venerdì 18 giugno 2021

Eros/Eris. Percorso completo

Eros ed Eris
da Typus Mundi, 1697
PER VISUALIZZARE IL GRECO SCARICA IL FONT HELLENIKA QUI E GREEK QUI


Parte prima

Eros-Eris. Capitolo I. Testimonianze sparse

 

"Eros si associa a Eris, Lotta, quella Eris che Esiodo, nelle Opere e Giorni , colloca "alle radici della terra" (v. 19)"[1].

 

 Tolstoj

 Nel grande amore di Anna Karenina  e Vronskij a un certo punto entra la cattiva Eris, ossia lo spirito della competizione distruttiva dovuta al fatto che lui era in allarme per la propria autonomia minacciata dall'amante; ella a sua volta si sentiva trascinata da una forza oscura verso la discordia:" lei fu contenta di quell’invito alla tenerezza. Ma una strana forza non le permetteva di abbandonarsi alla propria inclinazione, come se le condizioni della lotta non le permettessro di sottomettersi (…) sentì che, a fianco dell'amore che li univa, fra loro si era insediato un certo malvagio spirito di dissidio e che lei non poteva scacciarlo dal cuore di lui, né, ancor meno, dal proprio"[2].

 Perfino le espressioni di approvazione diventano sospette e allarmanti quando l'amore, in uno solo dei due, è in fase calante.

"C'era qualcosa di offensivo nel fatto che egli avesse detto:"Questo sì che va bene", come si dice ai bambini quando smettono di fare i capricci; e ancor più offensivo era quel contrasto fra il tono di colpa che aveva lei e quello sicuro di sé di lui: e per un istante Anna sentì sollevarsi dentro di sé il desiderio di lotta; ma, fatto uno sforzo su se stessa, lo soffocò e accolse Vrònskij con la stessa allegria di prima" 

Tuttavia la simulazione non regge:" anche sapendo che si rovinava, non poté non fargli vedere quanto lui avesse torto, non poteva sottomettersi" (Anna Karenina parte ottava, capitolo XXIV),

Capita spesso, quasi sempre purtroppo, che gli amanti diventino nemici.

 

Lo rileva già Ovidio

"Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido;/Attice, crede mihi, militat omnis amans "(Amores, I, 9, 1-2), è un soldato ogni amante; anche Cupido ha il suo campo di guerra; Attico, credimi, ogni amante è un soldato

 

Alcune altre testimonianze sparse  qua e là nei secoli

 In Le nozze di figaro  di Mozart-Da Ponte (del 1786) Marcellina in un'aria (IV, 5) lamenta l'ostilità degli uomini verso le donne. Sono gli unici maschi del mondo a odiare le femmine della loro specie:" Il capro e la capretta/son sempre in amistà./L'agnello  all'agnelletta/ la guerra mai non fa./ Le più feroci belve/per selve e per campagne/lascian le lor compagne/in pace e in libertà./ Sol noi, povere femmine,/che tanto amiam quest'uomini/trattate siam dai perfidi/ognor con crudeltà".

 

In D'Annunzio la donna non poche volte è  la nemica, come Ippolita Sanzio lo è di Giorgio Aurispa nel Trionfo della morte   (del 1894) di cui cito la conclusione :" Fu una lotta breve e feroce come tra nemici implacabili che avessero covato fino a quell'ora nel profondo dell'anima un odio supremo. E precipitarono nella morte avvinti".

 

Riferisco anche, per dare un esempio meno noto, alcuni versi di una poesia,  di uno dei massimi poeti ungheresi del Novecento, Endre Ady (1877-1919):" Sono le nostre ultime nozze:/Ci strappiamo la carne a colpi di becco/e cadiamo sul fogliame d'autunno" ( Nozze di falchi sul fogliame secco) [3].

 

Fa rabbrividire, forse perché non è del tutto falsa, una sentenza tragica del misogino suicida C. Pavese"Sono un popolo nemico, le donne, come il popolo tedesco"[4]. E pure, con un pessimismo meno esteso ma più personalizzato:"Sono tuo amante, perciò tuo nemico"[5]. Più avanti c'è invece una riflessione cosmica che può spiegare questa ostilità interna alla coppia:" Il mito greco insegna che si combatte sempre contro una parte di sé, quella che si è superata, Zeus contro Tifone, Apollo contro il Pitone. Inversamente, ciò contro cui si combatte è sempre una parte di sé, un antico se stesso. Si combatte soprattutto per non essere qualcosa, per liberarsi. Chi non ha grandi ripugnanze, non combatte"[6].

 

 

C'è un romanzo di M. Kundera, non uno dei più conosciuti, che ha un breve capitolo intitolato "La lotta"; ed è lotta tra i sessi che viene presentata così:" Neanche lei pensava al piacere e all'eccitazione. Si diceva: non ti lascerò, non mi scaccerai, lotterò per tenerti. E il suo sesso che si muoveva su e giù si era trasformato in una macchina da guerra che lei aveva messo in moto e guidava. Si diceva che quella era la sua ultima arma, l'unica che le era rimasta, ma onnipotente. Al ritmo dei suoi movimenti ripeteva fra sé, come il basso ostinato in una composizione musicale: lotterò, lotterò, lotterò, e credeva di vincere (...) Il sesso di Laura si muoveva con forza su e giù. Laura lottava. Lottava per Bernard. Ma contro chi? Contro colui che stringeva a sé e poi di nuovo respingeva, per costringerlo ad assumere un'altra posizione. Questa ginnastica estenuante sul divano e sul tappeto, che li bagnava di sudore, che li lasciava senza fiato, assomigliava alla pantomima di una lotta spietata: lei lottava e lui si difendeva, lei dava ordini e lui ubbidiva"[7].

 

 Lucrezio aveva già descritto questa lotta

"sic in amore Venus simulacris ludit amantis/nec satiare queunt spectando corpora coram/nec manibus quicquam teneris abradere membris/possunt errantes incerti corpore toto./Denique cum membris collatis flore fruuntur/aetatis, iam cum praesagit gaudia corpus/atque in eost Venus ut muliebria conserat arva,/adfigunt avide corpus iunguntque salivas/oris et inspirant pressantes dentibus ora,/nequiquam, quoniam nil inde abradere possunt/nec penetrare et abire in corpus corpore toto;/nam facere interdum velle et certare videntur:/usque adeo cupide in Veneris compagibus haerent,/ membra voluptatis dum vi labefacta liquescunt " (De rerum natura, IV, vv. 1101-1114),  così nell'amore Venere con i simulacri beffa gli amanti, né possono saziarsi rimirando i corpi presenti, né con le mani possono raschiare via nulla alle tenere membra, mentre errano incerti per tutto il corpo. Infine, come, congiunte le membra, godono del fiore della giovinezza, quando già il corpo pregusta il piacere e Venere è sul punto di seminare i campi della femmina, inchiodano avidamente il corpo e mescolano le salive della bocca, e ansimano premendo coi denti le labbra, invano poiché di lì non possono raschiare via niente, né penetrare e sparire nel corpo con tutto il corpo, infatti sembrano talvolta volere farlo lottando: a tal punto sono avidamente attaccati nei lacci di Venere, mentre le membra sdilinquite dalla violenza del piacere si struggono.

Un apparato lussuoso non basta ad annientare l’angoscia insita nel rapporto amoroso.

Eximia veste et victu convivia, ludi, /pocula crebra, unguenta coronae serta parantur, /nequiquam, quoniam medio de fonte leporum/surgit amari aliquid quod in ipsis floribus angat ..." (vv. 1131-1134):"si preparano conviti con apparato e portate sfarzose, giochi, tazze fitte, profumi, corone. ghirlande, invano poiché dal mezzo della sorgente dei piaceri sgorga qualche cosa di amaro che angoscia persino in mezzo ai fiori.-"

 

Proelium amoroso popiziato dal vino e privo di angoscia è quello promesso da Fotide a Lucio nel romanzo di Apuleio

prima face cubiculum tuum adero. Abi ergo ac te compara, tota enim nocte tecum fortiter et ex animo proeliabor” (Metamorfosi, II, 10), appena farà notte verrò in camera tua. Vai dunque e preparati, per tutta la notte infatti io mi batterò con te fortemente e mettendocela tutta.

 

Aggiungo un altro contributo comparativistico: in Il castello  di Kafka viene descritta una copula del genere per denunciare l'impossibilità o l'impotenza dell'amore tra K. e Frieda:"poiché la seggiola era accanto al capezzale, vacillarono e caddero sul letto. E lì giacquero, ma non con l'abbandono di quella prima notte. Lei cercava qualcosa, e lui pure, e ciascuno, furente e col viso contratto, cercava, conficcando il capo nel petto dell'altro: né i loro amplessi né i loro corpi tesi li rendevan dimentichi, ma anzi li richiamavano al dovere di cercare ancora; come i cani raspano disperatamente il terreno, così essi scavavano l'uno il corpo dell'altro, e poi, delusi, smarriti, per trovare un'ultima felicità, si lambivano a volte con la lingua vicendevolmente il viso. Solo la stanchezza li pacificò e li riempì di mutua gratitudine. Poi sopraggiunsero le due serve. "Guarda quei due sul letto" disse l'una, e per compassione li coprì d'un lenzuolo"[8].-

 

giovanni ghiselli 5 giugno ore 12

 

Capitolo II

Amore e guerra.

Alcuni verbi greci sono significativi di tale associazione.

"Meignumi , "unirsi sessualmente", significa anche mescolarsi, incontrarsi in battaglia. Quando Diomede "si mescola ai Troiani", vuol dire che viene alle mani, a distanza ravvicinata, con loro...Stessa cosa per damazo, damnemi : soggiogare, domare. Uno doma una donna che fa sua, come doma il nemico cui dà la morte"[9].

Meignumi-e mivgnumi-mescolo; nella diatesi passiva significa “mi azzuffo” e pure “mi unisco in amore”.

 

Amore è un combattente invincibile

Il terzo Stasimo dell’Antigone di Sofocle è  un inno a Eros, invincibile in guerra, capace di abbattersi su tutti  e di riposare sulle morbide guance delle ragazze. Egli è in movimento sul mare e nelle dimore agresti; è inevitabile da parte dei mortali e degli immortali che vengono resi folli da lui. Amore può traviare le menti dei giusti e renderle ingiuste, può spingere i consanguinei alla contesa, quando il desiderio degli occhi di una fanciulla detta legge, poiché in quella luce c'è qualche cosa di divino.

Leggiamo la prima strofe.

Eros invincibile in battaglia,/Eros che sul bestiame ti abbatti,/che nelle morbide guance/della fanciulla trascorri la notte,/vai e vieni tanto sul mare quanto/nelle agresti dimore:/e degli immortali nessuno ti sfugge/né degli uomini effimeri;/ma chi ti possiede è impazzito" vv. 781-790. 

 

 "In realtà contro Eros non esiste rimedio ("  [Erwto" ga;r oujde;n favrmakon") né pozione né pasticca né incantesimo se non il bacio, l'abbraccio e stendersi insieme con i corpi nudi"[10].

 

Sofocle  nelle Trachinie  fa dire a Deianira che chiunque si alzi come un pugile per venire alle mani con Eros, non ha la testa a posto ( "ouj kalw'" fronei'", v. 442). Eros domina anche gli dèi e domina me e domina tutti. Sarei pazza a biasimare mio marito se è stato lasciato in balia di questo male e se ritenessi colpevole questa donna –Iole- per una passione che non è vergognosa e non mi fa del male.

 

 Anacreonte aveva bisogno di alterarsi la mente con il vino per lanciare una sfida di pugilato a Eros:"fevr j u{dwr, fevr j oi\non, w\ pai',...-pro;"  [Erwta puktalivzw" (fr. 27 D.), porta l'acqua, porta il vino, ragazzo, voglio fare a pugni con Eros.

 La guerra a volte viene fatta da Eros contro gli amanti concordi, a volte dagli amanti tra loro per sopraffarsi a vicenda.

 

L' Oreste dell' Elettra  di Sofocle ricorda alla sorella che c'é un Ares anche nelle donne:"kajn gunaixi;n... [Arh"-  e[nestin" (vv. 1243-1244). Il riferimento è alla loro madre assassina del marito ovviamente, ma il suo non è certo l'unico caso di connubio conflittuale e criminale.

 

Alla dea Afrodite che, fin dal primo verso[11] dell'Ippolito  di Euripide, si presenta come divinità possente e non senza fama, la  nutrice di Fedra attribuisce una forza d'urto ineluttabile  :" Kuvpri" ga;r ouj forhto;n h]n pollh; rJuh'/" (v. 443), Cipride infatti non è sostenibile quando si avventa con tutta la forza. Ella si accosta con mitezza a chi cede, ma fa strazio di chi trovi altero e arrogante. 

 

L'amore come guerra, fuoco che arde e squilibrio è affermato pure  da Terenzio (190ca-159ca a. C.) nell'Eunuco :"In amore haec omnia insunt vitia : iniuriae,/suspiciones, inimicitiae, indutiae, bellum, pax rursum: incerta haec si tu postules/ratione certa facere, nihilo plus agas/quam si des operam ut cum ratione insanias " (vv. 59-63), nell'amore ci sono tutti questi difetti: offese, sospetti, litigi, una tregua, la guerra, di nuovo la pace: se tu cerchi di mettere in ordine sicuro queste cose incerte, non fai di meglio che se ti adoperassi per fare il pazzo ragionevolmente, dice lo schiavo Parmenione al giovane Fedria innamorato, il quale risponde:"et taedet et amore ardeo, et prudens sciens,/vivos[12] vidensque pereo, nec quid agam scio " (vv. 72-73), non ne posso più e brucio d'amore, lo so e capisco e sono vivo e vedo e muoio, e non so che fare.

 

Amore e ferite

Nella letteratura latina la ferita d'amore appare già nella Medea exul  di Ennio che traduce questo verso della Medea  di Euripide:" e[rwti qumo;n ejkplagei's j  jIavsono"" (v. 8), colpita nel cuore dall'amore di Giasone, accentuandone il pathos con l'allitterazione:"Medea animo aegro amore saevo saucia ", (v. 9), Medea dall'animo sofferente, ferita da un amore crudele. Un aggettivo che diverrà topico per indicare le ferite inflitte da Afrodite o da suo figlio.

 

Secondo Lucrezio perfino Marte "armipotens " viene vinto aeterno… vulnere amoris , dall'eterna ferita dell'amore.

In effetti questo Marte vinto dalle ferite è rovesciato rispetto a quello usuale che le infligge  e su questo capovolgimento insistono i termini scelti dall'autore. Vediamo  alcuni versi dell'inno a Venere:" Nam tu sola potes tranquilla pace iuvare/mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors/armipotens regit,  in gremium qui saepe tuum se/reicit aeterno devictus vulnere amoris ,/ atque ita suspiciens tereti cervice reposta/pascit amore avidos inhians in te, dea, visus,/eque tuo pendet resupini spiritus ore"  (De rerum natura, I, vv. 31-37), Infatti tu sola puoi con una pace tranquilla aiutare/i mortali, poiché le feroci opere della guerra governa/Marte, signore delle armi, che spesso si rovescia nel tuo/grembo, vinto dall'eterna ferita dell'amore,/e così guardando da sotto, con la il liscio collo gettato all’indietro,/pasce d'amore gli avidi occhi agognandoti, o dea /e il respiro di lui resupino dipende dalla tua bocca.

 Si può notare come Mavors (arcaico per Mars ) si esponga alle ferite lasciando scoperta e rivolta all'amante la parte più tenera del corpo, la gola, quella attraverso cui nell'Iliade risonante di battaglie i guerrieri marziali vengono uccisi più frequentemente.

 Insomma make love, not war come si diceva nel '68. Ma il proemio è in un certo senso fuoritesto rispetto al poema. Più avanti, infatti come vedremo, l’amore provoca non solo ferite ma anche piaghe agli amanti mortali.

 

 La personificazione mitologica e superstiziosa del tormento amoroso dei mortali è costituita da Tizio:"Sed Tityos nobis hic est, in amore iacentem/quem volucres lacerant atque exest anxius angor " (De rerum natura, III, 992-993), ma  Tizio è qui in noi, quello che, prostrato nell'amore, gli uccelli dilaniano e un angoscioso affanno divora.

Le pene infernali della mitologia sono in realtà immaginazioni dovute alla mancata visione razionale della natura

La conclusione è hic Acherusia fit stultorum denique vita (III, 1023), qui diventa infernale la vita degli stolti al postutto

Noi a volte tremiamo come i bambini che hanno paura di tutto nel buio "trepidant atque omnia caecis/in tenebris metuunt "(II, 55-56).

Tali tenebre le può dissipare solo"naturae species ratioque "(II, 61) la visione razionale della natura.

 "La pena di Tizio-il gigante ucciso da Apollo per aver insidiato Latona, e disteso nel Tartaro col fegato continuamente roso dagli avvoltoi- è per Lucrezio, come sarà pure per Orazio (carm. 3, 4, 77-79; cfr. Servio, ad Aen. 6, 596), allegoria dell'angosciosa passione amorosa, la cupido"[13].

 

Ma i versi più dolorosi sull'amore sono quelli del libro successivo, il quarto, dove il termine vulnus, ferita, non basta più e il segno lasciato dall'ansia erotica diviene una piaga che potrebbe diventare mortale se non curata :"Ulcus enim vivescit et inveterascit alendo/inque dies gliscit furor atque aerumna gravescit,/si non prima novis conturbes vulnera plagis/vulgivagaque vagus Venere ante recentia cures/aut alio possis animi traducere motus " ( De rerum natura, IV, 1068-1072), la piaga infatti si ravviva e vigoreggia a nutrirla,  la smania cresce di giorno in giorno, e l'angoscia si aggrava, se non confondi le antiche ferite con nuovi colpi, e le recenti non  curi in anticipo vagando con una Venere vagabonda o ad altro oggetto tu non drizzi i moti dell'animo.

Nei primi due versi "le due coppie allitteranti di incoativi, qui più che mai progressivi, si succedono in crescendo (...) simbolo fonico dell'inarrestabile crescere della passione" (Traina 1979, 279-25). Il linguaggio erotico lucreziano oscilla tra il tovpo" dell'amore-ferita (il peggiorativo e prosastico ulcus  sostituisce il nobile ed epico vulnus ; cfr. vv. 1048-1055) e il tovpo" dell'amore-follia"[14].

L'allitterazione in "v" del penultimo verso suggerisce il suono di un soffio che passa sulle ferite cercando di asciugarle.

 E' da notare che tanto il termine ulcus  (IV, 968) quanto il nesso anxius angor  (III, 993) tornano alla fine del poema lucreziano nella descrizione della peste di Atene del 430 (VI, 1148 e 1158).

 

Ammesso che Amore infligga delle ferite, bisogna dire che queste, se comprese, possono diventare un bene: "una ferita è un'apertura. Una ferita è anche una bocca. Una qualche parte di noi sta cercando di dire qualcosa. Se potessimo ascoltarla! Supponiamo che queste "intensità sconvolgenti" siano una sorta di messaggio: sono "cicatrici", ferite, che segnano la nostra vita. Tutti le sentiamo. E se non le sentiamo, siamo solo bambini, solo innocenza. Si tratta piuttosto di rendersi conto che la vita è una serie di iniziazioni, e questa è un'iniziazione in più. Un'altra apertura a qualcosa che mette alla prova la nostra vitalità. Che sonda la nostra capacità di comprensione. Che espande la nostra intelligenza"[15].

 

Insomma è il tw/' pavqei mavqo" di Eschilo[16], attraverso la sofferenza, la comprensione, che H. Hesse esprime così:"Profondamente sentì in cuore l'amore per il figlio fuggito, come una ferita, e sentì insieme che la ferita non gli era stata data per rovistarci dentro e dilaniarla, ma perché fiorisse in tanta luce"[17].

 

Bologna 5 giugno 2021 ore 18, 54

giovanni ghiselli

 

 

Parte III

Orazio, Properzio, Tibullo

 

Orazio nell'Ode 26 del terzo libro[18], nello stesso tempo scherzosa e malinconica, impiega la metafora della milizia d'amore dichiarando il suo addio alle armi che,  come la lira usata per sedurre, saranno appese alla parete del tempio di Venere:"Vixi puellis nuper idoneus/et militavi non sine gloria;/nunc arma defunctumque bello/barbiton hic paries habebit " (26, 1-4) sono vissuto fino a poco fa idoneo alle ragazze, e ho fatto il servizio militare non senza gloria: ora questa parete avrà le armi e  la lira che ha compiuto la guerra.

Più tardi, nella prima Ode del quarto libro[19] il poeta arrivato intorno alla cinquantina (circa lustra decem , v. 6) chiede a Venere di risparmiargli la guerra:"Intermissa, Venus, diu/rursus bella moves?  Parce, precor, precor " (vv. 1-2),  dopo lunga tregua, Venere, mi fai di nuovo  guerra? Risparmiami, ti prego, ti prego. Il secondo verso "si configura come una ajpopomphv, cioè come una preghiera destinata ad allontanare da chi prega il pericolo proveniente da una divinità"[20].

Il pericolo è costituito dai dardi dell'amore.

Orazio è contemporaneo dei poeti elegiaci, ossia scrive nei decenni nei quali va definendosi il modo di considerare il rapporto dell'uomo con la donna. Nel poeta di Venosa, a differenza che in Catullo (il quale precorre gli elegiaci), non c'è una donna che accentra l'attenzione: egli, come scrisse Pasquali, vola di fiamma in fiamma senza bruciarsi le ali.

