatra squeaking Cleopatra
, avvilisce la sua grandezza raffigurandola in
the posture of a whore (V, 2, 214-219), nell’atteggiamento di una puttana,
la donna regale, la donna non comune decide di uccidersi.
Prima
di morire però chiede a Charmian e alle
altre anncelle di adornarla dalla regina
che siccome vuole tornare sul Cidno a
incontrare Marco Antonio : “I am again
for Cydnus-to meet Mark Antony” (V, 2,
227-228)
Comunque ha deciso: “My resolution is placed, and I haved nothing of woman in me: now from head to foot I am a
marble-constant; now the fleeting moon non planet of mine” (V, 2, 238-241),
la mia risoluzione è presa e io non ho nulla di femminile in me, adesso sno
salda come il marmo dalla testa ai piedi,
adesso la luna incostante non è il mio pianeta.
Cfr.
Lady Macbeth che vuole defemminilizzarsi quando invoca gli spiriti che
apportano pensieri di morte:"unsex me here", snaturatemi il
sesso ora, e riempitemi dalla testa ai piedi della crudeltà più orrenda (of
direst cruelty). Il sangue di cui gronda la tragedia, nel suo corpo
deve addensarsi e chiudere ogni via di
accesso al rimorso ( Macbeth, I, 5).
Cfr.
pure
Lady
Macbeth e Medea vogliono uccidere altre persone, Cleopatra solo la schiava che diventerebbe dopo la
vittoria di Ottaviano, e lo fa con
regalità: the stroke of death is as a
lover's pinch (V, 2, 294), il tocco della morte è come il pizzicotto di un
amante.
Plutarco racconta che Cleopatra dopo avere
incoronato di fiori e abbracciato la tomba di Antonio ejkevleusen auJth`/ loutro;n genevsqai (Vita di Antonio, 85, 1) ordinò che le si
preparasse un bagno. Dopo essersi lavata e accomodata a tavola, fece un pranzo
splendido.
Vuole riassestarsi per incontrare Antonio.
Intanto era arrivato un uomo dalla
campagna con un cesto- kai;
ti" h|ken ajp j ajgrou` kivsthn tina; komivzwn (85, 2).
Le guardie gli domandarono che cosa
contenesse ed egli scoperchiatolo e tolte le foglie, mostrò il recipiente pieno
di fichi- suvkwn
ejpivplewn to;
ajggei`on
edeixe (85, 3).
Nel dramma di Shakespeare una guardia
annuncia il contadino: “Here is a
rural- L. rur-stem of rus-
fellow-that will not be denied your higness’ presence-he brings you figs. (V, 2, 233-234),
qui c’è un campagnolo che non vuole gli si neghi la presenza di vostra altezza,
egli vi porta dei fichi.
Il cestino con la frutta che sembra un dono, prefigura la morte.
Nel Riccardo
III anticipa di poco una condanna capitale.
Nella Torre siede l’intero consiglio della corona che
aspetta Riccardo il Lord Potettore il quale ha già deciso di condannare
a morte il ciambellano lord Hastings che ha cercato di non cedere al complotto
ordito per esautorare il legittimo successore al trono, figlio del defunto Edoardo IV e nipote di
Riccardo.
Il quale aveva già risposto “Chop off his head”, tagliargli la testa
, alla domanda di Buckingham: “Now, my
lord, what shall we do if we perceive Lord Hastings will not yeld to our
complots?” allora, signore, che cosa dobbiamo fare se ci rendiamo conto che
Lord Hastings non cede ai nostri complotti? (III, 1, 191-193)
Entra dunque Il duca di Gloucester e Lord
Potettore del nipote erede al trono. Sono tutti trepidi temendo ciascuno
per sé ma il più allarmato è Hastings
che si è opposto al colpo di Stato.
Riccardo non si scopre subito, anzi assume
un tono svagato prima di decretare la condanna del ciambellano: “My Lord of Ely, when I was last in Holborn-I
saw good strawberries in your garden there;-I do beseech, send for some of them”
III, 4, 31-33)
Poche battute dopo, nonostante Hastings
abbia cercato di fare ammenda, Riccardo grida infuiato: Off with his hear!” (III, 4, 76), gli si tagli la testa!
