mercoledì 30 giugno 2021

Moena marzo 1981. 26. La parassita

stazione di Affi
Poco più tardi, viaggiando verso Bologna, l'accordo tra i demoni nostri si ruppe, senza una causa precisa; forse perché uno dei due non è buono, oppure perché sono cattivi entrambi, in maniera diversa per giunta; fatto sta che litigammo di nuovo, e i benefici di quel pomeriggio fatato andarono in fumo.

Mentre guidavo, pensavo alle prossime lezioni nella quarta ginnasio, con scarso entusiasmo invero; quindi, per necessaria compensazione, meditavo sull'opera letteraria che avrei iniziato presto: un dramma, o un romanzo  con due amanti tragicamente travagliati e ostacolati da iniquità sociali, nevrosi e contraddizioni personali, ma alla fine trionfanti nel sole dell'Amore e della Giustizia.

Mi compiacevo di tale disegno e di tanto ottimismo. Bisognava però trovare le forme e antivedere in modo non vano l'esito della nostra esperienza: in quale maniera avremmo dovuto stimolarci noi due per arrivare allo scopo grandioso di spingere un popolo intero al bello morale? La comes, da compagna di viaggio poco presente, sonnecchiava sebbene non fosse tardi.

Di sua iniziativa non diceva parola, e, quando le domandavo qualcosa, rispondeva, or sì or no, a monosillabi. Alla lunga mi diede fastidio, e un poco alla volta i sentimenti amorosi si dileguarono. Mi venne in mente un altro viaggio, fatto in tempi meno malsani: allora la ragazza mi aveva raccontato che sua madre, durante le ore di guida del marito sui lunghi percorsi autostradali, invece di aiutarlo a vincere il sonno nemico parlando con lui, dormiva, o fingeva di farlo, poiché non aveva niente da dirgli. La stessa scappatoia prendeva mia madre quando vedeva mio padre, vago di ciance, protendere un braccio con gesto elocutorio. Al pensiero che tale situazione parentale si ripetesse tra noi, mi venne l'angoscia. Volli provare se questa fosse scaturita solo dagli antichi dolori miei, o se avesse una causa nella realtà che stavo vivendo. Domandai a bassa voce: "Dormi tesoro?"

"No - rispose con aria stanchissima e pigra - ma ho tanto sonno".

"Ho sonno anche io - ribattei, quasi polemicamente - ci facciamo compagnia per un poco?".

"No: ho troppo sonno. Ti prego, lasciami dormire".

Non le chiesi altro; avevo già provato a me stesso che la pena mia era stata causata dal solito suo atteggiamento parassitario: se eravamo entrambi assonnati, non capivo perché io dovessi sgobbare e lei dormire, o fingere di dormire. La necessaria Musa, davanti a me si toglieva ancora le mutande odorose di spezie profumatissime generate dal ventre suo, grazie a Gesù, però con me non voleva parlare più, poiché non mi amava.

Questo pensiero, dopo le radiose speranze del pomeriggio, mi rodeva di nuovo come un tarlo dentro il cervello. "E' il suo egoismo colossale, schifoso, a guastarmi l'umore, a darmi l'angoscia, a corrompere ogni gioia mia che non condivide, come non vuole collaborare a niente di serio e impegnativo".

Ero pieno di risentimento. Alla stazione Affi, lago di Garda sud , mi fermai per un caffé, senza invitarla. Quando fui tornato ed ebbi ripreso a guidare, Ifigenia doveva avere capito qualche cosa del mio stato d'animo, e  preoccupata, per sé naturalmente, alzò la testa e mi chiese: "Allora di cosa vuoi che parliamo?"

"Del mio capolavoro", dissi con tono secco e astioso. Poi tacqui.

Ma dopo qualche secondo, siccome la Musa nemica non sembrava intenzionata a fare altre domande, aggiunsi una provocazione che era anche una mezza dichiarazione di guerra.

"Voglio scrivere un'opera d'arte sulla nostra storia; così quando, assai presto,

sarà finita del tutto ne resterà il ricordo".

A questo punto la ragazza si svegliò completamente e domandò irritata: "Dunque? Che  cosa posso fare per te?"

Allora io, per bilanciare i toni della conversazione che speravo continuasse almeno fino a Mantova est, con voce addolcita risposi: "Tu potresti leggere gli appunti di questi ultimi due anni, non sono molti, e sottolinearne, magari commentarne le parti degne di entrare, rielaborate, nel nostro capolavoro".

Speravo in una risposta conciliante, invece avevo  scatenato anche il risentimento suo, e il demone funesto della nostra competizione cattiva. Infatti rispose: "Se avrò tempo, li leggerò dopo l’ esame di recitazione. Fino a tutto luglio non posso: devo pensare ai compiti verso me stessa, prima di assecondare la tua volontà di successo".

"Senti come ha imparato la parte della Nora di Ibsen ", pensai [1].

"Ho capito", risposi, e non le rivolsi più la parola. Mi ripugnava tanto parassitismo, il suo recitare evidente e continuo, la volontà di sfruttamento di quel rospo velenoso rivestito del corpo di Venere. Da me aveva appreso e preso tutto quanto le era stato possibile, e in cambio non voleva darmi più niente. Eppure anche dai suoi rifiuti potevo imparare, almeno finché la sofferenza del precipitare indietro, nella brutalità del risentimento ferino, non fosse diventata inutilmente deleteria.

Allora mi sarei fatto lasciare e avrei cominciato a scrivere.

Arrivati a Bologna, la scaricai davanti al cancello, senza aiutarla a portare i bagagli davanti alla porta del suo appartamento: la salutai freddamente dall'automobile. Imparare soffrendo, sì; ma farsi calpestare, no, nemmeno dall'aurea Afrodite. La odiavo. Tornai a casa mia dove sentii di essere del tutto solo nel mondo.

Quando si è giovani fa una brutta impressione, poi ci si abitua.

Alla mia età di oggi l’unico amore è quello della sopravvivenza cum dignitate. Non mi lamento. 

 

  

[1] Cfr. Casa di bambola, ultima scena.

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