Anche nel poeta di Venosa tuttavia c'è il mal d'amore: vediamo l' Ode I, 19 per Glìcera. La prima strofe (asclepiadea IV) mette il rilievo fin dal suo incipit la dura crudeltà di Venere:" Mater saeva Cupidinum/Thebanaeque iubet me Semĕlae puer/et lasciva Licentia/finitis animum reddere amoribus"( vv. 1-4), la madre crudele degli Amori e il figlio della Tebana Semele-Semevlh- e la Licenza sfrenata mi impongono di ridare il mio animo ad amori finiti. Il puer è Bacco poiché il vino è viatico per l'amore come si legge in Apuleio ( L'asino d'oro , II, 11).

Nella contrasto tra iubet me  e lasciva Licentia  vediamo una delle  contraddizioni dell'amore: quando siamo innamorati vogliamo libertà e servitù assoluta nello stesso tempo.  

 Nella seconda strofe  c'è una fiamma che divora:"urit me Glycĕrae nitor/splendentis Pario marmore purius,/urit grata protervitas/et voltus nimium lubrĭcus adspici " (Ode, I, 19, vv. 5-8), mi infiamma il fulgore di Glìcera il quale brilla più splendidamente del marmo Pario, mi infiamma la sfrontatezza gradita e il volto troppo pericoloso a guardarsi. L'anafora di urit  mette in rilievo la forza del fuoco e anche se il nome della donna contiene la dolcezza[21], il suo volto lubrico è un rischio per il poeta che può scivolarci sopra[22].

Nella terza strofe successiva l'innamoramento è visto come un assalto subìto:"in me tota ruens Venus/Cyprum deseruit nec patitur Scythas/et versis animosum equis/Parthum dicere nec quae nihil attĭnent " (vv. 9-12), Venere lanciandosi tutta contro di me ha lasciato Cipro, e non permette che io canti gli Sciti e il Parto audace sui cavalli girati né ciò che non la riguarda.  Venere tota ruens  è come Cipride nell'Ippolito citato sopra (v. 443) e come Eros dell'Antigone  che si abbatte su quello che trova (pivptei" v. 782) giacché amor omnibus idem  come scrive Virgilio"(Georgica III, v.244).

Sicché Orazio innamorato è del tutto pervaso da questa divinità crudele, è già in guerra con lui, e non può dedicarsi a cantare altre guerre, quelle esterne. Nell'ultima strofe il poeta si dispone a riti propiziatori per mitigare la divinità crudele che esige sacrifici:"hic vivum mihi caespitem, hic/verbēnas, pueri, ponite turaque/bini cum patĕra meri:/mactata veniet lenior hostia" (Ode, I, 19, vv. 13-16), ponetemi qui una zolla viva, ragazzi, qui ramoscelli ponete e incenso con una tazza di vino dell'altro anno: verrà più mite una volta ammazzata la vittima.   

 

Cipride stessa vanta la propria potenza entrando in scena all’inizio dell’Ippolito di Euripide “ Pollh; me;n ejn brotoi'" koujk ajnwvnumo"-qea; kevklhmai Kuvpri~, oujranou' t j e[sw ( vv. 1-2),  grande e non oscura dea, sono chiamata Cipride, tra i mortali e nel cielo.

Nel primo episodio la  nutrice di Fedra le attribuisce  una forza d'urto ineluttabile:" Kuvpri" ga;r ouj forhto;n h]n pollh; rJuh'/" (v. 443), Cipride infatti non è sostenibile quando si avventa con tutta la forza.

 La potenza di Cipride viene celebrata anche all'inizio della Parodo delle Trachinie di Sofocle:"mevga ti sqevno" aJ Kuvpri" ejkfevretai-nivka" ajeiv" (vv. 497-498), Cipride porta con sé una grande potenza, sempre vittorie.

 

Il tovpo" del rapporto rischioso con un Eros crudele e ostile si trova pure, con accentuazione del dolore, in Properzio il quale dipinge Amore come un nemico armato dal quale nessuno può allontanarsi senza ricevere ferite:" Et merito hamatis manus est armata sagittis,/ et pharetra ex umero Gnosia utroque iacet,/Ante ferit quoniam, tuti quam cernimus hostem, /nec quisquam ex illo vulnere sanus abit " (II, 12, 11- 12), giustamente la mano è armata di frecce uncinate, e dai due omeri pende una faretra cretese, poiché ferisce prima che noi al riparo vediamo il nemico né alcuno scampa immune da quella ferita.   Il poeta ne è già stato colpito al punto che il dio fa una guerra continua dentro il suo sangue:" Assiduusque meo sanguine bella gerit" (v. 16). Amore dovrebbe vergognarsi di tanto accanimento e  scagliare i suoi dardi contro qualcun altro:" Si pudor est, alio traice tela tua " (v. 18). Oramai è l'ombra sottile di Properzio, non più la persona che busca bastonate:"non ego, sed tenuis vapulat umbra mea" (20). Se il canto deve continuare dunque bisogna che almeno l'umbra non vada perduta e Amore smetta di menare colpi.

Amore è sempre armato e ponto a  infliggere ferite

Nel Pervigilium Veneris  che celebra l'inizio della primavera e la potenza di Afrodite, Amore è in vacanza ("feriatus est amor ", v. 31) perciò gli è stato ordinato di andare inerme, di andare nudo:"neu quid arcu, neu sagitta, neu quid igne laederet " (v. 33), per non ferire qualche creatura con l'arco, con la saetta, con il fuoco. Eppure, avverte l'autore, o l'autrice, "Nymphae, cavete, quod Cupido pulcher est:/ totus est in armis idem quando nudus est amor " (vv. 34-35), guardatevene o Ninfe, poiché Cupido è bello: ed è tutto armato anche quando è nudo Amore.

 

Cesare Pavese ribalta la posizione del vulnus : per lui è la vita che infligge ferite e l'amore anestetizza il dolore  :"Perché il veramente innamorato chiede la continuità, la vitalità (lifelongness) dei rapporti? Perché la vita è dolore e l'amore goduto è un anestetico e chi vorrebbe svegliarsi a metà operazione?” [23]

 

 

  La differenza tra Orazio e gli elegiaci è che questi non cercano di attenuare la violenza di Eros ma accettano tutti gli aspetti dolorosi della passione.

Nell'Ode I 33 di consolazione a Tibullo, Orazio allega all'amore una parola chiave della poesia amorosa che è dolere , patire il dolor, la sofferenza amorosa consigliando all'amico Albio di evitarla. Vediamo la prima stofe ( asclepiadea terza):" Albi, ne doleas plus nimio memor/immitis Glycĕrae, neu miserabilis/decantes elegos, cur tibi iunior/laesa praeniteat fide " (vv. 1-4), Albio non dolerti più  troppo memore della crudele Glìcera e non andare cantando lamentosi distici perché, violata la fedeltà, uno più giovane prevale su te con il suo splendore.

Immitis Glycerae  presenta un rapporto ossimorico tra l'aggettivo e  la dolcezza contenuta nel nome della donna.. Questo ossimoro anticipa il successivo saevo cum ioco  (v. 12): alla dea Venere con divertimento crudele piace sottomettere a gioghi di bronzo anime e aspetti incongrui.

 

 Il motivo della donna immitis  e pure domina è ricorrente nella poesia elegiaca: nel corpus Tibullianum  uno dei componimenti di Ligdamo indica un rapporto di necessità tra la padrona crudele e l'amore:"Nescis quid sit amor, iuvenis, si ferre recusas/immitem dominam coniugiumque ferum " (III, 4, 73-74), non sai cosa sia l'amore , giovane, se rifiuti di soffrire una padrona crudele e un accoppiamento feroce.

 

Tornando all'Ode oraziana (I, 33)   il verbo decantare del v. 3 allude al ripetuto, continuo piagnisteo della poesia elegiaca e così pure miserabilis= miserabiles (v. 2).

Nella seconda strofe c'è un poliptoto che significa la singolare catena d'amore nella quale chi ama non è riamato:"Insignem tenui fronte Lycorida/Cyri torret amor, Cyrus in asperam/declīnat Pholoen: sed prius Apulis/iungentur caprae lupis,//quam turpi Pholoe peccet adultero. Sic visum Veneri, cui placet imparis/Formas atque animos sub iuga aenea/Saevo mittere cum ioco " (vv. 5-12), l'amore per Ciro brucia Licorida notevole per la fronte piccola, Ciro è incline all'aspra Foloe: ma le capre si accoppieranno con i lupi apuli prima che Foloe pecchi con un amante brutto. Così è parso giusto a Venere cui sembra opportuno sottoporre a gioghi di bronzo aspetti e anime differenti con divertimento crudele. 

 

E' il tovpo" dell'amore che insegue chi fugge e viceversa.

 

quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor  (Ovidio, Amores , 2, 20, 36).

 

In torret (v. 6) ritroviamo la metafora del fuoco molto frequente nella poesia amorosa.

 L'accoppiamento di capre e lupi è un esempio di adynaton, cosa impossibile. Orazio in ogni caso non soffre troppo poiché ha capito e si è rassegnato alla tragica legge del crudele gioco erotico per la quale amiamo chi non ci ama e non amiamo chi ci ama. Sembra che capire questo, e magari riderci sopra, sia l'antidoto al dolore:"Ipsum me melior cum peteret Venus,/Grata detinuit compede Myrtale/Libertina, fretis acrior Hadriae/Curvantis Calabros sinus " (Ode I, 33, vv. 13-16), me pure, quando mi cercava un amore più degno, tenne avvinto con ceppi graditi  Mìrtale liberta, più violenta dei flutti dell'Adriatico che incurva i golfi salentini. Il giogo amoroso è accettato volentieri dal poeta.

Del resto i caratteri forse non erano troppo impares poiché Orazio nell'Ode III 9 viene definito dall'amante Lidia "improbo/iracundior Hadria " (vv. 21-22), più collerico dell'Adriatico in tempesta.

In ogni modo il rapporto amoroso è difficile quanto la traversata dell'Adriatico in tempesta. Ma vale la pena affrontarlo poiché ci aiuta a scoprire l'identità: come scrivere un libro, impresa che  "non cessa mai di essere una cosa folle, eccitante, la traversata di un oceano su un minuscolo canotto, un volo solitario attraverso il Tutto[24]".

Bologna 6 giugno 2021 ore 10, 35

giovanni ghiselli

 

Parte IV La guerra fredda tra gli amanti

Spergiuri puniti e spergiuri impuniti

 

Il tradimento della fede da parte della donna ricordato nell'Ode I 33 è topico nelle situazioni amorose dei poeti elegiaci i quali ricevono ferite da questa attitudine dell'amante.

Invano le korivnqiai gunai'ke" nel primo stasimo della Medea  di Euripide avevano protestato contro questo tipo di giudizio malevolo comune dei poeti maschi: i canti dei poeti antichi smetteranno di ripetere la storia della mia malafede ("ta;n ejma;n uJmneu'sai ajpistosuvnan ", v. 422). Dopo il tradimento di Giasone a Medea ovviamente. I poeti “moderni” hanno continuato a cantare la malafede delle donne.

  

La considerazione malevola delle donne si trova già nell'XI canto dell'Odissea quando Agamennone finito nell'Ade dopo essere stato trucidato dalla moglie in combutta con l’amante, suggerisce a Ulisse di stare molto attennto anche quando sarà tornato a Itaca:" ejpei; oujkevti pista; gunaixivn" (v. 456),  poiché non c'è più credibilità per le donne.

 Poi Esiodo nelle Opere  aveva scritto: chi si fida di una donna, si fida dei ladri (v. 375). Perciò il fratello dell'autore, Perse, doveva stare attento a non lasciarsi ingannare da una donna pugostovlo", dal deretano vezzoso, che mentre fa moine seducenti mira al granaio (vv. 373-374).

 

Una femmina oraziana che incarna il tradimento è l'etera Barìne.

 Nell'Ode II 8 Orazio afferma che gli dèi non puniscono gli spergiuri in amore, come se il campo erotico fosse estraneo alla religione e alla morale.

Sembra la trasposizione scherzosa di quello che Tucidide fa dire agli Ateniesi nel dialogo con i Meli: riteniamo infatti che la divinità, secondo la nostra opinione,  e  l'umanità in modo evidente, in ogni occasione, per necessità di natura ("dia; panto;" uJpo; fuvsew" ajnagkaiva"") dove sia più forte, comandi,  V, 105, 2.

 In amore, come in guerra e in molti altri campi, i rapporti tra gli umani sono rapporti di lotta decisa dalla forza preponderante. Barine non viene punita per i suoi spergiuri, non diventa più brutta, anzi.

 

Vediamo le prime due strofe saffiche.

"Ulla si iuris tibi peierati/poena, Barīne, nocuisset umquam,/dente si nigro fieres vel uno/turpior ungui,/ /crederem:sed tu simul obligasti/perfidum votis caput, enitescis/pulchrior multo iuvenumque prodis/publica cura " ( Ode, II, 8, vv. 5-8), Barìne, se la pena del giuramento violato ti avesse mai nociuto, se diventassi una dal dente nero o più brutta per una sola unghia, ti crederei: ma tu appena    hai impegnato la tua vita perfida con i voti, brilli molto più bella e vieni avanti, pubblico tormento per i giovani.

-iuris peierati poena:"in nessun'altra cosa come in amore si usa e si abusa a cuor leggero del giuramento. Ma gli antichi, che erano attaccati con tutta l'anima a una credenza che aveva tanta parte nella loro religione, nel diritto e nella vita comune, corsero ai ripari per ingannar se stessi: in amore sì, poiché lo si vede ogni giorno avvenire senza conseguenze, è lecito giurare falso senza pericolo, nel resto no"[25].

 Perfidum caput  è il consueto[26] aggettivo che indica la rottura del  foedus ,   e obligare, impegnare, è coerentemente un verbo del linguaggio giuridico. Enitescis  costituisce l' ajprosdovkhton che contrasta con la punizione mancata dell'annerimento dei denti in conseguenza dello spergiuro (dente si nigro fieres vel uno/turpior ungui ", vv. 2-3, se diventassi più brutta per la dentatura annerita o almeno per una sola unghia).

 " Orazio, negando che Barine abbia anche soltanto un tal neo, la glorifica perfetta: menzognera sì ma perfetta. Noi non possiamo immaginare che le parole del poeta carezzino, più che non feriscano, l'orecchio dell'ascoltatrice: donne di tal fatta non possono soffrire che si rinfaccino loro difetti fisici, o, peggio, l'età, ma sanno bene che mestiere fanno e non si dolgono se lo si ricorda loro con i debiti riguardi"[27].

Il publica cura  del v. 8 sovrappone la terminologia politica a una situazione erotica. "Orazio rincara la dose: essa non solo non ha sofferto della fede mancata, anzi a ogni giuramento falso divien più bella, ed esce per le vie accompagnata da un corteo sempre maggiore di giovani: nel publica cura si sente l'ironia, che però si rivolge molto più contro gli adoratori che non contro la bella donna, la quale fa, e ha ragione, i suoi interessi"[28]

 

Il tovpo" del giuramento amoroso tradìto.

 Pasquali cita varie testimonianze della sua affermazione per la quale solo in amore è lecito spergiurare.

aggiungo il Simposio di Platone dove Pausania fa notare che i più pensano che gli stessi dèi siano indulgenti verso gli spergiuri amorosi:"ajfrodivsion ga;r o{rkon ou[ fasin ei\nai" (183b), infatti dicono che non c'è giuramento d'amore.

Seguo qualche altra indicazione dell'autore di Orazio lirico :" Tibullo non ne[29] fa uso se non in quella sua Ars amandi (I 4, 21) posta in bocca a Priapo" (p. 480). Vediamone due distici:"Nec iurare time: Veneris periuria venti/irrita per terras et freta summa ferunt.// Gratia magna Iovi; vetuit pater ipse valere,/iurasset cupide quidquid ineptus amor "  (I, 4, vv. 21-24), non aver paura di giurare: gli spergiuri di Venere i venti li trascinano annullati per le terre e in cima ai flutti. Dobbiamo essere molto grati a Giove; il padre ha personalmente vietato che avesse valore qualunque giuramento avesse bramosamente fatto uno spropositato amore.

 

Sull’ esempio dato da Zeus in fatto di adultèri e tradimenti possiamo ricordare le Nuvole di Aristofane.

Una giustificazioni dell’adulterio: Iuppiter quoque

Se  vuoi fare i tuoi comodi, suggerisce il Discorso ingiusto, vieni a scuola da me: ti insegnerò a parlare in modo da avere sempre ragione:

"se vieni sorpreso in adulterio-moico;" ga;r h]n tuvch/" aJlouv"- (1079), rispondi a quello che non hai fatto niente di male-wJ" oujde;n hjdivkhka"-: quindi devi imputarne la colpa a Zeus,/(1080) anche lui è sottomesso all'amore e alle donne-kajkei'no" wJ" h[ttwn e[rwtov" ejsti kai; gunaikw'n (1081);e allora tu che sei mortale, come potresti essere più forte- di un dio? qeou' mei'zon ; "(1082).

 Elena nelle Troiane di Euripide attribuisce la colpa del suo adulterio ad Afrodite. La Spartana dice al marito Menelao :

“Venne avendo con sé una  non piccola dea 

Il demone nato da costei, sia che tu lo voglia chiamare

con il nome di Alessandro, sia Paride;

che tu, o pessimo, lasciato nel tuo palazzo,

partisti da Sparta con la nave per la terra di Creta.

E sia.

Non a te, ma a me stessa voglio fare una domanda a questo proposito :

A che cosa pensando dal palazzo mi accompagnai

allo straniero, tradendo la patria e la famiglia mia?

Punisci la dèa e diventa più forte di Zeus,

che ha potere sulle altre divinità,

ma di quella è schiavo: ci sia  comprensione per me (Troiane, 940-950)

 

Allora Ecuba le risponde

“Assolutamente straordinario era mio figlio per bellezza

e la tua mente vedendolo si fece Cipride:

tutte le follie infatti sono Afrodite per i mortali,

e il nome di afrosyne[30] comincia giustamente come quello della dea. (Troiane, 886- 990)

 

Una menzione ridicola del dongiovannismo di Zeus, e di Poseidone, si trova anche negli (Uccelli  del 414):

"bisogna proclamare la guerra santa contro Zeus e impedire agli dèi/

di andare e venire per la vostra terra a cazzo ritto

(toi`si qeoi`sin ajpeipei`n ejstukovsi, da stuvw, “ho un’erezione”, 557)

come una volta quando scendevano a sedurre le Alcmene

le Alopi e le Semele"(vv.556-559).

 

Pasquali fa ancora notare che "Ovidio imita questo passo di Tibullo nell' a. a. I 633 sgg" [31].

Vediamo qualche distici anche del magister Naso:"Iuppiter ex alto periuria ridet amantum/et iubet Aeolios inrita ferre Notos.// Per Styga Iunoni falsum iurare solebat/Iuppiter: exemplo nunc favet ipse suo " (Ars Amatoria ,I, 631-634), Giove dall'alto sorride agli spergiuri degli amanti e ordina che i venti di Eolo li portino via senza effetto. Sullo Stige Giove era solito giurare il falso a Giunone: ora favorisce personalmente chi segue il suo esempio.

Ovidio, aggiunge Pasquali  "aveva già adoperato il tovpo" in forma un po' diversa in due passi degli Amores, assai somiglianti tra loro: I 8, 85 nec, siquem falles, tu periurare timeto:/ commodat in lusus numina surda Venus" [32] , e se ingannerai qualcuno tu non esitare a spergiurare: per i giochi amorosi Venere rende sordi gli dèi.

 Un altro passo  chiede indulgenza per gli spergiuri onesti:" Tu, dea, tu iubeas animi periuria puri/Carpathium tepidos per mare ferre Notos " (Amores , II, 8, 19-20), tu, dea, tu ordina che gli spergiuri di un animo puro li portino via i tiepidi venti del sud attraverso il mare Carpatico. La dea naturalmente è Venere, il mare Carpatico è l'Egeo chiamato così dall'isola di Carpato situata tra Creta e Rodi. Mare, isole e venti meridionali, tiepidi evocano vacanze e sensualità.    

  

Anche in Anna Karenina c'è un "codice di norme", quello di Vrònskij, che ammette lo spergiuro amoroso:" Le norme stabilivano senz'ombra di dubbio che bisognava pagare un baro, ma non obbligavano a pagare un sarto; che agli uomini non bisognava mentire, ma si poteva con le donne; che non bisognava ingannare nessuno ma un marito si poteva ingannare; che non si potevano perdonare le offese, ma che si poteva offendere, e così via"[33].

 

Torniamo all’ Ode II 8 di Orazio che giustifica Barìne:" Expedit matris cineres opertos/fallere et toto taciturna noctis/signa cum caelo gelidaque divos/morte carentis//Ridet hoc, inquam, Venus ipsa, rident/simplices Nymphae, ferus et Cupido/ semper ardentis acuens sagittas/cote cruenta " (vv. 9-16), ti giova ingannare le ceneri sepolte di tua madre e le silenti costellazioni della notte con l'intero cielo e gli dèi immuni dal gelo della morte. Ride di questo, lo affermo, la stessa Venere, ridono le Ninfe ingenue e il feroce Cupido che aguzza sempre i dardi ardenti sulla cote cruenta. Anche questo cupido è armato.

-Ridet…rident : il poliptoto a cornice e inquam rafforzano questo distacco sorridente dalla vicenda amorosa, ben diverso dagli scoppi di gelosia e dalle maledizioni con le quali reagiscono ai tradimenti e agli spergiuri Catullo e gli elegiaci.

 

Giuramenti gravi

 matris cineres opertos (coperti dalla tomba) fallere: il giuramento sulle ossa e le ceneri dei genitori è particolarmente grave: lo usa Properzio per rendere indubitabile la sua dedizione (gravitas) a Cinzia  fino alla morte e oltre:"ossa tibi iuro per matris et ossa parentis/ si fallo, cinis heu sit mihi uterque gravis " (II, 20, 15-16), te lo giuro sulle ossa di mia madre, sulle ossa di mio padre, se ti inganno siano opprimenti per me le ceneri di entrambi. Se venisse meno la gravitas di Properzio interverrebbe negativamente quella della cenere. I giuramenti amorosi violati, anche se non sdegnano gli dèi, addolorano gli amanti traditi e sono latori di Eris, talora di discidium.