Jan Kott commenta: “Shakespeare non sapeva
la gerogafia. Per lui
Bologna 28 aprile 2021 ore 19, 36
giovanni ghiselli
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Corso
di giugno XXIX. il corteggiamento di Cleopatra al serpente.
L'invidia
degli dèi. Amore e morte
Uscita
la guardia, Cleopatra commenta: " what
poor an instrument-may do a noble deed! he brings me liberty" (V, 2,
235-236), che misero strumento può compiere un'azione nobile! Egli mi porta la
libertà.
Nobiltà
e libertà sono associate alla morte quando questa ci sottrae alla perdita
dell'identità che è insopportabile se una persona ne ha una propria, non gregaria. Si pensi a Dante
che è morto terminata
Segue
la negazione della femminilità già citata sopra
, e accostata a
quelle di Medea e di lady Macbeth: “and I
have nothing of woman in me” (238-239). E’ più facile rinunciare alla
propria femminilità, un’identità collettiva, che a quella della nobiltà,
identità molto più rara
La guardia esce ed entra il contadino cui Cleopatra domanda: “Hast thou the pretty worm of Nilus
there-that kills and pains not? (243)
hai tu lì il grazioso serpente del Nilo che uccide senza fare male?
Cleopatra invero riprende la sua
femminilità con il serpente quasi corteggiandolo come un amante. Poco più
avanti dirà la battuta già citata: the stroke of death is as a lover's pinch (V, 2, 294), il tocco della morte è come il
pizzicotto di un amante.
Poi arriva a mostrare un
sentimento da nutrice per l'aspide dicendo a Carmiana: "Peace, peace! dost thou not see my baby at
my breast-that sucks the nurse asleep?" (V, 2, 317-320), silenzio, silenzio!, non vedi che ho Il mio bambino al
petto vhe succhia fino a fare addormentare la balia?
Invero
Cleopatra è troppo femminile per poter negare la femminilità che fa parte della
sua identità profonda non meno della propria regalità
Il
contadino conferma che il morso del serpente uccide. Però deve avere notato che
Cleopatra corteggia il serpente come il suo prossimo e ultimo amante perché,
congedato da Cleopatra, la saluta dicendo: "I wish you all joy of the worm" (260), vi auguro ogni gioia
con il serpente.
Chi
ama la vita e ama l'amore non smette mai di corteggiare, non può farne a meno.
Nel
suo ultimo romanzo Svevo scrive. "Ne ho cinquantasette degli anni e sono
sicuro che (…) la mia ultima occhiata dal mio letto di morte sarà l'espressione
del mio desiderio per la mia infermiera, se questa non sarà mia moglie e se mia
moglie avrà permesso che sia bella!"
(La coscienza di Zeno, Preambolo)
Plutarco
scrive che quando il contadino ebbe
scoperto i fichi, le guardie ne ammirarono to; kavllo" kai; to; mevgeqo" (85, 3) la grandezza e la grossezza e furono invitati
a prenderne, sicché cadde ogni diffidenza verso di lui. La bellezza, anche
quella dei fichi, apre molte porte.
Dopo
il pranzo, cleopatra sigillò una tavoletta scritta da lei e la mandò a
Ottaviano. Gli chiedeva di farla seppellire con Antonio su;n jAntwnivw/
qavyai- (85, 5).
La
tendenza a corteggiare sempre non esclude la fedeltà alla persona del tutto congeniale.
Allora
torniamo a Shakespeare.
Rientra
Iras con un manto e una corona . Cleopatra se ne fa adornare perchè sente
Antonio che la chiama: "I hear him
mock-the luck of Caesar (284-285), lo sento schernire la fortuna di Cesare,
"which the gods give men-to excuse
their after wrath" (285-286)
che gli dèi concedono agli uomini per giustificare la loro ira futura.
Sento un'eco proveniente da Erodoto che avverte sull'invidia degli dèi nei
confronti degli uomini dai successi eccessivi.
Quello (Solone)
allora disse:"O Creso, tu fai domande sulle vicende umane a me che
so che il divino è tutto invidioso e perturbatore. to; qei`on pa`n ejo;n fqonero;n
kai; taracw`de"-
(Erodoto, Storie, I, 32, 1).