"La scena della terza strofa, il giuramento per la tomba della madre sotto il cielo stellato è romantica e atta a ispirare terrori misteriosi. Orazio riprende qui uno spunto che aveva trattato nella sua romantica giovinezza (epod. XV 1):"nox erat et caelo fulgebat luna sereno inter minora sidera, cum tu magnorum numen laesura deorum, in verba iurabas mea", era notte e la luna brillava nel cielo sereno tra gli astri minori, quando tu, pronta a violare la potenza degli dèi grandi, giuravi sulle mie parole (vv. 1-4) Si tratta di Neera che giura, falsamente a Orazio "fore hunc amore mutuum " (v. 10). Ma il Venosano saprà reagire eroicamente: "nec semel offensae cedet constantia formae/si certus intrarit dolor " (vv. 15-16, un esametro e un dimetro giambico), e la costanza non cederà alla bellezza una volta rivelatasi odiosa, se un dolore certo sarà entrato nell’animo. E’ subentrata la guerra con la bellezza perfida.

 

 Il non cedere è caratteristico dell'eroe: lo stesso Orazio definisce Achille incapace di cedere[34].

 Il rivale felicior , più fortunato cui il poeta si rivolge con un quicumque es (v. 17), chiunque tu sia- come il coro o un personaggio della tragedia greca a Zeus (Eschilo, Agamennone 160; Euripide, Troiane , 885)  e come Enea a Mercurio (Eneide IV, 577)-, presto piangerà anche lui l'amore passato da un'altra parte e il poeta a sua volta riderà:" Heu heu! translatos alio maerebis amores/Ast ego vicissim risero " (epod. XV vv. 23-24). L'ultimo distico applica all'amore l'idea dell'orbis che ogni cosa porta in giro, in tutti i sensi.  

Gli elegiaci  sono meno disposti a ridere per i tradimenti amorosi e meno inclini a considerare impuniti gli spergiuri.

Faccio l'esempio di Properzio: nel primo libro (pubblicato attorno al 28 a. C.) l'amante geloso ricorda a Cinzia, la quale lo fa soffrire con la sua leggerezza (levitas) e la sua perfidia, che lo spergiuro può provocare la vendetta divina:"desine iam revocare tuis periura verbis,/Cyntia, et oblitos parce movere deos " (15, 25-26), smettila di tirare fuori di nuovo gli spergiuri con le tue parole, Cinzia, evita di irritare l'oblio dei numi.

 Nel secondo libro, redatto tra il 28 e il 26, Properzio sembra replicare all’ ode di Orazio citata sopra (II, 8), quella che giustifica Barìne con il ridere di Venere e di Cupido

Sentiamo questa obiezione all’impunità dei tradimenti amorosi"non semper placidus periuros ridet amantes/Iuppiter et surda neglegit aura preces./vidistis toto sonitus percurrere caelo,/fulminaque aetheria desiluisse domo?/non haec Pleiades faciunt neque aquosus Orion,/nec sic de nihilo fulminis ira cadit;/periuras tunc ille solet punire puellas,/deceptus quoniam flevit et ipse deus " ( Properzio, II, 16, 47-54), non sempre Giove ride calmo degli amanti spergiuri e con orecchie sorde trascura le preghiere. Hai visto i tuoni trascorrere per tutto il cielo e i fulmini saltati giù dalla dimora eteria? Questi non sono effetti delle Pleiadi né del piovoso Orione, né così cade dal niente l'ira del fulmine; allora quello suole punire le ragazze spergiure, poiché anche lui stesso, un dio, pianse ingannato.   

E' il ribaltamento del gioco sofistico utilizzato dal Discorso Ingiusto nelle Nuvole di Aristofane e ripreso da Orazio, poi da Ovidio. Anzi, secondo Pasquali "l'ultimo verso par quasi una risposta alla elegia citata dal primo libro di Tibullo ( I, 4, 21-24 citato sopra) pubblicato appunto in quello stesso torno di tempo: come lì Giove perdonava, conscio di aver dato lui il cattivo esempio, così qui punisce per dispetto degli inganni in cui egli è caduto"[35]

 Properzio in un'altra elegia del medesimo libro fa dipendere la malattia di Cinzia non tanto dal caldo canicolare quanto dal fatto che la fanciulla non ha rispettato gli dèi:" venit enim tempus, quo torridus aestuat aer,/ incipit et sicco fervĕre terra Cane./sed non tam ardoris culpa est neque crimina caeli,/quam totiens sanctos non habuisse deos " (II, 28, 5-6), è venuto il tempo nel quale l'aria ribolle torrida, e la terra comincia a bruciare per la Canicola assetata. Ma la colpa non è tanto del caldo né delitto del cielo, quanto non avere considerati santi gli dèi.

Il tovpo" degli spergiuri puniti si trova anche in un'altra elegia di Tibullo, quella contro il fanciullo Maratho (I, 9). Il poeta all'inizio utilizza il motivo della sera numinis vindicta , la punizione divina che tarda ma arriva contro gli spergiuri:"  Ah miser, et siquis primo periuria celat,/sera tamen tacitis Poena venit pedibus!" (vv. 3-4), ah sciagurato, se qualcuno in un primo momento nasconde gli spergiuri, la punizione arriva comunque anche se tardi con piedi silenziosi.

 

Appendice

Una confutazione generale all’impunità di tutte le malefatte

la Giustizia di cui Zeus è garante arriva, prima o poi, ma sempre. Lo afferma Solone dell'Elegia alle Muse :" pavntw" u{steron h\lqe divkh"(fr. 13 W., v. 8), più tardi in ogni caso arriva giustizia.

Plutarco nello scritto I ritardi della punizione divina cita un proverbio: “i mulini degli dei macinano tardi” (550) La formulazione completa è che essi macinano tardi, però macinano finemente. L’autore dei Moralia spiega tale lentezza con la volontà divina di dare un esempio “per eliminare la violenza e il furore delle nostre vendette. Il dio insegna a non aggredire chi ci ha offeso” (550 E).

Orazio ricorda che “raro antecedentem scelestum/deseruit pede Poena claudo” (Carm., III, 2, 31-32), raramente la Pena dal piede zoppo lasciò davanti a sé il colpevole. Si pensi alla zoppia del tiranno che dopo tutto si punisce da solo.

E Stazio, a proposito delle “ardite femmine spietate” dell’isola di Lemno, le quali “tutti li maschi loro a morte dienno”[12] ricorda, attraverso il racconto di Ipsipile, che “lentoque inrepunt agmine Poenae” (Tebaide, V, 60), le punizioni che procedono in colonna, senza fretta, quindi la “divum sera per aequor iustitia” ( V, 359-360), la giustizia degli dèi che arriva tardi, ma arriva magari su una nave.   

Ancora: in La tempesta di Shakspeare, Ariele ricorda ai tre peccatori (You are three men of sin, III, 3) Alonso, Sebastiano e Antonio i quali hanno spodestato da Milano il buon Prospero, che per il loro atto “The powers, delayng, not forgetting, have-Incens’d the seas and shores”, le potenze che rimandano, non scordano, hanno aizzato i mari e le rive.   

Bologna 6 giugno 2021 ore 11, 55

giovanni ghiselli

 


[1] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 477.

[2]Cfr. perfide  in Catullo 64, 133 già visto; più avanti lo troveremo in bocca a Didone in Eneide  IV 305.

[3]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 484.

[4]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 485.

[5]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 480, n. 2.

[6] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 480, n. 2.

[7] L. Tolstoj, Anna Karenina, p. 310.

[8] carentis=carentes.-

[9] Pasquali, op. cit., p. 485. Gli Epodi furono pubblicati intorno al 30 a. C.

[10] Odi , I, 6, 6.

[11] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 481.

[12] Dante, Inferno, XVII, 89 e 90.

 

 

Eros- Eris- Parte V

 

Una capatina in un paio di drammi di Shakespeare,  per variare.

 

Eros-Eris nell’ Antonio e Cleopatra di Shakespeare.

Una scenata di Antonio a Cleopatra poi la pace  con amore

 

Nell’Antonio e Cleopatra di Shakespeare, Antonio frustrato e depresso dopo la sconfitta di Azio dovuta alla fuga delle navi di Cleopatra che pure aveva voluto la battaglia navale, le  dice: “you were half blasted ere I knew you” (III, 13, 105), eri gà mezzo appassita prima  che ti conoscessi.

Io dunque ho lasciato il mio guanciale intatto a Roma –Have I my pillow left unpress’d in Rome – e rinunciato ad avere una discendenza legittima -by a gem-L. gemma- of women- da una gemma tra le donne per essere ingannato da una che presta attenzione ai servi? .

Cleopatra aveva baciato la mano a Tireo, un messo mandato da Ottaviano per blandirla affinchè non si uccidesse e il vincitore potesse portarla al proprio seguito durante la celebrazione del trionfo.

Poi continua: “sei sempre stata incostante, ma quando ci incalliamo nel nostro vizio , oh miseria- the gods seel – L. cilium, eye-lid-our eyes- gli dei ci acciecano. L’acciecamento mentale è l’ a[th dei Greci, quell’offuscamento della ragione che impedisce di vedere gli errori che commettiamo in tempo per evitarli .

Dopo averci tolta la vista mentale gli dèi ci fanno adorare i nostri errori-make us-adore our errors-e ridono mentre noi avanziamo pomposamente verso il nostro rovinoso caos-laugh at while we strut –to our confusion (III, 13, 113- 115),

Poi Antonio aggiunge un’altra volgarità contro l’amante : “ I found you as a morsel-latino morsus- cold upon /dead Caesar’s trencher” , vi ho trovata come un boccone freddo sul tagliere di Cesare morto, nay, you were a fragment of Cneius Pompey’ s, (III, 13, 116-117) anzi eravate un avanzo di Pompeo. Senza contare le lussurie inaudite, ossia non registrate dalla fama volgare.

In conclusione: “though you can guess what temperance should be,-you knew not what it is” (III, 13,121-122), sebbene tu possa supporre che cosa sia la temperanza, non hai saputo che cosa davvero è.

Quando un uomo se la prende così bassamente con la sua amante, questo significa che sente la caduta della propria identità e la affretta, la fa precipitare siccome è già entrato in collisione con se stesso.

Infatti poi lo sconfitto di Azio ingiunge al messo venuto da Roma, Tireo, che ha fatto pure frustare per il suo civettare con Cleopatra,  di tornare da Cesare a raccontargli come è stato accolto. Aggiunge che Ottaviano lo fa arrabbiare- he makes me angry (III, 13, 143) in un momento in cui è facilissimo farlo: “ when my good stars that were former guides-have empty their orbs and shot their fires-into the abyss of hell (144-147) quando le mie buone stelle che erano un tempo la mia guida hanno lasciato vuote le loro orbite e hanno lanciato I loro fuochi nell’abisso dell’inferno.

Per lo stesso motivo se la prende con Cleopatra che prima di Azio era la sua signora.

Nelle sconfitte gli amanti perdono l’equilibrio del loro rapporto.

Diventano del tutto incostanti.

Antonio poco dopo cambia atteggiamento verso se stesso e verso l’amante:

now I will set my teeth-and send to darkness all that stop me. Come, let’s have one other gaudy -latino gaudium, gaudere; greco ghqevw- night:  call to me-all my sad captains, fill our bowls –latino bulla-once more:-let’s  mock the midnight bell” (III, 13, 181-185), ora voglio serrare I denti e mandare nelle tenebre tutti quelli che cercano di fermarmi. Su, prendiamoci un’altra notte gioiosa: chiamatemi tutti i miei tristi capitani, riempiamo le nostre coppe ancora una volta: e scherniamo la campana della mezzanotte. 

Cleopatra replica: It is my birh-day:-I had thought to have held it poor, but since my lord-is Antony again, I will be Cleopatra” (185-187), è il mio compleanno: avevo pensato di passarlo tristemente , ma dal momento che il mio signore è di nuovo Antonio, io voglio essere Cleopatra.

Antonio conferma la sua decisione disperata senza escludere del resto la speranza: “come on my queen-greco gunhv-:-there is sap in ’t yet. The next time I do fight-i’ll make death love me, for I will contend-even with his pestilent scythe (III, 13, 191-194), venite mia regina: c’è ancora della vita in questo. Nel prossimo combattimento mi farò amare dalla morte, perché io lotterò persino con la sua falce avvelenata.

Torna la difesa dell’identità che è difesa della vita già asserita in  I am Antony yet " ( III, 13, 92.)

T. S. Eliot trova in questo arroccarsi nell’identità un’influenza senecana negli elisabettiani

Antonio dice "Sono ancora Antonio " e la Duchessa "Sono ancora Duchessa di Amalfi ?[36]; avrebbe sia l'uno che l'altro detto questo se Medea non avesse detto Medea superest ?"[37].

Medea è anche lei fallita nell’amore tuttavia vuole sopravvivere e ci riesce a differenza di Antonio e di Cleopatra.

Quando la nutrice le fa notare:"Abiere Colchi, coniugis nulla est fides;/nihlque superest opibus e tantis tibi"  ( Senevca, Medea, vv. 164-165), quelli della Colchide sono lontani, la lealtà del marito non esiste, di tanta potenza non ti rimane niente,  la donna abbandonata ribatte:"Medea superest; hic mare et terras vides,/ferrumque et ignes et deos et fulmina " (vv. 166-167), Medea rimane: qui vedi il mare e le terre, e il ferro e i fuochi e gli Dei e i fulmini.

La difesa dell'identità a tutti i costi anzi assimila questi personaggi agli eroi omerici, che non cedono, e a quelli sofoclei: preferiscono tutti morire o fare morire piuttosto che piegarsi alla pressione della norma.

L'autopossesso è l'unico punto fermo nei periodi e nei momenti critici:"Vaco, Lucili, vaco, et ubicumque sum, ibi meus sum" (Seneca, Ep. 62, 1), sono libero, Lucilio, sono libero, e dovunque mi trovi sono padrone di me stesso.
 
Un’altra Epistola si chiude con queste parole: "Qui se habet nihil perdidit: sed quoto cuique habere se contigit? Vale" ( 42, 10), chi possiede se stesso non ha perduto nulla ma a quanto pochi tocca questo possesso! Stammi bene.

 

Due corteggiamenti a dispetto della donna, eppure arrivati al successo

 

I corteggiamenti di Riccardo e di Cielo d’Alcamo.

 

Nel Riccardo III di Shakespeare (del 1592) Lady Anne si rivolge a Riccardo che l’ha avvicinata  durante il  funerale del suocero di lei, Enrico VI Lancaster.

 Anne attribuisce a Riccardo quella morte e quella del proprio  marito Edoardo principe di Galles: “Foul devil, for God’s sake hence, and trouble-tuvrbh-turba us not , diavolo immondo, per amor di Dio, vattene e non ci disturbare for thou hast made the happy earth- greco e[ra, terra- thy hell, (I, 2, 50-51) tu che hai fatto della terra felice il tuo inferno.

 

Il tiranno come mivasma.

Cfr. :"Fecimus coelum nocens" ( Seneca, Oedipus, v. 36),  io ho reso colpevole il cielo[38]. Un'eco di questa autodenuncia si trova nell'Amleto quando il re Claudio assassino del fratello dice:"Oh, my offence is rank, it smells to heaven" (III, 3), oh il mio delitto è marcio, e manda fetore fino al cielo.

Poco dopo Amleto[39], parlando con la madre, paragona lo zio a una spiga ammuffita che infetta l'aria salubre (III, 4).

 

Riccardo ha fermato il funerale di Enrico VI per corteggiare lady Anne che segue il feretro.

Pima la chiama sweet saint, dolce santa poi le rinfaccia l’ignoranza delle regole della carità  che rende bene per il male e benedizioni per maledizioni-lady, you know no rules -latin. regula- of charity- latino caritas, carus-- which renders -Lat. reddere to give back- good for bad , blessings for curses (I, 2, 68-69).

 

Segue uno scambio di battute  contrastive tra i due.

Cfr. i dissoi; lovgoi della sofistica presenti anche nelle Nuvole di Aristofane.

Riccardo  trova meravigliosa pure la collera di quella donna-angelo   more  wonderful when angels are so angry” (I, 2, 74) e la definisce -divine perfection of woman (I, 2, 75) divina perfezione di donna.

Anne  lo maledice chiamandolo –diffus’d infection—L. infectus incompiuto inficio- of man-(78) uomo totalmente infetto.

 

Vengono in mente i contrasti presenti nella poesia provenzale e nella scuola siciliana con Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo (databile tra il 1231 e il 1250)

 

Riccardo chiede a lady Anne di accordargli con pazienza qualche agio per scusarsi: “let me have-some patient leisure to excuse myself (81-82).

 La donna  risponde che l’unica giustificazione accettabile da parte sua, uomo turpe, è impiccarsi: “thou canst  make-no excuse current but to hang thyself (83-84).

 

Sentiamo la risposta meno dura ma altrettanto decisa della rosa aulentissima al suo corteggiatore nel “contrasto”  di Cielo   

 

“Se di meve trabàgliti , follia lo ti fa fare

lo mar potresti arompere (arare), e venti asemenare

l’abère d’esto secolo tutto quanto asembrare (radunare, provenzale asembrar)

Avere me non pòteri a esto monno;

avanti li capelli m’aritonno (mi taglio i capelli e mi faccio monaca)

 

 

Eppure Riccardo riesce a sedurre la donna che ha reso vedova.

 Lady Anne gli dice “thou are unfit for any place but hell” (I, 2, 111), tu non sei adatto ad altro luogo che all’inferno, e lui le risponde di essere invece adatto for your bed-chamber (114) per la vostra camera da letto

Seguono diverse altre battute di un contrasto che via via si attenua

Vediamone alcune

Riccardo dice che è stata Anne a spingerlo a uccidere il marito, con la bellezza di lei : it is my day, my life (134) essa-la bellezza- è la mia luce, la mia vita.

Il corteggiatore aggiunge che l’ha privata di un marito per dargliene uno migliore-to a better husband-143.

Anne sputa addosso a Riccardo e lui le domanda perché l’abbia fatto: “Why dost thou spit at me?” (148)

E lei: “would it were mortal poison for thy sake, vorrei che fosse veleno al tuo gusto (149)

Riccardo: “never came poison from so sweet a place” (150), mai è scaturito del veleno da una fonte tanto dolce.

Anne: “never hung poison on a fouler toad” 151, mai è colato veleno su un rospo più immondo.

Riccardo insiste con i complimenti e lady Anne continua a rilanciarglieli rovesciati in ingiurie. Il duca di Gloucester non si lascia smontare e torna a dire che ha ucciso istigato dalla bellezza di lei.

Poi la mossa estrema di consegnarle la sua spada dicendo alla bella  di ucciderlo e inginocchiandosi davanti a lei. Anne non lo ammazza, anzi lascia cadere la spada e lo fa rialzare, quindi gli chiede di mettere via l’arma e infine quando Riccardo le porge un anello non lo rifiuta, ma per non cedere subito del tutto, gli fa: “to take is not to give” (I, 2, 205), prendere non è dare. Ma ormai è solo un poco ritrosetta e per Riccardo è fatta.

Il linguaggio drammatico di Shakespeare suggerisce attraverso la parola scritta il gesto e il tono che devono accompagnarla mentre viene detta[40].

Come quando Riccardo dopo avere conquistato Anne, dice: “Shine out, fair sun, till I have bought a glass, /That I may see my shadow- greco skovtoς (oJ)- as I pass-latino passus” (I, 2, 267-268), brilla bel sole, finché mi sia comprato uno specchio, perché io possa vedere la mia ombra mentre cammino.

L’attore non può non levare il capo verso il sole  indicando la sua ombra.

 

Sentiamo il corteggiamento di Cielo che convince la rosa profumatissima

“Cercat’ajo Calabria, Toscana e Lombardia,

Puglia, Costantinopoli, Genoa, Pisa e Soria,

Lamagna e Babilonia e tutta Barberia:

donna non ci trovai tanto cortese

per che sovrana di meve te prese”

 

Anche la rosa viene a patti con l’indefesso corteggiatore

“ Poi tanto trabagliàsti, faccioti meo pregheri

Che tu vada adomànnimi a mia mare e a mon peri

Se dare mi ti degnano , menami a lo mosteri,

e sposami davanti de la jente

e poi farò le tuo comannamente”.

giovanni ghiselli

 

 

Eros- Eris parte VI. La storia di Didone

prima parte

 

Nella storia virgiliana di Didone l’ amore è associato al dolore attraverso ferite, incendi, fiamme, follia, colpa, peste e suicidio.

Al dolore della donna abbandonata segue l’odio per l’uomo.

 

Fin dal primo canto Venere invia il figlio Cupido a Cartagine  : "ut faciem mutatus et ora Cupido/ pro dulci Ascanio veniat donisque  furentem/ incendat reginam atque ossibus implicet ignem " (Eneide I , 658-660) affinchè, mutato nel volto e nell'aspetto, vada  al posto del dolce Ascanio, con i suoi doni infiammi la regina alla follia e faccia penetrare nelle ossa il fuoco d'amore.

 

L'ardore erotico che arriva alle ossa è un locus reperibile già in Teocrito: "wj" ejk paido;"  [Arato" uJjp j  ojstevon ai[qet j e[rwti" (VII, Le Talisie, v. 1O2) Aristi sa cantare come Arato ardeva fin sotto le ossa per amore di un ragazzo.

In questo stesso idillio VII  Licida è ojpteuvomenon (v. 55), cottp da Afrodite per Ageanatte.

 

Il fuoco d'amore  è attestato fin da Saffo che anzi inaugura il topos della cottura amorosa:"o[ptai" a[mme" (fr. 38 Voigt), tu mi cuoci.

 

Il fuoco che brucia Didone non è di cottura né purificatore, ma deleterio, velenoso, pestifero, ingannevole:"occultum inspires ignem fallasque veneno " (I, v. 688), infondile un fuoco occulto e ingannala con il veleno, ordina Cipride al figlio. L'amore  è causa di infelicità, è pestifero, mortale, e Didone innamorata di Enea è predestinata alla rovina:" Praecipue infelix, pesti devota futurae,/expleri mentem nequit ardescitque tuendo " (I, 712-713), sopra tutti l'infelice, consacrata alla rovina imminente, non sa saziare il cuore e s'infiamma guardando.

 

L'infelicità connessa all'amore prima ancora che questo si realizzi si trova pure nella storia di Medea delle Argonautiche  di Apollonio Rodio: quando la ragazza si avvia incontro a Giasone, che è stato salvato da lei e le ha promesso le nozze, la Luna la osserva e, con parole ambigue tra la simpatia e il dispetto, le dice: il dio del dolore ("daivmwn  ajlginovei"", IV, v. 64) ti ha dato il penoso Giasone per la tua sofferenza. Va' allora e sopporta in ogni modo, per  quanto sapiente tu sia, la pena luttuosa.

 Questo presunto amore di Medea e Giasone non dona gioia ai due amanti, al punto che l'autore rivolge un'apostrofe ad Eros quale latore di infiniti dolori: Eros atroce, grande sciagura, grande abominio per gli uomini ("Scevtli   [Erw", mevga ph'ma, mega stuvgo" ajnqrwvpoisin" (IV, 445) da te provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti si agitano per giunta. àrmati contro i figli dei miei nemici, demone, quale gettasti l'accecamento odioso nell'animo di Medea ( oi|o" Mhdeivh/ stugerh;n fresi;n e{mbale" a[thn", v. 449).

Catullo  usa la parola pestis  in nesso allitterante con pernicies  per definire il proprio amore doloroso dal quale chiede agli dèi di liberarlo come da una malattia non meritata (O di (…) eripite hanc pestem perniciemque mihi-76, 16 e -2o).

In Apollonio e in Catullo era presente la tragedia greca, specialmente Euripide. Anche Virgilio si collega a Euripide direttamente (e non solo attraverso Apollonio e Catullo): il IV libro meglio degli altri dell'Eneide  ci mostra come egli utilizzi e fonda suggestioni non solo di autori vari, ma di autori che sono già tra loro in un rapporto di dipendenza, quasi ponendosi coscientemente all'estremità di una catena letteraria. Euripide poteva offrirgli spunti non solo per il personaggio di Didone, ma anche, con Giasone o altri, per il personaggio di Enea."[41].

E' quella che Musil definisce la  "catena di plagi"[42] che lega le grandi figure del mondo artistico l'una all'altra.

 

Su Catullo come primo anello latino di questa catena che rende malato l'amore sentiamo Paolo Fedeli:"Grazie a Catullo una nutrita serie di vocaboli acquista diritto di cittadinanza nel linguaggio d'amore: basterà ricordare la definizione dell'amore come dolor  (2 7) ardor  (2 8) cura  (2 10; 68 51), ma anche come morbus  (76 25) , come pestis  e pernicies  che s'insinua nelle membra simile a un torpor  (76 20) e le divora (31 15) ; oppure la definizione dell'amata come desiderium  (2 5); dell'innamorato come vesanus  (7 10) miser  (8 1; 51 5) e dell'innamorata che si strugge come misella (31 14); dell'innamoramento come equivalente dell'ineptire  (8 1), del perdite amare  (45 3) dell'amore deperire (35 12), del tabescere (68 55) dell'ardere (68 53)"[43].

 

L'ardore e il fuoco a dire il vero sono già presenti negli amorazzi dei giovani della commedia:"Sperabam iam defervisse adulescentiam :/ gaudebam. Ecce autem de integro! " fa Micione negli Adelphoe di Terenzio (v. 151-152) a proposito del nipote, speravo che fossero sbolliti quegli ardori giovanili: me ne rallegravo. Ecco invece di nuovo.

 

L'amore in ogni caso secondo questi autori fa male, rende infelici, malati, ferisce, consuma, brucia. "Deve" fare male poiché chi lo vive senza sensi di colpa è meno intimidibile e ricattabile; insomma è meno soggetto al potere, ai tempi di Augusto come ai nostri.

Su questo stesso motivo sentiamo D. H. Lawrence (1885-1930):"C'è un desiderio inconfessato, implacabile, dietro a tutte le teorie del sesso. Ed è desiderio di annullare, di cancellare completamente il mistero della bellezza. (…) La scienza ha una misteriosa avversione per la bellezza, in quanto non riesce a sistemarla adeguatamente nella visione che essa ha del mondo come serie di cause ed effetti. La società a sua volta ha una misteriosa avversione per il sesso, in quanto interferisce perpetuamente con la organizzazione bene ordinata che l'uomo sociale ha inventato per fare quattrini. Le due avversioni si assommano e ne risulta che il sesso e la bellezza sono soltanto espressioni dell'istinto di riprodursi. E allora diciamolo: il sesso e la bellezza sono una cosa sola, come la fiamma e il fuoco. Se provi odio per il sesso, lo provi anche per la bellezza. Se ammiri la bellezza vivente, provi rispetto anche per il sesso…La sventura della nostra civiltà deriva dall'odio morboso che proviamo per il sesso"[44].

 

La fobia del sesso fa parte della propaganda di qualsiasi regime.

Deriva spesso dalla storia personale e, quando è espressa da autori maschi, deve essere collegata alla paura delle donne. Faccio un esempio che  accosta, paradossalmente, Aristofane a Manzoni.

Nelle Rane  di Aristofane  il personaggio Eschilo si vanta di non avere mai fatto agire nei suoi drammi Fedre né Stenebee puttane (povrna", v. 1043) e anzi di non avere mai creato una donna in amore (" ejrw'san pwvpot  j ejpoivhsa gunai'ka", v. 1044).

Il personaggio Euripide ribatte maliziosamente che nei drammi del rivale in effetti non c'è nulla di Afrodite (1045), ossia non c'è grazia.

 

Ebbene lo stesso merito, dubbio assai, se lo attribuisce Manzoni nel Fermo e Lucia :" Non si deve scrivere di amore in modo da far consentire l'animo di chi legge a questa passione. Di amore ce n'è seicento volte di più di quanto sia necessario alla conservazione della nostra riverita specie. Io stimo dunque opera impudente l'andarlo fomentando con gli scritti".

 

A queste parole dell'autore aggiungo alcune frasi prese da una tesi di abilitazione all'insegnamento secondario di una giovane laureata  della SSIS di Bologna:"Il carattere di Lucia è architettato sulla base d'un sistema che uccide il pensiero…Le sue aspirazioni, il suo voto incontrano freddezza nel lettore di cuore sano; essa appare o insipida o egoista e tutta la maestria della disposizione non basta a infondere sangue a quella creazione…Lucia fa olocausto di sé sull'altare di un sistema"[45]. 

 

Manzoni, maniaco dell'antisesso, si noti, è un moderato e uno che si dice cristiano. Eppure il Cristo disse bene della peccatrice :"Remissa sunt peccata eius multa, quoniam dilexit multum, cui autem minus dimittitur, minus diligit " (Luca, 7, 47), le sono perdonati i suoi molti peccati poiché ha amato molto, quello invece cui si perdona meno, ama meno. E' una di quelle splendide pagine del Vangelo che sono ignorate o fraintese dai furfanti bigotti i quali adulterano le parole sante. A tale categoria appartiene "la vecchia Bovary" la quale, quando il farmacista propose di chiamare sua nipote Madeleine "protestò aspramente contro quel nome di peccatrice"[46].

Tolstoj ci scherza sopra con intelligenza:" I libertini, queste Maddalene di sesso maschile, hanno un segreto senso della propria innocenza, né più né meno come le Maddalene femminili, e basato sulla medesima speranza di perdono:"Tutto le sarà perdonato, perché ha molto amato; e a lui tutto sarà perdonato, perché si è molto divertito"[47].

 

Ma torniamo all’Eneide con Didone che all’inizio del quarto canto dopo il racconto di Enea è già ferita dal volnusvulnus- amoroso:"At regina gravi iamdudum saucia cura/volnus alit venis et caeco carpitur igni " (IV, vv. 1-2) ma la regina, già da tempo vulnerata da pesante affanno, /ravviva nelle vene la ferita ed è divorata da un fuoco nascosto.-

at: la congiunzione avversativa connette il primo verso di questo canto all'ultimo del terzo  con il quale Virgilio dichiara concluso il racconto di Enea, capace, come Odisseo, di sedurre attraverso le parole il cui lungo fluire ha messo in agitazione la regina mentre ha dato finalmente quiete all'eroe che ha raccontato se stesso:"Conticuit tandem factoque hic fine quievit" (III, 718), tacque infine e posto qui un termine si riposò.

 

Bologna 7 giugno 2021 ore 10, 40

 

giovanni ghiselli

 

 

Eros- Eris parte VII. La storia di Didone seconda parte

 La discordia della regina con l’amore sentito quale colpa.

 

 

All'inizio del libro IV Didone è già immersa nella sua passione tormentosa e il nuovo punto di partenza del dramma è la sofferenza della donna colpita e vulnerata saucia (v. 1) da amore. La metafora della ferita volnus (v. 2) per significare l'amore proviene dalla poesia greca, specialmente da quella alessandrina, ed è spesso associata con l'immagine del figlio di Afrodite,  che ferisce con le sue frecce.

Da una freccia di Eros , è ferita Medea nella scena dell'innamoramento nel poema di Apollonio Rodio

Il fanciullo inviato dalla madre a colpire Medea lanciò una freccia apportatrice di pene (poluvstonon ijovn, Argonautiche,  III 279  ) dopo essere giunto invisibile eppure violento, come si scaglia sulle giovani vacche l’assillo oi\stro" che i pastori usano chiamare tafano-muvwpa- (277-278)

L'aggettivo (saucia ) ha una sua tradizione di pathos erotico, da Ennio, già citato, a Catullo cui Virgilio allude :"multiplices animo volvebat saucia curas ", 64, 250, volgeva ferita nell'animo molti pensieri affannosi.

 Si tratta, naturalmente, di Arianna abbandonata da Teseo.

Citiamo di nuovo Lucrezio:"idque petit corpus, mens unde est saucia amore "  (IV, 1048), ed essa (la voluntas eicere , il desiderio di eiaculare dove si indirizza la dira libido , la brama funesta)  cerca quel corpo da cui la mente è ferita d'amore.

 

Per quanto riguarda igni  ( et caeco carpitur igni Eneide, IV, v. 2 il soggetto è regina del primo verso), il poeta passa facilmente dalla metafora della ferita, a quella, ancora più diffusa, del fuoco.

E' notevole che Apollonio Rodio nella scena dell'innamoramento di Medea  unisca già le due immagini: la freccia scagliata da Eros alla giovinetta bruciava sotto il cuore simile a fiamma bevlo" d ’ ejnedaiveto kouvrh/-nevrqen  ujpo; kradivh/ flogi; ei[kelon (Argonautiche, III 286-287).

 

"Multa viri virtus animo multusque recursat/gentis honos haerent infixi pectore voltus/verbaque nec placidam membris dat cura quietem" (vv. 3-5), il gran valore dell'eroe e la grande gloria della stirpe le ricorrono al pensiero, le sembianze e le parole le stanno ficcate nel cuore e l'affanno non concede alle membra un riposo tranquillo.

Didone è stata colpita dalla forte,  intensa espressività degli occhi (voltus è il volto che guarda)  e delle parole (verba).

 

Le due parti più significative del viso  sono la bocca, os,  e gli occhi, oculi. Nel voltus determinanti sono gli occhi. "Possiamo quindi ritenere che, quando dicono vultus, i Romani concentrino il senso della faccia non nella parte bassa del viso, come nel caso di os, ma in quella alta.

Alla faccia/bocca, sembra dunque contrapporsi una faccia/occhi"[48].

La bocca del resto emette le parole, anche queste funzionali alla seduzione.

 

I primi versi del quarto canto, prefigurano la catastrofe finale, presentando l'amore come tormento: le sembianze e le parole di Enea, invece di procurare gioia alla regina, sono infissi nel petto come dardi dolorosi e Didone, al contrario del profugo troiano, non trova riposo. Diverso, sproporzionato è dunque l'investimento, e questa è la prima causa che crea dolore negli amanti, tragicamente in uno dei due. Gli strumenti seduttivi di Enea, oltre la virtus evidenziata dal racconto e connessa pure etimologicamente al vir che ne è dotato[49], sono l'aspetto bello (voltus, non per niente Enea è figlio e protetto di Venere che lo ha pure imbellito[50]) e le parole (verba). Sono gli eterni mezzi del seduttore; gli stessi che usa Odisseo, anche lui infatti abbellito dalla sua dea che è Atena[51].

 

L'amore è dolore, affanno ed è anche colpa: subito dopo la regina, parlando con la fida sorella Anna, celebra l'eccezionalità dell'ospite troiano e aggiunge  che se non le fossero venuta in odio i letti e la fiaccole nuziali (si non pertaesum animi taedaeque fuisset, v. 18) forse solo per l'ospite troiano avrebbe potuto soccombere alla colpa:"huic uni forsan potui succumbere culpae " (v. 19). 

 

 Le vedove in Roma, pur essendo loro concesso dalla legge un nuovo matrimonio, ritenevano degno d'onore mantenersi unĭvirae, cioè donne che avevano avuto un solo marito. Questo naturalmente secondo gli antiqui mores al cui ripristino Virgilio vuole contribuire.

Il fatto che, uomini e donne,  si accontentino di un solo coniuge corrisponde al costume antico dei Romani secondo quanto racconta Valerio Massimo (I sec. d. C.)"Quae uno contentae matrimonio fuerant, corona pudicitiae honorabantur. Existimabant enim eum praecipue matronae sincera fide incorruptum esse animum , qui, depositae virginitatis cubile egredi nesciret, multorum matrimoniorum experientiam quasi legitimae cuiusdam intemperantiae signum esse credentes. Repudium inter uxorem et virum a condita urbe usque ad centesimum et quinquagesimum annum nullum fuit " (Factorum et dictorum memorabilium, II, 1, 3), quelle che si erano accontentate di un solo matrimonio venivano onorate con la corona della pudicizia. Consideravano infatti che fosse in particolare puro per schietta fedeltà l'animo di una matrona che non sapesse uscire dal letto dove aveva lasciato la verginità, poiché credevano che l'esperienza di molti matrimoni fosse segno di una per così dire legittima sfrenatezza. Non ci fu nessun divorzio tra moglie e marito dalla fondazione di Roma per centocinquant'anni.

Anche per gli uomini romani unum matrimonium è motivo di lode: Tacito fa l'elogio funebre di Germanico, morto avvelenato in Siria da Pisone nel 19 d. C. ,  riportando l'opinione di chi lo anteponeva ad Alessandro Magno: avevano in comune il bell'aspetto, la stirpe nobile, la morte precoce tra genti straniere dovuta a insidie familiari, "sed hunc mitem erga amicos, modicum voluptatum, uno matrimonio, certis liberis egisse " (Annales , II, 73), ma questo era stato gentile con gli amici, temperante nei piaceri, sposato con una sola donna, con figli legittimi.  

 

Si può notare che da Virgilio non viene altrettanto incolpato l'amore omosessuale: Niso ardeva per il bell'Eurialo "amore pio " (Eneide , V, 296) di un amore santo.

 

Poco dopo Didone confida alla sorella che dopo la morte di Sicheo solo Enea ha scosso i suoi sensi e ha colpito l'animo in modo da farlo vacillare:"Adgnosco veteris vestigia flammae " (v. 23), riconosco i segni dell'antica fiamma. 

Se ne ricorderà Seneca nella Medea  la cui nutrice vedendo la furia della moglie tradita dice:"irae novimus veteris notas " (v. 394), conosco i segni dell'antica ira, poi Dante che ne dò una traduzione letterale nel Purgatorio  ("conosco i segni dell'antica fiamma", XXX, 48). Ogni autore che conosce la tradizione  se ne avvale come base aggiungendo del suo. Così l'edificio cresce.

Dare retta a un impulso amoroso viene vissuto dalla regina come  una violazione del pudore, (Pudor, v. 27) considerato al pari di una divinità.

 

Valerio Massimo nel proemio del VI libro invoca la Pudicitia:"virorum pariter ac feminarum praecipuum firmamentum ", solido fondamento nello stesso tempo per donne e uomini. Ella appunto è stata onorata come una dea:"Tu enim prisca religione consecratos Vestae focos incolis, tu Capitolinae Iunonis pulvinaribus incubas[52]", tu infatti abiti i focolari consacrati a Vesta dall'antico culto, tu giaci sui cuscini di Giunone Capitolina.    

Non era più questo il sentimento comune nell’età imperiale e nemmeno in quella precedente.

 Seneca nel III libro del De Beneficiis sostiene che la frequenza e la diffusione dei peccatori leva l'infamia a ogni peccato, dall'ingratitudine all'adulterio:" Numquid iam ulla repudio erubescit, postquam inlustres quaedam ac nobiles feminae non consulum numero sed maritorum annos suos computant et exeunt matrimonii causa, nubunt repudii? " (III, 16, 2), oramai forse qualcuna arrossisce per un ripudio, dopo che  alcune donne famose e nobili contano i loro anni non con il numero dei consoli ma con quello dei mariti ed escono di casa per sposarsi, si maritano per divorziare?

Subito dopo il filosofo aggiunge:"Numquid iam ullus adulterii pudor est, postquam eo ventum est, ut nulla virum habeat, nisi ut adulterum inrītet? Argumentum est deformitatis pudicitia " (III, 16, 3), c'è forse più un poco di vergogna dell'adulterio, dopo che si è arrivati al punto che nessuna donna ha il marito, se non per stimolare l'amante? La pudicizia è indizio di bruttezza..

 

L’esempio partiva dalle donne dell’alta società già nell’ultima età repubblicana: si pensi alla Sempronia di Sallustio complice di Catilina. Era una donna colta: “litteris Graecis, Latinis docta, psallere saltare elegantius quam necesse est probae, multa alia, quae instrumenta luxuriae sunt. Sed ei cariora semper omnia quam decus atque pudicitia fuit" ( Bellum Catilinae , 25) sapeva di lettere greche e latine, suonare e danzare più raffinatamente di quanto convenga a una donna onesta e molte altre arti che sono strumenti di lussuria. Ma  tutto le fu sempre più caro del decoro e della pudicizia.

 

Sentiamo qualche parola dei Greci su  aijdwv" pudore, rispetto, senso di vergogna.

Aijdwv" è  considerato già da Esiodo uno dei pilastri del vivere umano e civile (l'altro è Nevmesi", la riprovazione, lo sdegno): quando se ne andranno dalla terra  non ci sarà più scampo dal male (Opere, 200-201).

La vergogna, ossia la riservatezza e il ritegno contaddistinguono il giovane beneducato da quello petulante e sfacciato  nelle Nuvole  di Aristofane dove il Discorso Giusto prescrive al ragazzo di essere "th'" aijdou'"...ta[galm j "(v. 995), l'immagine del ritegno. Al tempo dell'ajrcaiva paideiva (961, l'educazione antica) infatti la castità (swfrosuvnh, 962) era tenuta in gran conto: nessuno modulando mollemente la voce andava verso l'amante facendo con gli occhi il lenone a se stesso (980).

Nel mito di Prometeo del Protagora  di Platone (322b): senza aijdw'" e divkh, "virtù altrettanto morali quanto politiche", distribuite a tutti non esisterebbero le città:"Hermes è incaricato di portarle agli uomini; ma, nella distribuzione, deve fare l'opposto di quello che aveva fatto Prometeo: non dare a ciascuno una capacità differente, ma le stesse a tutti egualmente e indistintamente"[53]. 

 

Virgilio dunque dà voce agli scrupoli sessuali che trattengono la regina, mentre la sorella Anna con la voce del buon senso le consiglia di non opporsi anche a un amore gradito ("placitone etiam pugnabis amori? ", v. 38) e dunque naturale;  tuttavia tale modo reale e razionale di vedere eros viene smontato dal poeta

Simile a quello di Anna è il consiglio della nutrice di Fedra che, con ragioni del resto assai diverse da quelle di Didone, lotta contro la propria passione nell'Ippolito di Euripide :" ouj lovgwn eujschmovnwn-dei' s j, ajlla; tajndrov"", vv. 490-491, tu non hai bisogno di discorsi speciosi, dice l’anziana alla giovane innamorata, ma di quell'uomo.

Le proposte delle nutrici spesso sono più convincenti di quelle degli accigliati catoniani:"nutrīcum et paedagogorum rettulēre mox in adulescentiam mores "[54], ben presto i ragazzi riproducono nella giovinezza i costumi di nutrici e pedagoghi.  

Bologna 7 giugno 2021 ore 19, 31

giovanni ghiselli

 

La storia di Didone terza parte con l’accostamento a quella di Medea

Fuoco ferita da freccia e follia tutti insieme tormentano  Didone durante la successiva cerimonia religiosa con cui la regina cerca la pace:"quid  vota furentem,/ quid delubra iuvant? Est mollis flamma medullas/interea et tacitum vivit sub pectore volnus./ Uritur infelix Dido totaque vagatur/urbe furens, qualis coniecta cerva sagitta"  (IV, vv. 65-69) a che giovano i sacrifici, a che i templi a chi è fuori di sé? divora i teneri midolli la fiamma intanto e si ravviva in silenzio la ferita sotto il petto. Brucia l' infelice Didone e vaga fuori di sé per tutta la città, quale cerva dopo che è stata scagliata la freccia.