Volendo nobilitare "l'invidia degli dèi"
avvalendoci di parti dell'opera, vediamo che essa scatta nei confronti degli uomini di potere
che, superando la giusta misura umana, si inorgogliscono e peccano di u{bri", o fanno errori politici,
o sbagli militari: come Creso appunto, come Policrate tiranno di Samo, come
Serse cui lo zio Artabano dice che il fulmine si abbatte sugli edifici e gli
alberi più alti, poiché il dio tende a
troncare tutto ciò che si innalza "filevei ga;r oJ qeo;" ta;
uJperevconta pavnta kolouvein", VII, 10).
Quindi
Carmiana saluta e bacia le ancelle amiche Carmiana e Iras che cade morta.
Quindi
la battuta splendida con l'associazione tra il tocco della morte e il
pizzicotto di un amate which hurts and is
desired (295) che fa male ed è desiderato.
E'
l'associazione amore e morte diffusa in letteratura antica e moderna
Sentiamo
H. Hesse:"Amore e voluttà
gli parevano l'unica cosa che potesse davvero scaldare la vita, e darle un
valore (…) L'amore delle donne, il gioco dei sessi stava per lui in cima a
tutto e il fondo della sua frequente tendenza alla malinconia e al disgusto
aveva origine nell'esperienza di quanto sia instabile e fugace la voluttà (…)
Morte e voluttà erano una cosa sola"1
Nota
Narciso
e Boccadoro,
p. 252.
La
morte di Cleopatra. Un poco di metodologia storiografica
Siamo arrivati alla morte di Cleopatra.
Partiamo da Shakespeare. La regina si rammarica del fatto che Iras sia morta
pima di lei. Teme di apparire vile a riccioluto Antonio ( the curled Antony, v., 2, 300):
quando Iras lo avrà raggiunto, lui domanderà di Cleopatra e darà a lei
quel bacio che era pronto per l’amante arrivata in cielo. Ma la regina si è
fatta precedere dalla parrucchiera ed è in ritardo. Quindi invita l’aspide a venire da lei e se
lo applica al petto. Gli chiede: “with
thy sharp teeth this knot intrinsicate –of life at once untie” (303-304)
con i tuoi denti aguzzi sciogli in un colpo solo questo intricato nodo della vita.
La funzione di sciogliere gli intrighi
rivelando le verità nascoste viene attribuita da Cordelia, la figlia buona di Re
Lear, al tempo:" Time shall unfold what plaited cunning hides",
il tempo spiegherà ciò che l' attorcigliata astuzia nasconde (I, 1).
Il
tempo ha la funzione benefica di salvare l’umanità quando questa giunge
sull’orlo del baratro
Ancora nel Re Lear il duca di Albania aspetta una
salvezza dal tempo auspicandone la fretta: “Se il cielo non manda subito i suoi
spiriti a frenare queste colpe orrende, sarà per forza necessario che l’umanità
vada a caccia di se stessa, come i mostri del mare like monsters of the deep (IV, 2).
Il serpente è arrivato nel
momento opportuno per salvare la dignità
di Cleopatra.
La regina gli fa fretta: “poor venenous fool, be angry and dispatch”,
(304-305), povero sciocco velenoso, irritati e fai presto. Se l’aspide potesse
parlare, Cleopatra lo udirebbe chiamare the
great Cesare- ass unpolicied (306-307) un asino grossolano.
Quindi la battuta già citata
sul serpente assimilato a un bambino che succhia fino a fare addormentare la
nutrice.
Infine la regina prende un
altro aspide e se lo applica al braccio. Inizia la frase: “what should I stay (311)
perché dovrei restare….ma non la finisce perché muore
La completa
Carmiana: “in this vile world?
In questo mondo spregevole?
Quindi l’amica la saluta e ne
fa l’elgio funebre con queste parole: “now
boast thee, death, in thy possession lies –a lass unparalle’ d” (514-515),
ora vantati morte, in tuo potese giace una ragazza senza pari.
Plutarco racconta che
l’aspide fu portato con i fichi nascosto sotto le foglie secondo l’ordine di
Cleopatra che non voleva vederlo, ma tolti i fichi lo vide e disse “eri qui
dunque” (86, 3). E denudato il braccio lo offrì al morso. Altri dicono che il
serpente era custodito in un orcio e che Cleopatra lo povocò e lo irritò con un
fuso d’oro finché questo saltò fuori e le morse il baccio. Ma nessuno conosce
la verità- to; d’
ajlhqe;" oujdei;" oi\den (86,
4)
C’è una terza versione
secondo la quale Cleiopatra teneva del veleno in uno spillone cavo nascosto tra
i capelli.
Come si vede Plutarco non usa
il dialogo e non sceglie fra tre versioni della morte di Cleopatra. Questo di
riferire tutte le fonti disponibili, pure quelle poco verosimili è un metodo
seguito anche da altri storiografi.
Ne faccio quattro esempi.
A proposito della diceria
secondo la quale le ragazze indigene con penne di uccello spalmate di pece
traevano pagliuzze d’oro da un lago situato in un’isola posta davanti alla
costa africana Erodoto scrive : “tau'ta eij mh;
e[sti ajlhqevw~ oujk oi\da, ta; de; levgetai gravfw” (I, 195, 2), queste cose non so se sono vere, ma
quello che si dice lo scrivo.
E per quanto riguarda un’intesa tra i Persiani e gli
Argivi: “ejgw; de;
ojfeivlw levgein tav legovmena, peivqesqaiv ge me;n ouj pantavpasin ojfeivlw” (VII, 152, 3), io sono tenuto a dire le parole
dette, a credere a tutte invece non sono tenuto.
In modo simile Curzio Rufo:“Equidem plura transcribo quam credo: nam nec adfirmare sustineo, de
quibus dubito, nec subducere, quae accepi” (9, 1, 34), per conto mio
riporto più notizie di quelle cui presto fede: infatti non me la sento di
confermare notizie delle quali non sono sicuro, né di sottrarre quelle che ho
ricevuto.
Quindi, a proposito del cadavere di Alessandro che giaceva nel
sarcofago da sei giorni, trascurato, e, nonostante il caldo estivo, il corpo
non era degenerato, Curzio scrive: “ Traditum
magis quam creditum refero” (10,
10, 12).
Arriano a proposito della
morte di Alessandro Magno riporta una notizia alla quale non crede, della quale
anzi afferma che dovrebbero vergognarsi quanti l’hanno scritta.
Si racconta dunque che il
condottiero macedone, sentendosi morire,
voleva gettarsi nell’Eufrate per sparire accreditando la fama di una sua
assunzione in cielo in quanto nato da un dio. Glielo impedì Rossane ed egli le
disse che lo privava della gloria di essere nato dio. Ebbene lo storiografo di
Nicomedia precisa che ha riportato queste notizie wJ" mh; ajgnoei'n dovxaimi perché non sembri che io le ignori, più che per il
fatto che esse sembrino pista;
ej" ajfhvghsin, (7, 27, 3) credibili
a raccontarle.
Concludo
citando Tacito
Ut conquirere fabulosa et fictis oblectare legentium animos
procul
gravitate coepti operis crediderim, ita vulgatis
traditisque
demere fidem non ausim. die, quo Bedriaci certabatur, avem
invisitata specie apud Regium Lepidum celebri luco conse-
disse incolae memorant, nec deinde coetu hominum aut cir-
cumvolitantium alitum territam pulsamve, donec Otho se ipse
interficeret; tum ablatam ex oculis: et tempora
reputantibus
initium finemque miraculi cum Othonis exitu competisse. (Historiae, II, 50)
Come reputerei lontano
dalla serietà dell’opera iniziata andare
in cerca di miti e dilettare le anime dei lettori con delle invenzioni, così
non oserei togliere credito a tradizioni diffuse. Nel giorno in cui si combatteva
a Bedriaco, gli abitanti ricordano che un uccello di aspetto mai visto si posò
in un frequentato bosco sacro presso Reggio Emilia, e che non venne spaventato
né scacciato di lì dalla grande quantità delle persone né degli uccelli che
svolazzavano intorno, finché Otone non si fu ucciso; allora scomparve alla
vista; e per chi tiene conto dei tempi, il principio e la fine del prodigio
coincide con la fine di Otone.