-Est= edit. La radice deriva dall'indoeuropeo *ed-  da cui discendono  pure il greco   [esqivw< *ejjjd-qivw  l' italiano inedia, l'inglese to eat ,  il tedesco essen .-mollis=molles.

-Uritur: c'è un consiglio dell'apostolo Paolo alle vedove che contiene questo verbo, con questa diatesi:"Dico autem innuptis et viduis:"Bonum est illis si sic maneant sicut et ego; quod si non contineant, nubant. Melius est autem nubere quam uri" (Ai Corinzi , I, 7, 9), dico però a quanti non sono sposati e alle vedove: è bene per loro che stiano così come sto io, ma se non si contengono, si sposino. E' meglio infatti sposarsi che ardere (krei'tton gavr ejstin gamh'sai h] purou'sqai).

Possiamo fare una riflessione tutta nostra: se l'amore è fuoco e il matrimonio lo spenge, il matrimonio nega l'amore.

 

L'immagine della freccia che trafigge la cerva quale correlativo venatorio del dardo d'amore è una " virgiliana comparatio " che impressionò Petrarca schiavo e malato d'amore portandolo a identificarsi con la creatura colpita, ossia, in definitiva, con Didone:"Huic ego cerve non absimilis factus sum. Fugi enim, sed malum meum ubīque circumfĕrens "[55] io sono diventato non dissimile a questa cerva. Sono fuggito infatti, ma portando il mio male dappertutto in giro con me. Poco più avanti Petrarca cita Orazio per significare l'impossibilità di liberarsi dal dardo amoroso:"celum non animum mutant, qui trans mare currunt "[56] cambiano il cielo non l'animo quelli che corrono al di là del mare.  

 

Per quanto riguarda la dipendenza di Virgilio da Catullo segnalo due versi del Liber : "ignis mollibus ardet in medullis " (45, 16), arde il fuoco nelle tenere midolle, dice Acme a Settimio.

Poi: "cum penitus maestas exēdit cura medullas "( 66, 23), quando una pena profonda consumò le afflitte midolla Qui si tratta di Berenice

 

La catena delle analogie prosegue con la Didone delle Heroides  di Ovidio-

La donna descrive questo suo  bruciare per Enea illustrandolo in maniera particolareggiata con due paragoni, il secondo dei quali prefigura il suicidio per amore:"Uror, ut inducto ceratae sulpure taedae;/ut pia fumosis addita tura rogis "(VII, 25-26), brucio come fiaccole coperte di cera e impregnate di zolfo; come i santi incensi gettati sui roghi fumosi.  

 

Il dardo d'amore nell'Eneide  è una canna mortale ficcata nel fianco:"haeret lateri letalis harundo " (IV, v.73).

Il sentimento amoroso  è dunque connesso al dolore, alla morte e al senso di colpa. La causa è il terrore dell'istinto che è sintomo di decadenza e di calo del turgore vitale.

Un’altra e[ri" è quella contro gli istinti "combattere gli istinti-questa è la formula della décadence ; fintanto che la vita è ascendente , felicità e istinti sono uguali"[57]

Rimasta sola nella casa vuota la digraziata regina si tormenta:"sola domo maeret vacua " (v. 82) o in altri momenti inganna se stessa trattenendo in grembo Ascanio "infandum si possit fallere amorem " (v. 85), per vedere se possa illudere l'indicibile amore. 

 

L’Amore vissuto come colpa e follia, può diventare anche crudeltà, nel caso che la donna abbia a portata di mano creature deboli-compresa se stessa- con cui prendersela:"Saevus Amor docuit natorum sanguine matrem/commaculare manus. Crudelis tu quoque, mater./Crudelis mater magis, an puer improbus ille? ", il crudele Amore insegnò alle madri a contaminare le mani col sangue dei figli. Crudele anche tu madre. Crudele la madre di più o quel figlio malvagio? canta Damone nell Ecloga  VIII (vv. 47-49) di Virgilio con riferimento a Medea, a Venere e a Cupido.

Anche Giunone, benevola e protettiva verso la regina di Cartagine, individua  l'amore di lei come ardore e furore:"ardet amans Dido traxitque per ossa furorem " ( IV, 101), arde d'amore Didone e ha contratto nelle ossa il furore. Ne parla con Venere auspicando un accordo che non ci sarà.

La pazzia  con ira e rabies secondo Giovenale rendono meno esecrabili i crimini di Medea e Procne, rispetto a quelli  delle matrone romane perpetrati per denaro o per il potere: “ et illae/grandia monstra suis audebant temporibus, sed/non propter nummos. Minor admiratio summis/ debetur monstris, quotiens facit ira nocentem /hunc sexum et rabie iecur incendente feruntur/praecipites(VI, 644-649), anche quelle ai loro tempi osavano grandi mostruosità, ma non per denaro. Meno stupore si deve alle mostruosità somme, tutte le volte che è l'ira a rendere assassino questo sesso ed esse sono trascinate a precipizio dalla rabbia furiosa che brucia il fegato.

L’ e[ri" tra due parti dell’anima di una stessa persona 

La  Medea  di Euripide  individua nel suo animo  un conflitto tra la passione furente e i ragionamenti, quindi comprende che l'emotività, sebbene sia causa dei massimi mali, per gli uomini è più forte dei suoi propositi:" Kai; manqavnw me;n oi\\\a dra'n mevllw kakav,-qumo;" de; kreivsswn tw'n ejmw'n bouleumavtwn,-o{sper megivstwn ai[tio" kakw'n brotoi'""( vv. 1078-1080), capisco quale abominio sto per compiere, ma più forte dei miei ragionamenti è la passione, che è causa dei mali più grandi per i mortali",  dice la furente nel quinto episodio dopo avere preso la decisione folle di uccidere i figli . 

Un'eco di questa situazione si trova nelle Metamorfosi di Ovidio dove Medea cerca di contrastare, senza successo, la passione per Giasone " et luctata diu, postquam ratione furorem/ vincere non poterat, "Frustra, Medea, repugnas." (VII, vv. 10-11), e dopo avere combattuto a lungo, dacché non poteva vincere la follia amorosa con la ragione, si disse "ti opponi invano, Medea". 

 

  

Nell'Eneide  il bruciare della regina Didone innamorata, prima ancora che l'amore venga consumato e che  fallisca, rende la donna miserrima  (v. 117) secondo la qualificazione della stessa  dea che la protegge.

 

Il desiderio amoroso viene realizzato durante la tempesta e a questo punto il  male diviene irreversibile e letale:"Ille dies primus leti primusque malorum/ causa fuit  "(v. 169-170), quel giorno fu il primo della morte e il primo dei mali, e ne fu la causa; anche perché Didone non si preoccupa della fama , ossia dell'infamia che gliene deriverà, in quanto pensa a un amore coniugale, senza contare che quel sant'uomo di Enea non aveva tempo per stare a lungo con lei.

 

Il desiderio non trova un limite nella vergogna che viene momentaneamente repressa ma non superata da Didone: il conflitto tra queste due forze contrastanti è  drammaticamente sentito dalla Medea vergine di Apollonio Rodio che il pudore (aijdwv") tratteneva , mentre un desiderio possente (qrasu;" i{mero" ) spingeva (Argonautiche , III, 653). 

La Medea di Apollonio ondeggia a lungo in preda alle contraddizioni: prima impreca contro Giasone (III, 466), poi contro il pudore e la fama (" ejrrevtw aijdwv" , ejrrevtw ajglai?h ", III, 785-786). Però subito dopo pensa di nuovo a cosa dirà la gente, a quale sarà la sua vergogna (ai\sco", v. 797), quale la sua disgrazia (a[th, v. 798).

 

Bologna 8 giugno 2021

giovanni ghiselli

 


[1]Secretum , III, 40.

[2]Ep. , I, 11, 27.

[3]F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli , p. 57.

[4] M. Fusillo, Lo spazio letterario della Grecia antica , I, 2, p. 124.

 

 

 

La storia di Didone quarta parte con altre donne abbandonate. Medea e Arianna

 

La “lussuria” della regina scatena l'ira di Iarba, re dei Getuli e pretendente respinto, e la complicità di Enea provoca la collera di Giove che considera legittimo e santo l'ardore sacro della gloria ("si nulla accendit tantarum gloria rerum ", v. 232); impuro e deleterio invece quello dell'amore. Il figlio di Venere  dunque "naviget " (v. 237), navighi,  non ami punto!

Quindi il re degli dèi manda Mercurio per rinfocolare i sensi di colpa. Appena vede Enea il messaggero infatti lo assale ("Continuo invadit ", v. 265) rimproverandolo per il suo crimine; quello di scordare il regno che è il suo destino: Tu (…)  uxorius (…) regni rerumque oblite tuarum 8265-267). Scordare è il vetitum maximum anche nell’Odissea (novstou te laqevsqai, IX, 97, mangiando i fiori del loto ) Scordare il ritorno per l’aedo che recita significa scordare l’Odissea.

Excursus Scordare

 

Scordare è non tenere nel cuore, dato che la memoria è in massima parte emotiva. Io almeno ricordo solo quello che mi sta a cuore, che ha colpito la mia emotività. Nell’Odissea  diversi compagni di Ulisse arrivano a scordare il ritorno novstou laqevsqai (IX, 97)

Sono quelli che mangiano i fiori del loto e si perdono nell’indifferenza. Sono i drogati.

Per me che studio e racconto quanto mi ha impressionato, e cerco di farlo leggendo il meno possibile, scordare costituirebbe il fallimento della mia identità di conferenziere-educatore che mi sta a cuore.

Per Odisseo che non vuole scordare il ritorno a Itaca novstou laqevsqai è il vetitum maximum. Anche per me e per altri studiosi seri è un tabù,

 

Ma vediamo l’altra faccia di questa medaglia.

Nell’Eneide di Virgilio, Mercurio mandato da Giove investe Enea rimproverandolo: “Continuo invadit: Tu nunc, Karthaginis altae

Fundamenta locas pulchramque uxorius urbem

Extruis heu regni  rerumque oblite tuarum?” (265-267)

Tu ora getti le fondamenta dell’ala Cartagine, schiavo di donna, e costruisci la bella città, dimentico ahi del regno tuo e  delle cose che devi? 

Doveva dare pincipio  a quella che sarebbe stata la Roma imperiale e imperialista quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque” (Annales, XV, 44), dove, a detta di Tacito, tutte le atrocità e le vergogne confluiscono da tutte le parti e si divulgano.

Senza contare il mattatoio delle guerre sulle quali si è fondato l’impero

giovanni ghiselli

 

L'eroe troiano davanti a tanto rimprovero nemmeno cerca di difendere l'amore:"obmutuit amens/arrectaeque horrore comae et vox faucibus haesit  "(vv. 280-281), restò muto, fuori di sé, gli si drizzarono i capelli per il terrore e la voce si arrestò nella gola.

Ma Enea deve compiere altre imprese grandi e meravigliose, sicché non rimane agghiacciato a lungo : infatti lo scalda un ardore legittimo e davvero degno di un eroe:"Ardet abire fuga " (v. 281), arde di andarsene in fuga, e dà ordini per prepararla furtivamente, riservandosi di parlarne a Didone nei momenti più dolci.

La regina però lo capisce da sola ("quis fallere possit amantem?  ", v. 296, chi potrebbe ingannare un'amante? ), lei che temeva tutte le situazioni  anche tranquille:"omnia tuta timens" (v. 298). L'ossimoro che accosta parole di significato contrastante evidenzia quanto di contraddittorio c'è nell'anima di questa donna innamorata e ansiosa. L'allitterazione evoca un battere di colpi e contraccolpi sul’incudine dove il male si posa.

 Per giunta la Fama,  impia , porta alla donna già furibonda (furenti , v. 298).  la notizia del fatto il suo virtuoso eroe sta rivelandosi perfido e  prepara la fuga.

   Allora scoppia di nuovo l'incendio della pazzia e dell'amore:"Saevit inops animi totamque incensa per urbem/ bacchatur ", vv. 300-301, ella infuria, priva di senno, e infiammata baccheggia per tutta la città.

Quindi la disgraziata affronta Enea al grido di "perfide " (305), che echeggia il lamento dell'Arianna abbandonata di Catullo[58]

Questa pessima fama di Enea ha un’eco in Shakespeare.  La figlia di Cimbelino Imogene, falsamente creduta infedele dice che molti uomini onesti vennero ritenuti falsi quando vennero interpretati tali quale era il falso Enea ( being heard like false Aeneas, Cimbelino, III, 4, 58-59) 

 

 Prima Didone lo aggredisce rinfacciandogli la malafede, poi lo supplica, prospettandogli la propria morte, invocandone il senso dell'onore, la gratitudine dovuta, e cercando di  impietosirlo:" Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum/posse nefas tacitusque mea decedere terra?/nec te noster amor nec te data dextera quondam/nec moritura tenet crudeli funere Dido? " (Eneide, IV, vv. 305-308), hai sperato, perfido persino di dissimulare un così grande misfatto, e di poter andartene dalla mia terra senza dir niente? non ti trattiene il nostro amore né la destra data una volta né Didone pronta a morire di morte crudele?

meaterra: la terra e la donna sono spesso identificate nella letteratura antica come non poche volte in quella moderna: Pound, a proposito dell'Ulisse  di Joyce, ossia di Leopold Bloom, nota che :"La sua sposa Gea-Tellus, simbolo della terra, è il suolo dal quale l'intelletto tenta di saltar via, e nel quale ricade in saecula saeculorum "[59].-

A proposito della  data dextera si ricorderanno della Medea di Euripide i versi 21-22:"ajnakalei' de; dexia'"-pivstin megivsthn, reclama il sommo impegno della mano destra.

Vediamo altri tre versi:" per conubia nostra, per inceptos hymenaeos,/si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam/dulce meum, miserere domus labentis et istam,/oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem " (vv. 316-319), per la nostra unione, per le nozze iniziate, se ho ben meritato di te, o se per te c'è stato qualcosa di dolce in me, abbi pietà di una casa che vacilla e deponi questo proposito, ti prego, se ancora c'è qualche posto per le preghiere. Questi versi contengono echi catulliani

La figlia di Minosse, piantata in asso da Teseo mentre dormiva nell'isola di Dia, al risveglio si dispera, corre come una puledra e impreca contro il perfido amante:"Sicine me patriis avectam, perfide, ab aris,/ perfide [2], deserto liquisti in litore, Theseu?/Sicine discedens neglecto numine divum/inmemor a! devota domum periuria portas? " (Catullo 64, vv. 132-135)  è così che tu, traditore, condottami via dal focolare paterno, mi hai abbandonata in una spiaggia deserta, Teseo, traditore? E' così che tu, fuggendo dopo avere disprezzato il potere dei numi, dimentico ah! porti a casa i tuoi maledetti spergiuri? l'Arianna dell'opus maximum di Catullo emetteva grida acute dal petto rivolgendosi al mare scrutato dai monti o dalla riva. La ragazza, rievoca le  sue promesse vane che l'uomo crudelis (136) : "at non haec quondam blandā promissa dedisti- voce mihi, non haec, miserae, sperare iubebas,-sed conubia laeta, sed optatos hymenaeos " (64, 139-141) 

Si bene quid de te merui detto da Didone (317) è echeggiato da Dante, quando Virgilio si rivolge alla fiamma antica che contiene i politici fraudolenti Ulisse e Diomede: “s’io meritai di voi mentre ch’io vissi-s’io meritai di voi assai o poco” (Inferno, XXVI, 80-81).

 

Entrambe le donne rinfacciano all'amante in fuga le nozze fatte da loro sperare e terminate appena iniziate.

Il Teseo di Catullo pagherà il fio della sua perfidia.

Arianna abbandonata glielo augura e lo prevede:"sed quali solam Theseus me mente reliquit,/tali mente, deae, funestet seque suosque " (vv. 200-201), con quale animo Teseo mi lasciò sola, con tale, o dee, getti nel lutto se stesso e i suoi.

 In effetti Giove ascolta la preghiera la nemesi si compie:"annuit invicto caelestum numine rector " (v. 204), il re degli dèi annuì con il suo assenso invincibile.

La fides  violata incorre qui nella punizione divina: Arianna, credendosi ormai destinata alla morte, invoca su Teseo la maledizione degli dèi, e la sua preghiera non rimane inascoltata. Teseo è immemor  tanto delle promesse ad Arianna (il matrimonio) quanto di quelle al padre (issare le vele bianche) e questo suo carattere costante è quello che lo porta tanto a tradire la donna che lo ama quanto a provocare la morte del proprio padre.

E’ il contrappasso.

 

Che la slealtà verso chi si fidava rende infelici prima di tutti gli stessi sleali lo afferma già Isocrate nel Nicocle (del 368 ca) :" jaqliwtavtou" hJgei'sqe kai; dustucestavtou" o{soi peri; tou;" pisteuvonta" a[pistoi gegovnasin" (58), reputate molto infelici e disgraziati quanti sono stati sleali nei confronti di chi credeva in loro; infatti, continua il re di Salamina di Cipro che pronuncia il discorso, è necessario che tali uomini passino il resto della vita con la paura di tutto e senza più fidarsi di nessuno. 

In Pene d’amore perdute di Shakespeare leggiamo: “Thus pour the stars down plagues for perjury” (V, 2),  così le stelle versano guai sullo spergiuro.

 Catullo per lo mano non fa di Teseo l’incarnazione della pietas.

 

Enea è il santo eroe magnificato da Virgilio oppure un seduttore come il fallace Giasone che Dante mette all’inferno dove per giunta situa  Didone?

 

Virgilio viene deriso da Ovidio per l’agiografia di Enea che il poeta di Sulmona mette nel novero dei seduttori.

Nel proemio dell'Eneide[60] Virgilio  domanda con meraviglia:"Musa, mihi causas memora, quo numine laeso,/quidve dolens regina deum tot volvere casus/insignem pietate virum, tot adire labores/impulerit. Tantaene animis caelestibus irae?" (vv, 8-11), o Musa, dimmi le ragioni, per quale offesa volontà divina, o di che cosa dolendosi la regina degli dèi abbia spinto un uomo insigne per la devozione a girare per tante sventure, ad affrontare tante fatiche. Così grandi sono le ire nell'animo dei celesti?

 Ebbene Ovidio trova la ragione delle grandi ire divine:  dopo avere affermato che gli uomini ingannano spesso, più delle tenere fanciulle (saepe viri fallunt, tenerae non saepe puellae, Ars, III, 31) il poeta peligno inserisce Enea tra i  seduttori  ingannevoli quali  il fallax Iason  (Ars, III, 33) e Teseo, tanto perfido che, se fosse dipeso da lui, Arianna avrebbe nutrito gli uccelli marini.

 Enea dunque "et famam pietatis habet, tamen hospes et ensem[61]/praebuit et causam mortis, Elissa, tuae" (Ars, III, 39-40), ha la nomèa di uomo pio, tuttavia da ospite ti offrì la spada e il motivo della morte tua, Elissa. Ovidio dunque smaschera Enea e il poeta che lo celebra come antenato di Augusto.

 

Il  dulce meum rammentato da Didone a Enea (v. 318) ricorda quello che Tecmessa cerca di richiamare alla mente di Aiace quando, nella tragedia di Sofocle, tenta di dissuaderlo dal suicidio:"  ajndriv toi crew;n-mnhvnhn prosei'nai, terpno;n ei[ tiv pou pavqh/:- cavri" cavrin gavr ejstin hJ

tivktous j ajei;-o{tou d j ajporrei' mnh'sti" eu\ peponqovto",-oujk  a]n

levgoit j e[q j ou|to" eujgenh;" ajnhvr" (Aiace , vv. 520-524), per l'uomo certo è doveroso che rimanga un ricordo congiunto a qualche gioia se in qualche modo l'ha provata: infatti grazia genera grazia, sempre.

. Chiunque perda il ricordo di avere ricevuto del bene, non può più essere chiamato nobile.  Ancora una volta scordare è male.

 

Ma tra i nostri amanti non può esserci più nulla di buono poiché compiacenza e condiscendenza devono essere reciproche mentre Enea non vuole saperne di Didone, nemmeno quando questa arriva a dire " Saltem si qua mihi de te suscepta fuisset/ante fugam suboles, si quis mihi parvulus aula/luderet Aeneas, qui te tamen ore referret,/non equidem omnino capta et deserta viderer "(Eneide, IV, vv. 328-330),  se almeno fosse stato da me concepito un figlio tuo prima della tua fuga e nella mia reggia giocasse un piccolo Enea che comunque sia ti riproducesse nel viso, certo non mi sentirei del tutto ingannata e abbandonata.

Ma l'eroe è chiamato altrove dal destino e non vuole sentire altra fiamma che quella del fatum

Salvo l'affetto per la donna che sta abbandonando (ci mancherebbe!), egli ha doveri più forti verso gli dèi, il padre e il figlio. Sono gli argomenti classici degli amanti (uomini e ora anche tante donne) che nemmeno ci pensano a lasciare la famiglia. Apollo attraverso vari oracoli gli ha ordinato di raggiungere l'Italia:"hic amor, haec patria est " (v. 347), questo è l'amore, questa è la patria. Inoltre l'eroe riceve rimproveri  dall'immagine turbata del padre morto, ovviamente in somnis ,  nei sogni, in tutti: quotiens  umentibus umbris-nox operit terras, vv. 351-352, ogni volta che la notte con umide ombre copre le terre, diverse immagini oniriche, il padre,  il figlio e il messo divino mandato da Giove, lo biasimano per quel suo iniquo procrastinare il compimento del destino. Sicché conclude dicendo all’amante:"Desine meque tuis incendere teque querellis:/ Italiam non sponte sequor " (vv. 360-61), smetti di infiammare me e te stessa con i lamenti: non cerco l'Italia di mia volontà.