Sono fatti dell’aprile
del ’69.
Bologna 30 aprile 2021
ore 20
giovanni ghiselli
p. s
Sempre1122320
Oggi376
Ieri487
Questo mese13409
Il mese scorso13315
Corso di giugno XXXI. La
nobiltà nella morte di Cleopatra e delle sue ancelle Carmiana e Iras.
Morta Cleopatra, entrano correndo delle guardie
Carmiana chiede loro di parlare piano, di
non svegliare la regina. La prima guardia inizia a dire. “Caesar hath sent”…, Cesare ha mandato…
E Carmiana conclude: “too slow a messengger” (V,
2, 320), un messaggero troppo lento. Quindi pure lei si applica una aspide (in
greco e in latino il genere è femminile lo conservo in italiano come fa
Foscolno con “arbore amica”, Sepolcri,
39 )
La prima guardia chiede alla seconda di
avvicinarsi. “all’s not well: Caesar’s
beguiled” (321), non va tutto bene: Cesare è stato ingannato.
Per il servo contano solo gli interessi del
potere.
La morte di una persona in sé non conta
niente.
Come non contava niente la morte di
Pinelli per i servi presenti nell’ultima puntata di Piazza pulita che ho commentato con due pezzi situati nel mio blog
e facebook.
La pima guardia dunque si rivolge a Carmiana morente e le
rivolge la domanda "Charmian, is this well done?", e l'amica di Cleopatra ribatte : "It is well done, and fitting for a
princess-Descended of so many royal kings. Ah, soldier! (V, 2,
324-327)", è ben fatto e si confà a una sovrana discesa da tanti nobili
re. Ah soldato!
"Shakespeare
è inoltre maestro del linguaggio drammatico, intendendo come tale il linguaggio
che suggerisce, anzi impone attraverso la parola scritta, il gesto o il tono
che non possono non accompagnarla se detta: oppure l'espressione disadorna,
priva di valori poetici-e quindi lirici-in sé e per sé, ma che si carica di
significazione poetica in foza della situazione in cui si trova inserita (…)
valga, ora, l'ultima parola , "Ah
soldier!, che Charmin morente getta sprezzantemente in faccia alla guardia ,
quando, di fronte al cadavere di Cleopatra, che uccidendosi, si è sottratta
all'umiliazione di adornare il trionfo del vincitore a Roma, il romano le
rivolge l'ottusa domanda is this well done?": "It is well done, and
fitting for a princess-Descended of so many royal kings. Ah, soldier!, risponde Charmian con il suo ultimo
fiato, e la parola non ha certo alcun valore poetico-lirico- in sé e per sé- ma
inserita in quella situazione, acquista un significato d'inaudita violenza:
"Che cosa puoi capire , tu-"soldato!" degli alti sensi della mia regale
signora?"; e dei suoi stessi , in realtà, in quanto nel medesimo istante,
poiché della sua "regale signora" ha seguito l'esempio, muore.
E
ancora, in The Merchant of Venice,
l'elementare "I am not well" (IV, 1, 96) non mi sento bene di Shylock
sconfitto, quando chiede al tribunale il permesso di allontanarsi.
E
infine l'ineffabile "Do you love me?" (III, 1, 67) Mi vuoi bene? di
Miranda a Ferdinand in The Tempest,
dove la più vieta delle frasi d'amore sembra pronunciata per la prima volta
nella storia dell'umanità" (Carlo Izzo, Storia della letteratura inglese, I volume, pp. 407-408). Ho fatto
questa lunga citazione per gratitudine verso il miglior maestro trovato all'Università
quando ero studente.
Vediamo
adesso la medesima situazione descritta da Plutarco che ha insegnato a
Shakespeare le battute che Shakespeare ha insegnato a Carlo Izzo, Calro Izzo a
me, e io a voi che mi leggete. Così non muoiono le civiltà, anche se certe
trasmissioni televisive con le loro volgarità, menzogne e reticenze cercano di
sommergerlr nella loro palude. Suggerisco ai miei lettori di evitarle o di
imparare da esse l'opposto di quello che vogliono inculcarci.