 La parola querellis   ci porta di nuovo a ricordare l’opus maximum di Catullo (vedi, c. 64, v. 130 e v. 195, dove querellae sono i "lamenti" di Arianna abbandonata).

Enea da una parte, Prometeo e Antigone dall’altra

Enea in fuga, affrontato da Didone, trova la scusa della coercizione del fato che lo obbliga a lasciarla (Italiam non sponte sequor, Eneide, IV, 361). Questa espressione  prefigura quanto dirà all’ombra dell’amante morta suicida “invitus regina tuo de litore cessi "  (Eneide, VI, v. 460) contro la mia volontà, regina, mi allontanai dalla tua spiaggia.

 

Tali parole rendono bene l'idea, anche se non voluta da Virgilio, della viltà dell'uomo.

Si pensi a Prometeo di Eschilo che dice: io sapevo tutto questo:/di mia volontà, di mia volontà ho compiuto la trasgressione, non lo negherò (eJkw;n eJkw;n h{marton, oujk ajrnhvsomai)/ aiutando i mortali ho trovato io stesso le pene (aujto;~ huJrovmhn povnou~ )"(Prometeo incatenato, . 265-267).

Oppure si ponga mente all’eroica ragazza Antigone che risponde al tiranno Creonte:”kai; fhmi; dra`sai koujk ajparnnou`mai to; mhv” (Sofocle, Antigone, v. 443), confermo di averlo fatto e non lo nego.

Prometeo e Antigone rivendicano ciascuno la propria trasgressione a costo del martirio.

 Noi sappiamo che quella dell'amore, quando c'è, è la forza massima, ineluttabile; lo sa anche Virgilio (omnia vincit Amor, et nos cedamus amori " Ecloga X, v. 69, tutto vince Amore e noi all'Amore cediamo), e lo sa pure Didone che si dispera siccome capisce che Enea non la ama e non ha il coraggio di dirlo. Comprende che ha fatto l’amore con un uomo che non lo meritava e disprezza se stessa perché non l’aveva capito.

Molto più onestamente Odisseo lascia Calipso senza cercare scuse: Ermes lo cercava sull’isola di Ogigia:" e lo trovò seduto sul lido: mai gli occhi/erano asciutti di lacrime, ma gli si struggeva la dolce vita/mentre sospirava il ritorno, poiché non gli piaceva più la ninfa" (Odissea, V, 151-153). Calipso lo comprende e gli dà il viatico per il viaggio.

Didone invece si ammazza perché è stata lasciata in malo modo, in maniera vile, falsa e volgare

Aggiungo che il verso di scusa “invitus regina tuo de litore cessi "  risente di Catullo che dà voce al rimpianto della treccia per la testa della regina Berenice:"invita, o regina, tuo de vertice cessi " (66, v.39), contro voglia o regina, mi sono allontanata dal tuo capo.

 

Bologna 8 giugno 2021 ore 18

giovanni ghiselli

 

 

Didone parte V

L’amore infelice nelle Bucoliche  e nelle Georgiche. Amor omnnibus idem

Notturni di Virgilio, Saffo, Teocrito, Alcmane

 

Nell'ecloga II   il pastore Coridone arde d'amore per il bell'Alessi. (Formosum pastor Corydon ardebat Alexin, 1) che non ha pietà di lui. Fin dalle Bucoliche  (39 a. C) Virgilio è il poeta dell'amore infelice e luttuoso, il cantore della passione sulla quale si proietta un'ombra di morte:" O crudelis Alexi, nihil mea carmina curas?/nil nostri miserere? Mori me denique coges" (vv. 6-7), o crudele Alessi, non ti curi dei miei canti? non hai compassione di me? Infine mi costringerai a morire , sospira l'innamorato ardente.

Coridone non ha tregua dall'ardore amoroso nemmeno quando il bestiame e, con motivo teocriteo[62]  perfino i ramarri, riposano al fresco:"Nunc etiam pecudes umbras et frigora captant / Nunc viridis[63] etiam occultant spineta lacertos "  (vv. 8-9), ora anche il bestiame cerca di prendere le ombre e il fresco, ora i rovi spinosi nascondono perfino i verdi  ramarri.

Alla fine di questa bucolica il tramonto  raddoppia le ombre ma non concede pausa all'ardore di Coridone e alla passione che trascina ciascuno sconvolgendo ogni misura :"…trahit sua quemque voluptas (65) “et sol crescentes decedens duplicat umbras;/me tamen urit amor : quis enim modus adsit amori?  " (v.65 e vv. 67-68). 

Chi è afferrato da Eros ignora  la giusta misura siccome l'amore è follia:"A Corydon, Corydon, quae te dementia cepit!  ", v. 69.

 

Nella Georgica III, che tratta l'allevamento del bestiame, la conflagrazione amorosa riguarda, oltre  gli umani, anche  gli animali:"Carpit enim vires paulatim uritque videndo/ femina, nec nemorum patitur meminisse nec herbae/ dulcibus illa quidem inlecebris et saepe superbos/cornibus[64] inter se subigit decernere amantis[65],  " (v. 215-218)  logora infatti le forze a poco a poco, e li brucia la femmina in vista, e non lascia che si ricordino dei boschi né dell'erba, ma quella certo li attira con dolci seduzioni e spesso costringe i fieri pretendenti  a combattere con le corna.  

E’ l’eris, talora mortale, tra i pretendenti.

 

Tale istinto è uguale per tutte le creature viventi:  "Omne adeo genus in terris hominumque ferarumque/et genus aequoreum, pecudes pictaeque volucres/ in furias ignemque ruunt: amor omnibus idem  "(vv. 242-244) così ogni specie sulle terre di uomini e di animali, e la razza marina, il bestiame e gli uccelli colorati si precipitano in ardori furiosi, amore è lo stesso per tutti.

Virgilio è poeta protetto e deve assecondare il pogramma di restaurazione degli antiqui mores voluto dal suo protettore.

 Pogramma che comunque fallirà.

 

Nemmeno nelle Metamorfosi del mulierosus poeta Ovidio mancano casi di ustione amorosa, ed essa tocca perfino gli dèi:"sic deus in flammas abiit, sic pectore toto/uritur " ( I, 495-496),  così il dio si infiammò, così in tutto il petto/brucia. Si tratta di Febo che brucia per Dafne. Più avanti (III, 464) è Narciso che brucia per amore di se stesso:"uror amore mei, flammas moveoque feroque ", brucio per amore di me stesso e porto e agito le fiamme.

 

Ma torniamo a Didone (V parte)

Didone non accetta le scuse e, infiammata ("accensa " v. 364), rimprovera all'amante in partenza una perfidia e un'ingratitudine, tanto grandi da avere spento in lei ogni possibilità di credere nella buona fede che oramai in nessun luogo è sicura"Nusquam tuta fides " (v. 372).

Foedus  e fides  sono legati etimologicamente: foedus  è l'accordo, il patto stipulato secondo le sacre regole della fides

Fides insomma è il rispetto del foedus, il trattato reso visibile e simboleggiato da una stretta delle destre (cfr. Eneide IV, vv. 305-308 e Medea di Euripide 21-22 citati sopra).  

 

la regina  infiammata dunque investe Enea accusandolo di crudeltà disumana. Esprime sfiducia perfino in Giove e Giunone che non tutelano la fides. La donna sente che il fuoco d'amore è diventato un incendio di odio:" Heu  furiis incensa feror (v. 376 e cfr. v. 300 citato sopra), ahi sono trascinata in fiamme dalle furie!

 

Laa donna infuriata congeda con  maledizioni l'amante che la sta abbandonando:" i, sequere Italiam ventis, pete regna per undas;/spero equidem mediis, si quid pia numina possunt,/supplicia hausurum scopulis et nomine Dido/saepe vocaturum. Sequar atris ignibus absens/et, cum frigida mors anima seduxerit artus,/ omnibus umbra locis adero. Dabis, improbe, poenas;/ audiam et haec manis veniet mihi fama sub imos " (vv. 381- 386), va', insegui l'Italia coi venti, cerca un regno attraverso le onde. Spero però che in mezzo agli scogli, se i pii numi hanno qualche potere, berrai la pena e invocherai spesso Didone per nome. Ti inseguirò con fiaccole funebri anche da lontano e quando la gelida morte avrà separato le mie membra dall'anima, sarò presente in tutti i luoghi come ombra. pagherai il fio malvagio! starò in ascolto e questa fama mi raggiungerà sotto le ombre profonde.

 Si noti che ventis e undas significano l'instabilità pericolosa della ricerca di una terra da parte di Enea e tale fluttuare  corrisponde all'inaffidabilità dell'anima di Enea: fissi sono invece gli scogli che colpiranno il traditore facendogli bere quell'acqua dove erano stati scritti i suoi giuramenti spergiuri. Didone favorirà quella morte e la fama che l'ha infamata da viva la compenserà portandogliene la sospirata notizia

Il furor  d'amore è divenuto furor  di odio senza confini.

 

Ma il “pio” eroe deve eseguire comunque gli ordini degli dèi e non può permettersi l'amore:"At pius Aeneas, quamquam lenire dolentem/solando cupit et dictis avertere curas,/multa gemens magnoque animo labefacto amore,/iussa tamen divom exsequitur classemque revisit " (vv. 393-396), ma il pio Enea, sebbene desideri mitigare la dolente consolandola e rimuovere gli affanni con le parole, gemendo molto e scosso nell'animo da grande amore, esegue nondimeno gli ordini degli dèi e torna a vedere la flotta.

 Pius Aeneas è una formula che torna una ventina di volte nel poema.

 

Personalmente assimilo la pietas di Enea all'ipocrisia  del furfante bigotto. La assimilo pure al culto della peiqarciva (disciplina) di Creonte che, per reprimere la disobbedienza della nipote, la manda a morte, ed ella morendo rivendica la pietà come virtù propria:":"O rocca della terra di Tebe e dei miei padri/e dèi progenitori/io vengo portata via e non indugio più./Guardate, maggiorenti di Tebe,/l'unica superstite della stirpe regale,/quali sofferenze inumane da quali uomini subisco/poiché onorai la pietà -th;n eujsebivan sebivsasa" ( Antigone,  vv.937-943).

  Capisco e apprezzo di più la motivazione dell'abbandono di Calipso da parte di Odisseo:" ejpei; oujkevti h{ndanh nuvmfh " (Odissea , V, 153), poiché la ninfa non le piaceva più.

 

Virgilio, mosso a compassione della donna, e non volendo del resto incolpare il suo eroe, ritorce e fa ricadere sull'amore la maledizione indirizzata a Enea dall'amante abbandonata:"Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis!" (Eneide, IV, v. 412), malvagio Amore, a cosa non spingi i petti mortali!

 

E' un'apostrofe  contro l'amore che viene messo allo stesso livello dell'auri sacra fames , la maledetta fame dell'oro che ha spinto il re di Tracia Polimestore a uccidere l'ospite Polidoro:"Quid non mortalia pectora cogis,/ auri sacra fames! " (Eneide , III, 56-57).

 

Didone fa un'ultima prova "ne quid inexpertum frustra moritura relinquat " (v. 415) per non lasciare nulla di intentato, destinata com'è a morire invano. Quello dell'amore è un piano inclinato e scivoloso che conduce inevitabilmente alla rovina (cfr. infelix, pesti devota futurae già nel I canto, v.712). Dunque la regina manda la sorella Anna da Enea a chiedere l'ultima grazia (extremam...veniam , v. 435) di un rinvio:"tempus inane peto, requiem spatiumque furori,/dum mea me victam doceat fortuna dolere " (vv. 433-434), un tempo di intervallo chiedo, una tregua e un respiro al mio furore, finché la mia sorte insegni a me vinta a soffrire. L'intervallo si deve comunque concedere anche ai ragazzini nelle scuole (danda est tamen omnibus aliqua remissio raccomanda Quintiliano nella sua Institutio oratoria , I, 8) ma Enea rimane inesorabile:"fata obstant ", v. 440, i destini si oppongono e la dura volontà dell'eroe si conforma alla necessità che ha le mani d'acciaio.

 La sua mente rimane immota come le radici di una quercia scossa dal vento.   

 

I notturni di Virgilio, Saffo, Teocrito, Alcmane

Nemmeno la notte che porta riposo a tutte le creature lenisce l'affanno dell'abbandonata:"Nox erat et placidum carpebant fessa soporem/corpora per terras silvaeque et saeva quierant/aequora, cum medio volvontur sidera lapsu,/cum tacet omnis ager, pecudes pictaeque volucres,/quaeque lacus late liquidos quaeque aspera dumis/rura tenent, somno positae sub nocte silenti/(lenibant curas et corda oblita laborum[66])/At non infelix animi Phoenissa neque umquam/solvitur in somnos oculisve aut pectore noctem/accipit: ingeminant curae rursusque resurgens/saevit amor magnoque irarum fluctuat aestu " (vv. 522-532), Era notte e i corpi stanchi raccoglievano per le terre il placido sonno e le selve e le acque furiose erano tranquille, quando le stelle si volgono alla metà del loro giro, quando tace ogni campo, le bestie e gli uccelli variopinti, sia quelli che abitano per largo tratto i limpidi laghi, sia quelli delle campagne ispide di cespugli, posati nel sonno sotto la notte silenziosa/calmavano gli affanni e i cuori dimentichi delle fatiche/.

Ma la Fenicia infelice nell'animo non si libera mai nel sonno e non accoglie la notte negli occhi o nel petto: raddoppiano gli affanni e l'amore, insorgendo di nuovo, infuria e fluttua in un grande ribollimento di ire.

 

 Ecco dunque il contrasto tra la quiete della natura e l'agitazione della creatura che si sente in colpa.

 

La natura in Saffo è sempre portatrice di luminosa bellezza che offre ristoro ai mali, consolazione per le perdite, e compagnia di vario genere: malinconica nella solitudine, festosa, floreale e variopinta nei momenti lieti.

Vediamo un paio di notturni. Fr. 94D:

"E' tramontata la luna

 e le Pleiadi; è a metà

 la notte[67], trascorre la giovinezza

e io dormo sola (e[gw de, movna kateuvdw)"

 

Admeto dopo il funerale di Alcesti lamenta il fatto che

 i vestiti a lutto con mevlane~ stolmoiv lo accompagnano a casa levktrwn koivta~ ej~ ejrhvmou~ (Euripide, Alcesti, v. 925), a giacigli di letti vuoti. 

 

Orazio(in Sat . I, 5, 82-83) utilizza, in un contesto ironico, il luogo saffico:"hic ego mendacem stultissimus usque puellam/ad mediam noctem expecto ", qui io sono tanto stupido da aspettare fino a mezzanotte una ragazza bugiarda.

 

 

Fr. 4D. "Le stelle intorno alla bella luna

nascondono di nuovo l'immagine lucente,

quando, piena,  splende al massimo

su tutta la terra

...e si inargenta"[68].

 

Il notturno secondo me più  suggestivo è quello di Alcmane lirico corale, di lingua dorica, del VII secolo:" Dormono le cime dei monti e i burroni/e le balze e anche le gole/e le specie degli animali quante ne nutre la nera terra/e le fiere montane e la stirpe delle api/e i mostri negli abissi del mare purpureo; /dormono le razze degli uccelli dalle ampie ali" (fr. 58 D.).

 

Il contrasto rilevato da Virgilio si trova in Apollonio Rodio quando cala la notte che porta il desiderio del sonno a tutti ma non a Medea tenuta sveglia dal desiderio di Giasone:" quindi la notte portava la tenebra sopra la terra; nel mare i marinai fissarono l'Orsa Maggiore e le stelle di Orione dalle navi, e qualche viandante e custode di porte desiderava il sonno, e un denso torpore avvolgeva una madre di bambini morti; né c'era più abbaiare di cani per la città, né chiasso sonoro: il silenzio possedeva la tenebra che diventava nera. Ma il dolce sonno non prese Medea: molti pensieri la tenevano sveglia poiché le mancava Giasone e temeva la possente forza dei tori"(Le Argonautiche , III, 744-753).

 

Già in questo poeta ellenistico alla natura forte e sana del lirico arcaico Alcmane è succeduto un mondo che incornicia il dolore degli uomini. Quella madre di bimbi morti sembra anticipare vedove, orfani e simili sofferenti pascoliani.

 

Bologna 9 giugno 2021 ore 10, 11

giovanni ghiselli

 


Parte settima. Il suicidio di Didone

 

Un oggetto con presenza simultanea nella letteratura antica: la spada del suicidio donata dal nemico. Segue il punto di vista della regina che è opposto a quello di Enea. Appena  sveglia Didone si

accorge dell'abbandono, si infuria e vorrebbe attaccare all’amante in fuga il  fuoco che la divora  per distruggerlo:"ferte citi flammas, date tela, impellite remos! " (Eneide IV, v. 594), portate, svelti le fiamme, spiegate le vele, spingete i remi!  Per lei le azioni di Enea sono tutt'altro che pie:"nunc te facta impia tangunt? " (v. 596), soltanto ora ti colpiscono le scelleratezze? domanda a se stessa.

 

 Quindi torna la denuncia della perfidia:"En dextra fidesque! " (v. 597), ecco la fedeltà dell'impegno! C'è il rimpianto di non avere usato il suo fuoco per provocare una conflagrazione :"faces in castra tulissem/implessemque foros flammis  natumque patremque/cum genere extinxem[69], memet super ipsa dedissem " (vv. 604-606), avrei potuto portare le fiaccole nell'accampamento, e riempire di fiamme le corsie delle navi  e il figlio e il padre  annientare con tutta la razza, e me stessa avrei potuto gettare sopra di loro. Se non nella vita  potevano essere uniti almeno nella morte.  Dopo Eros-Eris, Eros-Thanatos.

 

Segue una maledizione per la cui attuazione sono chiamate a raccolta potenze celesti e infere. La preghiera nera della regina, deprecativa nei confronti di Enea  invoca anzitutto  il sole :"Sol, qui terrarum flammis opera omnia lustras " (v. 607), Sole che con le tue fiamme rischiari tutte le opere della terra. Il sole illumina e vede tutto

Gli altri numi invocati sono Giunone, la dea pronuba  che è stata "interpres curarum et conscia " (v. 608), intermediaria e al corrente delle pene di Didone; poi Ecate, la divinità infernale "nocturnisque Hecate triviis ululata per urbes " (609) invocata a ululati nei trivi notturni per le città.

 Hecate triformis torna nella preghiera nera della Medea di Seneca (v. 7). Un po’ tutta Didone è una filigrana di Medea.

Vengono poi chiamate le Furie vendicatrici di Elissa morente  e tutti gli dèi "Dirae ultrices et di morientis Elissae"  (v. 610). La regina li prega di rivolgere prima o poi la loro potenza contro quell'infandum caput  (v. 613) quella testa esecranda, abominevole.

 

Sentiamo Gaetano De Sanctis

“Più antico peraltro e più istruttivo è il rimanente della leggenda: la persona anzitutto d'Elissa, 'Allisat', la "Gioconda", che sembra una ipostasi della dea di Cartagine, Tanit[70]…l'intervento di Iarba, forse una divinità libica; il pianto di Elissa pel marito, in cui certo si rispecchia, come nel pianto d'Iside per Osiride o d'Afrodite per Adone, la triste e desolata vedovanza della natura nell'atto che le muoiano in seno durante il verno i germi vitali…Poi la lunga rivalità con Roma indusse nella leggenda, trasformandola, nuova vita"[71]. La leggenda, continua De Sanctis, si arricchì della storia d'amore di Enea e Didone, un "romanzo d'amore immaginato genialmente da un poeta guerriero[72] che di sugli esemplari alessandrini aveva appreso a pregiare la novella erotica e a vivificare d'intuizioni umane il mito, e dalle battaglie, cui aveva partecipato, della prima punica attingeva, non l'odio feroce per Cartagine che ispirarono alle generazioni più giovani le vicende della seconda, ma la fede nei destini di Roma e il rispetto cavalleresco per la sua degna rivale…E le tracce di Nevio seguì poi, rivestendo la nuova favola d'alta poesia, Vergilio; se pure all'abbandono di Elissa per parte d' Enea non seppe neanch'egli trovare una motivazione così umana e chiara come quella che trova Omero dell'abbandono di Calipso e di Circe per parte d'Odisseo. Omero gli aveva fornito lo spunto cantando, d'Odisseo, l'incontro con le dee amorose e lusinghiere e gli aveva insegnato a sovrapporre l'intervento divino liberatore, che compie e che risolve, alle contingenze e alle passioni umane, da cui rampolla per forza intrinseca la catastrofe. Ma non riuscì Virgilio di sostituire con passioni altrettanto umane e vive l'amore alla patria, il ricordo della famiglia, il sentimento del dovere verso i compagni, per cui Odisseo aveva già vinto virtualmente le lusinghe delle due dee incantatrici quando ne conseguì dall'aiuto degli dèi la vittoria attuale. Il mero capriccio del destino costringe Enea ad abbandonare la terra dove aveva trovato ospitalità ed amore, e a quel capriccio l'eroe sacrifica con fredda spietatezza i suoi sentimenti. Gli è che la figura d'Enea, diventata troppo ieratica e rigida

nell'entrare tra le figure schematiche della leggenda romana, non comportava quei contrasti di passioni che, dando alla luce uno sfondo cupo d'ombra, giustificano ad esempio in Euripide, artisticamente se non moralmente, il ripudio di Medea per parte di Iasone. Ma in Elissa invece il poeta gentile che aveva formato il gusto sulla letteratura erotica ellenistica…foggiò una immagine viva di donna innamorata e dimentica, per l'amore, di ogni cosa; assai, appunto per questo, lontana dalle maliarde omeriche, il cui segreto spirituale di dee è impenetrabile ad occhio umano, e non degna, per questo, d'essere tradita dall'uomo e dal destino. Con ciò, mentre nelle imprecazioni della moritura Vergilio faceva presentire l'impeto e l'odio di Annibale e nella tragica sorte di lei quella della sua città, era artisticamente giustificato il suicidio di Didone che il mito narrava e il mito stesso, delineato con una delicatezza di sentimento pari alla finezza della espressione, si trasformava in un dramma in un dramma immortale d'amore e di morte, in cui era adombrato il dramma della lotta tra Roma e Cartagine"[73].

 

Didone dunque si uccide maledicendo Enea gli augura quanto di peggio può capitare a un uomo: la guerra, la morte prematura  e l’insepoltura in mezzo alla sabbia:"sed cadat ante diem mediaque inhumatus harena " (v. 620)

Vengono prefigurate le guerre puniche: la discendenza di lei e quella di lui dovranno sempre odiarsi:"…nullus amor populis nec foedera sunto " (624), nessun amore né alleanza ci sia mai tra i due popoli.

Quindi viene evocata la figura di Annibale:"exoriare [74] aliquis nostris ex ossibus ultor,/ qui face Dardanios ferroque sequare colonos,/nunc, olim, quocumque dabunt se tempora vires " (vv. 625-627), sorgi tu dalle mie ossa, chiunque tu sia vendicatore che perseguiti col fuoco e col ferro i coloni Dardani, ora, poi,  in qualunque momento si offriranno le forze.

Questa grande fallita in amore, nel momento di morire, auspica la grande guerra contro i Romani di quello che sarà il più nobile fallito del mondo antico, secondo una definizione di G. De Sanctis.

 "Litora litoribus contraria, fluctibus undas/imprecor, arma armis: pugnent ipsique nepotesque " (vv. 628-629), auguro che i lidi contro i lidi, le onde contro i flutti, le armi contro le armi combattano loro stessi e i discendenti. L’Eris dpvrà coinvolgere i mari e le terre dei due popoli.

 

Didone poi vuole spezzare la luce: sale furibonda i gradini del suo alto rogo e snuda la spada di Enea, dono richiesto non per questo uso: " altos /conscendit furibunda rogos ensemque recludit/Dardanium, non hos quaesitum munus in usus " (vv. 646-647).

 

Non è difficile individuare nella spada un simbolo fallico, sulle tracce di Freud:" Tutti gli oggetti allungati: bastoni, tronchi, ombrelli (per il modo di aprirli, che può essere paragonato all'erezione!) intendono rappresentare il membro maschile, così come tutte le armi lunghe e acuminate coltelli, pugnali, picche"[75].

A maggior ragione questa spada nata come segno d'amore.

 

T. S. Eliot afferma che la tradizione deve essere conquistata con grande fatica. essa esige che si abbia anzitutto un buon senso storico cioè la consapevolezza che il passato è anche presente. Il senso storico costringe a scrivere    : "with a feeling that the whole of the literature of Europe from Homer and within it the whole of the literature of is own country has a simultaneous existence and composes a simultaneous order"[76],  con la coscienza che tutta la letteratura europea da Omero, e, all'interno di essa, tutta la letteratura del proprio paese, ha un'esistenza simultanea e compone un ordine simultaneo.

 

Nella letteratura europea simultanea da Omero in avanti hanno un’esistenza simultanea anche gli oggetti materiali. L'ensis lasciata da Enea e impiegata da Didone, quale dono richiesto non per essere usato in quel modo, ossia  per il suicidio, risale all'Aiace di Sofocle dove il Telamonio si uccide con la spada a borchie d'argento (xivfo" ajrgurovhlon) ricevuta in dono da Ettore[77], dopo averla ricordata come e[cqiston belw'n (Aiace, v. 658), la più odiosa tra le armi, e avere sentenziato che sono non doni, i doni dei nemici e non sono vantaggiosi:"ejcqrw'n a[dwra dw'ra koujk ojnhvsima" (v. 665).

Si può pensare anche allo scudo: in Archiloco (fr. 6 D.), in Orazio (Odi, II, 7, 10), in Tacito (Germania, 6, 7).

 

 In questo modo Virgilio non solo ci ricorda una concatenazione tragica dei destini, ma ci riporta, attraverso Sofocle, a Omero. Insomma accade che la letteratura europea diventi organica “swmatoeidh' sumbaivnei givnesqai”, poiché succede che si intreccino (sumplevkesqai) le opere degli autori, e  tendano tutte verso un unico fine (kai; pro;" e{n givnesqai tevlo" ). Polibio afferma questo a proposito dei fatti della  storia mondiale, unificati dai Romani in rebus ipsis, e da lui stesso nel racconto[78].

Noi auspichiamo questa organicità per i nostri studi

 

Didone si uccide conservando comunque il senso della propria grandezza poiché se non è possibile la felicità nella vita, per i magnanimi è sempre possibile, in una forma o in un'altra, la grandezza dell'eroismo:"Vixi et quem dederat cursum Fortuna peregi,/et nunc magna mei sub terras ibit imago " (vv. 653-654), ho vissuto e compiuto il percorso che la Fortuna mi aveva assegnato, e ora grande l'ombra mia andrà sotto terra.

Magna ha valore predicativo.

 

Didone riconosce a se stessa delle capacità realizzative che l'avrebbero anche resa felice se non avesse incontrato Enea :"Urbem praeclaram statui, mea moenia vidi,/ulta virum poenas inimico a fratre recepi:/heu nimium felix, si litora tantum/numquam Dardaniae tetigissent carinae " (vv. 655-658), ho fondato una città splendida, ho visto mura mie, vendicato il marito ho punito il fratello nemico: oh troppo felice, se solo le le navi della Dardania non avessero mai toccato le  nostre coste!

Il rimpianto della non conoscenza del seduttore che ha sconvolto la vita, il desiderio di annullare la tragica storia d'amore appartiene già alla Medea  di Euripide (v. 1 e ss.), a quella di Apollonio Rodio ( Le Argonautiche , IV, 32-33), a quella di Ennio (246-9 Vahlen 2)  e, con influenza chiaramente visibile, all'Arianna dell'opus maximum  di Catullo"utinam ne tempore primo/Gnosia Cecropiae tetigissent litora puppes " (64, 171-172), oh se mai fin dal primo momento le navi cecropie non avessero toccato le rive di Cnosso!

La versione virgiliana appare più semplice e più ricca di pathos.

 

Infine Didone vuole mandare a Enea un messaggio letale e un annunzio di futuri danni:"Hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto/dardanus et nostrae secum ferat omina mortis " (661-662), beva con gli occhi questo fuoco il crudele troiano dal largo, e porti con sé i presagi della mia morte.

 

Quindi l'atto del suicidio:"Dixerat, atque illam media inter talia ferro/conlapsam aspiciunt comites ensemque cruore/spumantem sparsasque manus. It clamor ad alta/atria; concussam bacchatur Fama per urbem" (vv. 663-666), aveva detto e in mezzo a tali parole le compagne la vedono caduta sul ferro e la spada spumeggiante di sangue e le mani cosparse. Sale il grido fino agli alti atri; la Fama va infuriando per la città sconvolta.

 

La morte della regina prefigura la distruzione della sua città:"Lamentis gemituque et femineo ululatu/tecta fremunt, resonat magnis plangoribus aether,/non aliter quam si immissis ruat hostibus omnis/Karthago aut antiqua Tyros flammaeque furentes/culmina perque hominum volvantur perque deorum " (vv. 667-671), gli edifici fremono di lamenti e di gemiti e di ululati femminei, l'etere risuona di grandi pianti, non altrimenti che se Cartagine tutta o l'antica Tiro crollasse, entrati i nemici, e le fiamme furiose si avvolgessero sui tetti degli uomini e degli dèi.

E’ la connessione organica del capo con il suo popolo e la sua terra

Sappiamo fin da da Omero[79] e da Esiodo[80], che i costumi, virtù, vizi e perfino malattie del capo si riverberano sulla sua terra per una sorta di responsabilità collettiva

 

Bologna 10 giugno 2021 ore 8, 50

giovanni ghiselli

 

 

 

Didone. Ottava e ultima parte

 

Passiamo al VI canto dell’Eneide.

 La regina  si trova nei lugentes campi (441), i campi del pianto "Hic quos durus amor crudeli tabe peredit " (442) qui si trovano quelli che un amore spietato divorò con consunzione crudele. Neanche la morte basta a dissolvere la sofferenza d'amore degli umani:"…curae non ipsa in morte relinquont " (v. 444), gli affanni neppure nella morte li lasciano.  e vediamo che il volnus di Didone non si cicatrizza nemmeno dopo il suicidio :"recens a volnere Dido-errabat silva in magna… " (VI, 450-451) Didone errava nella gran selva, con la ferita fresca.

L'accoppiata recens vulnus è utilizzata da Seneca nella Consolazione indirizzata Ad Helviam Matrem (del 42 d. C.) dall'esilio in Corsica:"Gravissimum est ex omnibus quae umquam in corpus tuum descenderunt recens vulnus, fateor " (III, 1), la più grave tra tutte quelle che sono mai penetrate nel tuo corpo, lo ammetto, è la ferita recente.

Enea vede l'ex amante suicida come immagine sfocata:"…Quam Troïus heros/ut primum iuxta stetit adgnovitque per umbras/obscuram, qualem primo qui surgere mense/aut videt aut vidisse putat per nubila lunam,/demisit lacrimas dulcique adfatus amorest " (vv. 451-455), appena l'eroe troiano si trovò accanto a lei e la riconobbe in mezzo alle ombre, oscura, come chi all'inizio del mese vede sorgere o crede di avere visto la luna fra le nuvole, fece cadere le lacrime e le parlò con dolce amore.

L'immagine ha il suo modello nel poema di Apollonio Rodio quando Linceo che aveva grande acume visivo, credette di vedere Eracle in lontananza, come uno che ha visto o ha creduto di vedere la luna offuscata nel primo giorno del mese (Le Argonautiche , IV, 1478-1480).

Eracle è l'eroe tradizionale del poema, contrapposto a Giasone: ebbene questa immagine "che verrà splendidamente reimpiegata da Virgilio (…) suggella definitivamente l'irrecuperabilità di Eracle all'universo argonautico"[81].

Didone è irrecuperabile da Enea.     

 

“L’eroe troiano”  cerca di scusarsi dicendo che lui non voleva (invitus ) ma sono stati gli ordini degli dèi (iussa deum ), gli stessi che lo costringono (cogunt ) ad attraversare le ombre,  a spingerlo con la loro autorità suprema (imperiis egere suis ); egli del resto non avrebbe potuto credere di arrecarle tanto dolore con la partenza. L'eroe fa un discorso imbarazzato (456-466) con il quale  tenta di mitigare la donna ancora ardente di un fuoco ostile e cerca di spengere quel fuoco con le proprie lacrime:"Talibus Aeneas ardentem et torva tuentem/lenibat dictis animum lacrimasque ciebat ", vv. 467-468), con tali parole Enea cercava di placare l'animo infiammato che biecamente guardava e faceva cadere le lacrime.

 

"L'humanitas  di Enea ha nel IV libro dei forti limiti che solo nell'incontro con Didone nell'oltretomba (...) saranno superati: solo allora Enea comprenderà fino in fondo ciò che l'amore significava per la donna; ma ciò avverrà in una situazione in cui l'humanitas sarà tanto profonda quanto inutile, giacché il tentativo di mutare un destino ormai compiuto per l'eternità non sarà allora neppure pensabile...l'estraneità fra i due perdura anche in questo episodio, salvo che le parti sono come invertite: questa volta è Enea che prega e piange, come nel IV libro era stata Didone. E come egli allora non si era arreso a Didone, così ora Didone è irremovibile, quasi per una specie di contrappasso"[82].

 

 La donna "che s'ancise amorosa"[83]  non perdona l'amante che l'ha abbandonata; anzi manifesta il suo sdegno col non rispondergli e non rivolgergli lo sguardo: "Illa solo fixos oculos aversa tenebat ", v. 469, quella teneva gli occhi fissi al suolo, girata dall'altra parte.

T. S. Eliot nel silenzio di Didone riconosce "il più espressivo rimprovero di tutta la storia della poesia" e "non soltanto uno dei brani più commoventi , ma anche uno dei più civili che si possano incontrare in poesia" [84].

Possiamo accostare a questo rancore muto  quello del suicida Aiace nei confronti di Ulisse nell'XI canto dell'Odissea (vv. 542-564).

Odissea nel raccontare quell’incontro ai Feaci dice: non avessi mai vinto quella gara! (548). Poi riferisce quanto disse ad Aiace: che la colpa era dei numi, di Zeus in particolare che odiava i Danai. Quindi gli chiede di domare l’ira.   Ma Aiace nulla mi  rispose- oJ de; m’ oujde;n ajmeivbeto-

 In effetti non si può manifestare un'ostilità più radicale e nello stesso tempo più educata che opponendo il silenzio ai vani tentativi giustificatòri di quanti ci hanno inflitto i danni più gravi.

 

giovanni ghiselli

 

 

Appendice I

Riabilitazione di Eros. La spietatezza del pius Aeneas. Virgilio poeta protetto.

Voglio mostrare una riabilitazione di Amore da tante calunnie

Il Simposio di Platone

Leggiamo alcune parole di Agatone nel Simposio  platonico: Eros è il più felice, il più bello e il più nobile fra tutti gli dèi. Ed è anche  il più giovane, sicché non derivano da Eros le mutilazioni dei tempi primordiali di cui parlano Esiodo e Parmenide, anzi , se ci fosse stato lui, non sarebbero avvenute quelle ejktomaiv, castrazioni vere e proprie, né incatenamenti reciproci, desmoi; ajllhvlwn, e molte altri prevaricazioni anche violente kai; a[lla polla; kai; bivaia (195c), ma solo amicizia e pace come ai tempi nostri, da quando Amore regna tra i numi.  Inoltre è delicato: aJpalov" , tant'è vero che  cammina e dimora sulle entità più tenere: infatti ha fondato la sua dimora nei caratteri e nelle anime degli dèi e degli uomini. Anzi ripudia i caratteri duri e rozzi. Inoltre possiede tutte le virtù, compreso il coraggio: infatti neppure Ares tiene testa a Eros (196d) che anzi tiene in pugno il dio della guerra: ebbene questo fatto  toglie, non infligge ferite agli uomini, che è poi quanto sostiene anche l'inno a Venere di Lucrezio.

Successivamente  Socrate ricorda quanto udì da Diotima di Mantinea una donna sapiente nelle cose d'amore e in molte altre (tau'tav ge sofh; h\n kai a[lla pollav , 201 d). La sacerdotessa dunque gli insegnò che Eros è qualche cosa di intermedio (ti metaxuv, 202 a). E'  gran demone, figura intermedia tra i mortali e gli dèi (Daivmwn mevga"metaxuv ejsti qeou' te kai; qnhtou' , 202d), figlio di Poros (Espediente) e della mendicante Penia (Povertà), e partecipa della natura di entrambi, delle miserie della madre e delle capacità anche seduttive del padre; inoltre è un filosofo poiché si trova a metà strada fra sapienza e ignoranza:"sofiva" te au\ kai; ajmaqiva" ejn mesw/ ejstivn" (Platone, Simposio, 203 d). Insomma Eros è simile a Socrate.

 

 

Gustavo Zagrebelsky 

La pia ipocrisia di Enea eroe di regime

Una rilettura del personaggio virgiliano dall’abbandono di Didone al mito di Augusto

la Repubblica” 14.5.15

 

SIAMO sinceri! Enea non ci piace. Se dovessimo fare una graduatoria tra i personaggi dell’epopea troiana, in cima metteremmo probabilmente non lo spocchioso Achille, ma “il domator di cavalli Ettorre” dell’ Iliade. In fondo alla graduatoria, metteremmo proprio Enea il “pio”. In mezzo, l’astuto e inquieto Ulisse. Questo nostro atteggiamento ci dice che sono mutati i paradigmi. Ciò che piaceva allora, oggi infastidisce. E, in primo luogo, non ci piace la poesia al servizio del potere. Neppure Virgilio, infatti, ci è mai troppo piaciuto, perché fece della sua arte strumento di persuasione politica. Scrive bene, è levigato.

Ma non riusciamo a dimenticare che è stato un poeta di regime, stipendiato dal committente interessato a farsi tessere panegirici «di natura quasi mussoliniana» (Canfora). Il suo eroe letterario è Enea, ma l’eroe politico è Augusto, il destinatario del mito. Instauratore il primo; restauratore, il secondo, dopo i torbidi delle guerre civili e il disfacimento della Repubblica. Non una poesia civile, ma una poesia interessata, dunque, e, perciò malsana.

“Pio” è Enea, anzi di più: la pietas è la ragione della sua esistenza. Questa pietas è ciò che Virgilio propone come la virtù del principe. Gli Dei sono sensibili alle prove di pietas e rispondono con due prodigi archetipici, il fuoco che non brucia e la stella cometa. Entrambi riguardano il piccolo Ascanio e lo consacrano come il capostipite della gens di Augusto. Dentro Ascanio c’è dunque il futuro di Roma.

Ma, sulla strada accidentata verso la nuova patria, Enea incontra la contraddizione maggiore: eros. Eros e pietas sono nemici. Eros impone la sosta; pietas , la partenza. È la storia con Didone, cui è attribuito uno spazio capitale nell’architettura del poema. Anche Ulisse, nel ritorno verso la “petrosa Itaca”, incontra l’amore. È la storia di Calipso. Dopo la caduta di Troia, tutti e due hanno una missione, ma molto diversa: il ritorno alla casa di Itaca; la fondazione di un regno nel Lazio. La differenza è grande. L’ Odissea è l’epopea delle radici; l’ Eneide, della potenza politica. Odisseo deve ritornare per ricostruire la sua casa e trovare la sua pace. Il disegno di Enea è fondare un regno guerriero, sulle rovine d’altri regni. Di più: il ritorno a Itaca è il compito che Ulisse dà a se stesso da se stesso. Per Enea è diverso: egli, “profugo del fato”, ma salvato dagli Dei, è portatore d’un destino che gli è imposto dalla sentenza di Zeus. La sua pietas è la soggezione fedele a questo destino.

Basta mettere a confronto l’Ulisse nell’isola di Calipso e l’Enea nella città di Didone. Dopo sette anni di amori, Ulisse è preso dalla nostalgia della sua casa che Calipso non era riuscita a fargli dimenticare. Una forza irresistibile nasce dentro di sé, che lo chiama alla partenza. “Dentro di sé”: Ulisse è artefice delle sue proprie fortune e sfortune. Piange, Ulisse, in preda a vivo dolore, come quando la scelta sembra impossibile.

Ben diverso il distacco tragico e lacerante dell’eroe da Didone. Enea è costretto a lasciare Cartagine e la fuga, che a Didone appare come la crudele ricompensa del bene ricevuto, non può che essere da lei tacciata di perfidia: «La lealtà non è più al sicuro», dice la regina. Ma Virgilio ci fa sentire anche la voce di Enea; e lo fa in un verso emblematico: «Arde di andarsene via e di lasciare quelle amate regioni» (IV, 281). Nella prima metà del verso vediamo Enea con gli occhi di Didone: un uomo che non vede l’ora di andarsene; nella seconda metà del verso, vediamo invece Enea con gli occhi di Enea stesso: ne è spia un aggettivo, «amate ( dulcis) regioni», che Virgilio usa tutte le volte che deve esprimere lo strazio dell’abbandono. Partire, dunque, non è la sua vera volontà, e l’Italia, checché ne dicano gli Dei, potrà essere la sua nuova patria, ma non sarà mai veramente il suo amor. E qui sta la pietas come virtù che sacrifica il singolo e i suoi sentimenti. Il desiderio di Enea sarebbe un altro, però, e lo dice, cercando di giustificarsi con Didone viva («non inseguo di mia volontà l’Italia») e con Didone morta: nell’ultimo e impossibile dialogo con l’ombra della regina, Enea dirà: «Dalla tua terra, regina, sono partito contro la mia volontà».

Aleggia, su questa storia, l’ombra dell’ipocrisia. In verità, Enea è dipinto con i tratti del codardo, al quale importa soltanto di salvare la faccia: vuole consolare “con giuste parole”, mostra grande amore, dice che non è colpa sua. Non segue di sua volontà l’Italia. Però, di nascosto fa preparare la flotta per partire. Sarà pure per evitare ch’ella faccia bruciare le navi: resta il fatto che è Didone che lo affronta e, forse, se non l’avesse fatto, se ne sarebbe andato alla chetichella. La dedizione totale al fato si accompagna al cinismo verso chi ama. Piacerebbe poter pensare che nell’episodio di Didone sia nascosto un messaggio a non esagerare nella pietas spietata di cui Enea è campione: un messaggio rivolto ai potenti dell’Impero.

Didone è solo la prima vittima di una lunga serie di ammazzamenti. Il progetto della Roma fondata dai discendenti dei Troiani si scontra con l’ordine dei Latini, ed è la guerra; una guerra che, in certo senso, è una guerra civile ante litteram, perché i due popoli sono destinati a fondersi. Il poema si chiude con l’uccisione di Turno, il re dei Rutuli, rivale di Enea. Turno, vicino a essere ucciso, ricorda a Enea il suo vecchio padre Anchise. Ed Enea sembra quasi rinunciare a sferrare il colpo fatale: Turno, infatti, è subiectus, sottomesso; e l’indicazione che Enea ha ricevuto da Anchise è di «avere pietà di chi si sottomette». Poi però qualcosa trasforma Enea: l’ultima immagine che ne riceviamo è quella di lui che, «infiammato di rabbia furibonda» per avere visto il bàlteo, la cintura di cuoio che era stata di Pallante, il suo alleato, pendere dalla spalla del suo nemico, l’uccide. Il pio Enea non rifugge dalla vendetta, dall’inutile crudeltà.