Veniamo
dunque alla Vita di Antonio. Plutarco
descrive lo stato delle due donne ancelle e amiche di Cleopatra: Iras stava
morendo ai piedi della regina già morta, mentre Carmione h[dh sfallomevnh kai;
karhbarou`sa , già barcollante e con la
testa appesantita, accomodava il diadema sulla testa di lei-katekovsmei to; diadhma to; peri;
th;n kefalh;n aujth`"- (85, 7) .
Questo gesto mostra la nobiltà dell'ancella di gran lunga superiore a quella di
Ottaviano ed entra nell' argomento la bellezza nella morte che tratterò sabato
prossimo, 8 maggio, in un convegno on line al quale vi invito.
Concludo
le vicende di Cleopatra con le parole di Carmiana nella biografia di Plutarco
Quando
uno le dice con ira. eijpovnto"
dev tino" ojrgh`/- "kala; tau'ta Cavrmion
;" è bello questo?
, Carmiana risponde
"kavllista
me;n ou\n kai; prevponta th'/ tosouvtwn ajpogovnw/ basilevwn" ( 85, 8), è bellissimo e si confà a una donna
che discende da re tanto grandi. Non disse altro ma cadde lì presso il letto- ajll j aujtou` para; th;n
klivnhn e[pese. . Credo sia doveroso
questo omaggio a Carmiana, un'ancella che aveva imparato lo stile della
regalità dalla sua regina
Nell'Elena
si trova l'espressione
"per gli schiavi nobili" ( gennaivoisi douvloi~, v. 1641) che lascia
un’eco in Terenzio: propterea quod
servibas liberaliter (Andria, v.
38), poiché facevi lo schiavo con animo libero.
Viceversa
molti sedicenti o presunti personaggi
nobili o importanti, o vincenti, ricchi e famosi sono dei servi. Ne
abbiamo visti diversi due sere fa nella vergognosa trasmissione di Formigli.
Difficile est saturam non
scribere (…) facit indignatio versum (Giovenale, I, 30 e I 79)
Bologna
1 maggio ore 11, 49 giovanni ghiselli. Oggi è la festa del lavoro e la
festeggio lavorando in modo che tristezza e noia non rechin l’ore, date le offerte
di rapporti umani ora vigenti.
[1]S.
Mazzarino, Il Pensiero Storico Classico
, Laterza, Bari, 1974. p. 136 III vol.
[2]Denunciato
da Pasolini negli Scritti corsari ,
Garzanti, Milano, 1975, pp. 285-286:" E' in corso nel nostro paese, come
ho detto, una sostituzione di valori e di modelli, sulla quale hanno avuto
grande peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la televisione.
Con questo non sostengo affatto che tali mezzi siano in sé negativi: sono anzi
d'accordo che potrebbero costituire un grande strumento di progresso culturale;
ma finora sono stati, così come li hanno usati, un mezzo di spaventoso
regresso, di sviluppo appunto senza progresso, di genocidio culturale per due
terzi almeno degli italiani".
[3]Echeggio,
non per caso l'Enrico V di Shakespeare : il re prima della battaglia
di Agincourt (1415) esorta se stesso e i suoi con un discorso che culmina con
il noto e quasi paradossale makarismov":
"We few, we happy few, we band of
brothers "(IV, 3), noi pochi, noi fortunati pochi, noi schiera di
fratelli.
[4]Cfr.
Edipo re , v. 910:" e[rrei de; ta; qei'a".
[5]La vita di Vittorio Alfieri scritta da esso
, Epoca terza, cap. VII.
[6]Parerga E Paralipomena , Tomo II, p.
593. Scopenhauer nel luogo citato aggiunge che "L'esagerazione in ogni
caso è il tratto essenziale del giornalismo come dell'arte drammatica: bisogna,
infatti, ricavare il più possibile da ogni avvenimento. Per queta ragione,
tutti i giornalisti sono, dato il loro mestiere, degli allarmisti: è il loro
modo di rendersi interessanti. Essi somigliano in ciò a dei botoli, che, appena
sentono un rumore, si mettono ad abbaiare con impeto".
[7]Dialogo di Tristano e di un amico .
[8]Mazzarino,
op. cit., p.
[9]Traduzioni
approvate, da Montaigne (1533-1592) che,
qualche anno più tardi, scrive nei Saggi :" Io do giustamente, mi sembra, la
palma a Jacques Amyot su tutti i nostri scrittori francesi, non solo per la
semplicità e la purezza del linguaggio, nella quale supera tutti gli altri, né
per la costanza di un così lungo lavoro, né per la profondità del suo sapere,
poiché ha potuto volgarizzare così felicemente un autore tanto spinoso...ma
soprattutto gli sono grato di aver saputo discernere e scegliere un libro tanto
degno e tanto appropriato per farne dono al suo paese. Noialtri ignoranti
saremmo stati perduti se questo libro non ci avesse sollevato dal pantano;
grazie a lui, osiamo ora e parlare e scrivere; le signore ne dànno lezione ai
maestri di scuola; è il nostro breviario"(II, 4, pp. 467-468).
[10]In
Canetti
Opere 1932-1973 , trad. it. Bompiani, Milano, 1990, p. 1812.
[11]Aut-
Aut in Kierkegaard Opere
, p. 12.
[12]Epistolario , novembre 1883, p. 204.
[13]18
ottobre 1797.
[14]
Del 1781
[15]Traduzione
di L. Ruggieri.
[16]
Tipo del grande ribelle
[17]
Cfr. il sapere che si verifica-diventa
vero- nel potenziamento del nostro carattere
e del nostro vivere.
[18]
Capitolo I
[19]
Capitolo II
[20]
Capitolo V
[21]
Capitolo VI.
[22]
Nietzsche, Cosiderazioni inattuali, II,
capitolo I
[23]Nietsche,
Utilità e danno della storia ,
capitolo X.
[24]Nietsche,
Op. cit., capitolo X.
[26]Musti,
Storia greca , p. 629.
[27]Il Pensiero Storico Classico , III vol.,
p. 171.
[28]Canfora,
Storia Della Letteratura Greca , p.
558.
[29]Opera
e pagina citate sopra.
[30]Avvenuta
nel 96 d. C.
[31]P.
Desideri, Lo Spazio Letterario Della
Grecia Antica , Vol. I, Tomo III, p. 22.
[32]Vita di Demostene , 2.
[33]
Civiltà sotto pocesso del 1948.
[34]
L. Canfora, Prima lezione di storia greca,
p. 67.
[35]Pagina
44.
[36]Pagine
990-991.
[37]Morto
nel 337 d. C.
[38]Zibaldone , pp. 992-996.
[39]
A. Momigliano, La storiografia greca,
p. 267.
[40]Vescovo
di Cesarea e amico dell'imperatore Costantino, autore, tra l'altro, di questa
storia universale e parallela di vari popoli
con una tavola sincronica che giungeva fino al 303 d. C.. Ne rimangono
frammenti in greco e larghi passi in traduzione latina.
[41]M.
Yourcenar, Memorie di Adriano , p.
73.
[42]Cfr.
An seni sit gerenda res publica , 16,
[43]Canfora,
op. cit., p. 559.
[44]Senza
contare quelli molto probabilmente apocrifi.
[45]Apologia di Socrate , 20d.
[46]Saggi , II, 31, p. 947.
[47]Saggi , II, 10, pp. 532-533.
[48]Citazione
dall'Iliade :"oJvsso" e[hn oi'Jov" te",
24, 630, detto di Achille.
[49]G.
Camassa, Lo Spazio Letterario Della
Grecia Antica , Vol. I, Tomo III, p. 329.
[50]Fr.
579 Nauck, v. 1.
[51]
I, 24:"kai; toi'si ejselqei'n ga;r
hjdonh;n eij mevvlloien ajkouvsesqai tou' ajrivstou ajnqrwvpou ajoidou'".
[53]
Storie , Praefatio, 10.
[54]Il mestiere di vivere , 29 settembre
1946.
[55]
P. P. Pasolini, Lettere luterane, I
giovani infelici, pp. 5-12.
[56]
Shakespeare nostro contemporaneo,
passim
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