 

Alla fine, siamo dunque consapevoli del potenziale di violenza che la fedeltà assoluta alla propria patria, ai propri dei, ai propri penati implica: una pietas empia per chi sta fuori di quelle cerchie. E che l’apologeta cristiano del III secolo Lattanzio rimprovera senza mezzi termini a Virgilio: «Non sapevi che cosa fosse la pietas, e hai ritenuto che proprio ciò che quello ha compiuto in modo disumano e odioso fosse un dovere imposto dalla pietà. Chi potrebbe dunque attribuire a Enea anche un briciolo di valore, lui che si è acceso di rabbia come paglia dimenticando lo spirito del padre, nel cui nome veniva supplicato, non è stato capace di tenere a freno l’ira? Non è affatto pius chi uccide qualcuno che non solo ha deposto le armi, ma gli rivolge una preghiera. La pietas è quella di chi non conosce guerre, di chi è in armonia con tutti, di chi è amico anche dei propri nemici, di chi ama tutti gli uomini come fratelli». Così, entriamo in un nuovo mondo segnato dalla fratellanza universale, un mondo in cui alla pietas imperiale si contrappone la charitas cristiana”.

 Maurizio Bettini e Mario Lentano: Il mito di Enea, Einaudi

Secondo Tertulliano, Lattanzio e sant’Agostino che, da intellettuali cristiani, avevano tutto l’interesse a screditare uno dei simboli identitari della Roma pagana, l’eroe sarebbe stato così poco coraggioso da abbandonare Troia prima della battaglia finale. Così l’immagine edificante del grande guerriero che porta in salvo il vecchio padre, viene oscurata da quella infamante del disertore. E perfino del traditore. Della patria, ma anche delle donne che egli incontra nel suo viaggio e dalle quali ha spesso figli: un nome per tutti, Lavinia, moglie italica del troiano errante, nonché madre primigenia di una stirpe che arriva a Romolo e Remo.

Ma l’affaire più celebre resta quello con Didone, che gli autori ricostruiscono in un avvincente capitolo intitolato «Aeneas in love». Il transfuga, fresco vedovo di Creusa, arriva a Cartagine dove conquista i favori e le grazie della bella regina. E poi la molla per correre dietro alla sua missione. Sedotta e abbandonata, l’infelice sovrana si uccide per il dolore. Mentre Enea non si lascia sfuggire una sola parola d’amore per la donna. Come si addice a un uomo duro e impuro. La storia comunque ha fatto giustizia. Il lamento di Didone è sopravvissuto all’afasia di Enea. Volando fino a noi sulle ali iridescenti della musica di Henry Purcell. E ci spezza ancora il cuore. Perché alla fine la passione vince su ogni missione.

 

La libertà e gli autori dell’età imperiale

Per quanto riguarda la libertà e il servilismo, sentiamo Leopardi : “ Le Filippiche di Cicerone , contengono l’ultima voce romana, sono l’ultimo monumento della libertà antica, le ultime carte dov’ella sia difesa e predicata apertamente e senza sospetto ai contemporanei. D’allora in poi la libertà non fu più oggetto di culto pubblico, né delle lodi e insinuazioni degli scrittori (…) E infatti colla libertà romana spirò per sempre la libertà delle nazioni civilizzate. Quelli che vennero dopo, la celebrarono nel passato come un bene, la biasimarono e detestarono nel presente come un male. I suoi fautori antichi furono esaltati nelle storie, nelle orazioni, nei versi, come Eroi: i moderni biasimati ed esecrati come traditori (Zibaldone, 459 )

Se  non altro non si potè più né lodare né insinuare e inculcare la libertà ai contemporanei espressamente, e la libertà non fu più un nome 1 pronunziabile con lode, riguardo al presente e al moderno. Quando anche non tutti si macchiassero della vile adulazione di Velleio, e Livio fosse considerato come Pompeiano nella sua storia, e sieno celebrati i sensi generosi di Tacito, ec. Ma neppur egli troverete che, sebbene condanna la tirannia, lodi mai la libertà in persona propria. Dei poeti, come Virgilio, Orazio, Ovidio non discorro. Adulatori per lo più de’ tiranni presenti, sebbene lodatore degli antichi repubblicani. Il più libero è Lucano” (Zibaldone 463).

Cfr. Vittorio Alfieri il quale in  Del Principe e delle lettere definisce. Lucrezio poeta libero, 'sprotetto' al pari. di Dante, contrapposto ai poeti cortigiani,. 'protetti', come Virgilio, Orazio.

 

Giovanni ghiselli



[1] Infatti: omnem potentiam ad unum conferri pacis interfuit (Hist.I, 1), fu utile alla pace che tutto il potere venisse riunito in una sola persona. Ndr.

 

 



 

Eros- Eris Appendice II

Elena che scatenò la guerra di Troia

Elena nell’Iliade e nell’Odissea

Elena nel terzo canto dell’Iliade rappresenta al suo apparire la bellezza in sé

 

L’amore di Elena ha portato a Ilio la guerra e la morte con la bellezza.

La sua avvenenza colpisce i  compagni di Priamo che per la vecchiaia avevano smesso la guerra ma erano ajgorhtai; esqloiv (III, 150) oratori abili, simili alle cicale che nel bosco stando su una pianta mandano voce di giglio (151).

Ebbene questi anziani, come la vedono,  dicono che non è nevmesi~[85],  (v. 156) non è motivo di sdegno che per una donna siffatta tanti uomini soffrano  a lungo dolori: terribilmente somiglia alle dèe immortali a vederla.

Tuttavia il prezzo di quella visione è troppo alto, quindi i vecchi aggiungono; “ma anche così, vada via sulle navi: non rimanga a Troia quale ph`ma (sciagura, danno v. 160) per noi e per i nostri figli.

Ma Priamo, più coraggioso[86] e più affascinato degli altri, la protegge: le chiede di sedersi vicino a lui, poiché non lei è colpevole ma gli dei sono colpevoli (qeoi; ai[tioi, v, 164): sono stati loro a muovere la funesta guerra dei Danai.

 

Nell’Iliade  Elena del resto è per lo più  una  pentita: “ fossì morta prima” (wJ~ pri;n w[fellon ojlevsqai , XXIV, 764) è il lamento che le sale dalle labbra durante il funerale di Ettore

 

La bellona, come tutte le donne, non perdona l’insuccesso. 

Nell’Iliade quelli di Paride, ma anche il proprio.

La figlia di Leda accusa se stessa davanti a Ettore, soprattutto per la scelta sbagliata che ha fatto: io ho avuto sciagure ma almeno fossi stata in seguito la moglie di un uomo migliore (ajndro;~ e[peit j w[fellon ajmeivnono~ ei\nai a[koiti~ , VI, 350) che conoscesse l’indignazione e le molte onte degli uomini.

Ma questo[87] non ha cuore saldo (frevne~ e[mpedoi, 352) né l’avrà in seguito[88].

Elena a tratti disprezza Paride, mentre stima Ettore e prova affetto per lui.

Nel compianto funebre dice che solo lui e Priamo, il suocero, eJkurov~ furono buoni con lei, mentre i cognati e le cognate e pure la suocera hJ eJkurhv, la rimbrottavano ( XXIV, 770).

Più avanti vedremo quali aspetti assume la maliarda in altre opere. Elena,  come una parola del vocabolario, e, al pari di  altri personaggi del mito,  assume significati diversi in diversi contesti.

 

Nel’Odissea  l’adultera Elena  ha riconquistato la sua rispettabilità, anzi la supremazia dovuta al fatto di essere figlia di Zeus e di avere imparentato anche Menelao con il dio supremo: il re di Sparta quale “gambro;" Diov"" ( Odissea, IV, v. 569), genero di Zeus, non morirà ma verrà mandato dagli dèi nella pianura Elisia, ai confini della terra dov'è il biondo Radamanto, dove la vita per gli uomini è facilissima: non c'è neve né inverno rigido, né pioggia, ma soffi di Zefiro che spirano dall'Oceano a rinfrescare gli uomini (vv. 563-568).

Nel IV canto dell’Odissea  Elena entra nella sala del banchetto scendendo dall'alto talamo profumato, simile ad Artemide dalla conocchia d'oro (vv.121-122).

La bellona è avvolta dall’aureola di quella venustà  che ha sempre posseduto e mai perduto, e per giunta accresciuta di una rinnovata rispettabilità che solo lei potrà permettersi, poco più avanti, di criticare. La figlia di Zeus quindi siede sul trono, servita, riverita e fornita, da un'ancella, di una conocchia d'oro con lana violetta poggiata in un cesto a rotelle, d'argento, con i bordi rifiniti d'oro, colmo di filo ben lavorato. Poi prende a parlare: riconosce Telemaco dalla somiglianza (invero non troppo logicamente con il figlio di Odisseo[89] invece che con Odisseo stesso, ma i belli, si sa, possono permettersi anche una certa carenza di logica)  e  critica se stessa chiamandosi kunw'pi" (v. 145), faccia di cagna, con signorile spezzatura[90], con sovrana nonchalance.

Tutto quello che fa e dice la regina è molto signorile:"Nell'Odissea  Elena, tornata frattanto col primo marito a Sparta, è descritta quale prototipo della gran signora, modello di eletta eleganza e di suprema compitezza e maestà rappresentativa. E' lei a dirigere la conversazione con l'ospite, che incomincia graziosamente col rilevare la sorprendente somiglianza di famiglia, prima ancora che Telemaco le sia presentato. Ciò rivela la sua magistrale superiorità in quell'arte[91]. La rocca, senza la quale è impensabile la virtuosa massaia, che le serve le collocano dinanzi quando viene a prender posto nella sala degli uomini, è d'argento, e il fuso d'oro[92]. L'uno e l'altra, per la gran signora, non sono più che attributi decorativi[93]"[94].

Menelao conferma l'impressione della moglie sulla somiglianza rendendola però logica.

Sul tema dell’antifemminismo alquanto diffuso da Esiodo in poi, sentiamo  intanto Cesare Pavese:"Quei filosofi che credono all'assoluto logico della verità, non hanno mai avuto a che discorrere a ferri corti con una donna"[95].

Ma Elena è così bella e signorile che può fare a meno della logica tanto più che il logos è molto più ampio e profondo della logica.

In questo IV canto dell’Odissea  Elena getta nel vino un farmaco  quale antidoto al dolore, all'ira, e oblio di tutti i mali (vv. 220-221). L'aveva avuto in Egitto la cui terra produce farmaci, molti buoni e molti tristi mescolati ("favrmaka, polla; me;n ejsqla; memigmevna, polla; de; lugrav", v. 230).

 

 

Si può aggiungere magari oralmente

Elena nell’Agamennone di Eschilo (etimologia del nome),  nelle Troiane, nell’Elena e nell’Oreste di Euripide

Anche nelle Supplici di Eschilo c’è la guerra dei sessi e nell’Orestea il conflitto patriarcatro matriarcato

 

giovanni ghiselli



[1]J. P. Vernant, Tra mito e politica , p. 136.

[2]L. Tolstoj, Anna Karenina (del 1877) , parte ottava, capitoloXII.

  95 Trad. it. Lerici, Milano, 1964.

[4]Il mestiere di vivere , 9 settembre 1946.

[5] Il mestiere di vivere ,18 novembre 1945.

[6]Il mestiere di vivere, 28 dicembre 1947.

[7]M. Kundera, L'immortalità , p. 169.

[8]F. Kafka, Il castello , p. 84.

[9]J. P. Vernant, L'individuo, la morte, l'amore , p. 118.

[10]Longo Sofista, Romanzo pastorale di Dafni e Cloe , II, 7.

[11] Pollh; me;n ejn brotoi'" koujk ajnwvnumo" (Ippolito , 1)

[12] Arcaico per vivus.

[13] Lucrezio,  La Natura Delle Cose, testo e commento di Ivano Dionigi, p. 320.

[14]Lucrezio, La Natura Delle Cose , commento di I. Dionigi, p. 408.

[15] J. Hillman, Il piacere di pensare. conversazione con Silvia Ronchey, pp. 66-67.

[16]  Agamennone, 177.

[17]Siddharta , p.135.

[18]Edito con i primi due nel 23 a. C.

[19]Edito nel 13 a. C.

[20]A. La Penna, Orazio, Le Opere, Antologia , p. 438.

[21] glukei'a=dolce.

[22]Ho colto diversi  suggerimenti su questa Ode da una conferenza tenuta da Paolo Fedeli durante il XV Certamen Horatianum di Venosa (maggio 2001).

[23]Il mestiere di vivere, 19 gennaio 1938.

[24]H. Hesse, La Cura , p. 73.

[25] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 477.

[26]Cfr. perfide  in Catullo 64, 133 ; più avanti lo troveremo in bocca a Didone in Eneide  IV 305.

[27]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 484.

[28]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 485.

[29] Di questa impunità concessa allo spergiuro in amore.

[30] Stoltezza.

[31]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 480, n. 2.

[32] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 480, n. 2.

[33] L. Tolstoj, Anna Karenina, p. 310.

[34] Odi , I, 6, 5- 6:" gravem /Pelidae stomachum cedere nescii ", la funesta  ira di Achille incapace di cedere. 

 

[35] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 481.

[36]Da La duchessa di Amalfi (del 1614) , di J. Webster  (1580-1625).

[37]Shakespeare e lo stoicismo di Seneca, (del 1927) in T. S. Eliot Opere , p. 800.

[38] In La tragedia spagnola ( 1592) di Thomas Kyd  il nobile portoghese Alexandro, con pessimismo meno assoluto, dice:"Il cielo è la mia speranza: quanto alla terra, essa è troppo infetta per darmi speranza di cosa alcuna della sua matrice" (III, 1).

[39] 1601

[40] Cfr. C. Izzo, Storia della letteratura inglese, Nuova Accademia Editrice, Milano, 1961.

 

[41]A. La Penna-C. Grassi (a cura di) Virgilio, Le Opere, Antologia , p. 357.

[42]L'uomo senza qualità , p. 270.

[43]Lo spazio letterario di Roma antica, 1, p. 153.

[44] Fantasia dell'inconscio e altri saggi sul desiderio, l'amore, il piacere , Mondadori, Milano, 1978. Tratto da Lunario dei giorni d'amore , pp. 427-428.

[45] G. Morandini, La voce che è in lei, Bompiani, 1997, p. 16. La tesi è di Alessandra Neri, alumna optima .

[46] G. Flaubert, Madame Bovary, p. 74.

[47]Guerra e pace , p. 855.

[48] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 328.

[49] Appellata est enim ex viro virtus: viri autem propria maxime est fortitudo, cuius munera duo sunt maxima: mortis dolorisque contemptio " (Cicerone , Tusc., 2, 43), la virtù infatti deriva da vir ed è soprattutto propria dell'uomo la fortezza i cui principali compiti sono due: il disprezzo della morte e del dolore. Enea disprezzerà sì la morte e il dolore, ma quelli dell'amante Didone.  

[50] Eneide I, 588-593.

[51] Odissea, VI, 232-235)

[52] Factorum et dictorum memorabilium libri , VI, 1.

[53]J. P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci , p. 299.

[54] Seneca, De ira , II, 21.

[55]Secretum , III, 40.

[56]Ep. , I, 11, 27.

[57]F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli (del 1888),  Il problema di Socrate, 11.

[58]64, 133.

[59] Critica e saggistica,  in Ezra Pound, Opere scelte, p. 1168.

[60] Scritta fra il 29 e il 19 a. C.

[61] Spada lasciata da Enea ( Eneide, IV, 507) e impiegata quale dono funesto (non hos quaesitum munus in usum., Eneide,  IV, 647,  dono richiesto non per questo uso. 

[62]Cfr. VII,  Le Talisie , 22.

[63] =virides.

[64] In questi versi l'istinto amoroso si associa non solo al fuoco ma anche a Eris.

[65] =amantes.

[66]I migliori editori espungono questo verso considerandolo un'interpolazione ricavata dal molto simile IX 225).

[67]La divisione della locuzione mezzanotte ha forse influito sull'espressione di Leopardi "è notte senza stelle a mezzo il verno"(Aspasia , 108)

 

[68]Un rapporto così forte e umano con la natura è riscontrabile, tra i moderni, oltre che in Leopardi, in D'Annunzio dal quale(La sera fiesolana , 5- 6:" su l'alta scala che s'annera/contro il fusto che s'inargenta") , non per caso, traducendo abbiamo preso l'ultimo verbo, e in Hermann Hesse che in Peter Camezind (p.12) scrive:"Le montagne, il lago, le tempeste e il sole erano i miei educatori e amici, che per molto tempo mi furono più cari e noti degli uomini e del loro destino".

[69]Forma sincopata di extinxissem .

[70] Meno sicura è l'interpretazione del nome Didone, che, probabilmente per equivoco, Servio spiega come virago (Aen. IV, 36, 674) e forse solo a causa dei sacrifizi umani in uso a Cartagine e altri scrittori tardi con ajndrofovno".  Planh'ti"  (l'errante) invece interpreta l' Etym. Magnum s. v. attenendosi a Timeo.

[71] G. De Sanctis, Storia dei Romani, vol. III parte prima, pp. 21-22.

[72] L'incontro di Enea e Didone era già nel Bellum Poenicum di Nevio (270ca-201ca a. C.). Il Bellum poenicum  in saturni canta la prima guerra punica. Non mancano digressioni sul passato, anche mitico, di Roma e sulle vicende che portarono alla sua fondazione.

[73] G. De Sanctis, Storia dei Romani, vol. III parte prima, pp. 23-24.

[74]=exoriaris , seconda persona del congiuntivo, come sequare =sequaris .

[75]S. Freud, L'interpretazione dei sogni , p. 327.

[76] Tradition and the Individual Talent (del 1919),

[77]  Nell'Iliade , VII, 303.

[78] Polibio, Storie, I, 3, 4.

[79] Un re buono, afferma lo stesso Ulisse nel XIX canto dell'Odissea. parlando con Penelope, porta il popolo alla prosperità:"Raggiunge l'ampio cielo la tua fama,/ come quella di un re irreprensibile che pio,/ regnando su molti uomini forti,/tenga alta la giustizia; allora la nera terra produce/ grano e orzo, gli alberi si appesantiscono di frutti,/figliano continuamente le greggi e il mare offre i pesci,/per il suo buon governo, insomma prosperano le genti sotto di lui" (vv. 108-114).

Il ribaltamento di questa situazione è il re negativo, cattivo e malato, che contamina la sua terra, rendendola sterile e sconciandola quale mivasma. Come si scopre essere il protagonista dell'Edipo re  che perciò si allontana da Tebe.

[80]  L'altro lato della stessa concezione secondo la quale il bene e il male di un solo uomo ridondano in favore e in danno di una città intero lo troviamo nel secondo archetipo della poesia greca, cioé in Esiodo (Opere, vv.240-244:"Pollavki kai; xuvmpasa povli" kakou' ajndro;" ajphuvra-oJv" ti" ajlitraivnh/ kai; ajtavsqala mhcanavatai.-Toi'sin d  j oujranovqen meg  j ejpevgage ph'ma Kronivwn-limo;n oJmou' kai; loimovn: ajpofqinuvqousi de; laoiv.-Oujde; gunai'ke" tivktousin, minuvqousi de; oi\koi", spesso anche un'intera città soffre per un uomo malvagio,/uno che si rende colpevole e architetta scelleratezze./Su di loro dal cielo il Cronide fa piombare grandi malanni,/fame e peste insieme,e le genti vanno in rovina,/le donne non fanno figli e le case diminuiscono". Infatti quando sbaglia solo Prometeo  tutti gli uomini pagano.  Nel IV canto dell’Eneide l’uomo malvagio è Enea.

[81] M. Fusillo, Lo spazio letterario della Grecia antica, Vol. I, Tomo II, , p. 129.

[82]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 359 e p. 561

[83]Dante, Inferno , V, 61.

[84]Che cos'è un classico? , in T. S. Eliot, Opere , p. 966.

[85] Il pittore Zeusi (V-IV sec.) dopo averla dipinta per il tempio di Giunone non aspettò il giudizio della critica, ma scrisse sulla tela ouj nevmesi~.

[86] Non solo la guerra ma anche la bellezza può fare paura.

Leopardi, quando tratta di bellezza nello Zibaldone (pp. 3443-3444),  riporta questi della Canzone  XIV di Petrarca (Rime , CXXVI, 53-55):

"Quante volte diss'io allor pien di spavento

Costei per fermo nacque in paradiso!".

 Quindi fa seguire un commento relativo alla paura suscitata dalla bellezza:" E' proprio dell'impressione che fa la bellezza...su quelli d'altro sesso che la veggono o l'ascoltano o l'avvicinano, lo spaventare, e questo si è quasi il principale e il più sensibile effetto ch'ella produce a prima giunta, o quello che più si distingue e si nota e risalta."

[87] Paride.

[88] Nel III libro Afrodite aveva sottratto Paride alla furia di Menelao che stava per ucciderlo. Il perdente si era salvati dunque con una fuga vergognosa secondo la morale degli eroi i cui motti sono “non cedere” e “primeggiare sempre”

[89] ui|ї e[oike IV, 143

[90] Cfr. Anna Karenina, altra adultera.

[91]d 120 sgg. Cfr. specialmente le sue parole a vv. 138 ss.

[92] Nemmeno fosse il fuso di Ananche, l’asse dell’Universo.

[93]IV, 131.

[94]Jaeger, Paideia  1, p. 62.

[95]Il mestiere di vivere , 19 febbraio 1938.

Nessun commento:

Posta un commento

La trasfigurazione di Isabella.

  Isabella sorrise, sedette e bevve il bicchiere di vino che le portai. Quindi contribuì alla mia educazione. Mi consigliò   di non ...