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da Typus Mundi, 1697
Parte prima
Eros-Eris. Capitolo I. Testimonianze
sparse
"Eros
si associa a Eris, Lotta, quella Eris che Esiodo, nelle Opere e Giorni , colloca "alle radici della terra" (v.
19)"[1].
Tolstoj
Nel grande amore di Anna Karenina e Vronskij a
un certo punto entra la cattiva Eris, ossia lo spirito della competizione
distruttiva dovuta al fatto che lui era in allarme per la propria autonomia
minacciata dall'amante; ella a sua volta si sentiva trascinata da una forza
oscura verso la discordia:" lei fu contenta di quell’invito alla
tenerezza. Ma una strana forza non le permetteva di abbandonarsi alla propria
inclinazione, come se le condizioni della lotta non le permettessro di
sottomettersi (…) sentì che, a fianco dell'amore che li univa, fra loro si era
insediato un certo malvagio spirito di dissidio e che lei non poteva scacciarlo
dal cuore di lui, né, ancor meno, dal proprio"[2].
Perfino le espressioni di approvazione
diventano sospette e allarmanti quando l'amore, in uno solo dei due, è in fase
calante.
"C'era
qualcosa di offensivo nel fatto che egli avesse detto:"Questo sì che va
bene", come si dice ai bambini quando smettono di fare i capricci; e ancor
più offensivo era quel contrasto fra il tono di colpa che aveva lei e quello
sicuro di sé di lui: e per un istante Anna sentì sollevarsi dentro di sé il
desiderio di lotta; ma, fatto uno sforzo su se stessa, lo soffocò e accolse
Vrònskij con la stessa allegria di prima"
Tuttavia
la simulazione non regge:" anche sapendo che si rovinava, non poté non
fargli vedere quanto lui avesse torto, non poteva sottomettersi" (Anna Karenina parte ottava, capitolo
XXIV),
Capita
spesso, quasi sempre purtroppo, che gli amanti diventino nemici.
Lo rileva già Ovidio
"Militat
omnis amans, et habet sua castra Cupido;/Attice, crede mihi, militat omnis
amans "(Amores, I, 9, 1-2),
è un soldato ogni amante; anche Cupido ha il suo campo di guerra; Attico,
credimi, ogni amante è un soldato
Alcune
altre testimonianze sparse qua e là nei
secoli
In Le
nozze di figaro di Mozart-Da Ponte
(del 1786) Marcellina in un'aria (IV, 5) lamenta l'ostilità degli uomini verso
le donne. Sono gli unici maschi del mondo a odiare le femmine della loro
specie:" Il capro e la capretta/son sempre in amistà./L'agnello all'agnelletta/ la guerra mai non fa./ Le più
feroci belve/per selve e per campagne/lascian le lor compagne/in pace e in
libertà./ Sol noi, povere femmine,/che tanto amiam quest'uomini/trattate siam
dai perfidi/ognor con crudeltà".
In
D'Annunzio la donna non poche volte è la
nemica, come Ippolita Sanzio lo è di Giorgio Aurispa nel Trionfo della morte (del
1894) di cui cito la conclusione :" Fu una lotta breve e feroce come tra
nemici implacabili che avessero covato fino a quell'ora nel profondo dell'anima
un odio supremo. E precipitarono nella morte avvinti".
Riferisco
anche, per dare un esempio meno noto, alcuni versi di una poesia, di uno dei massimi poeti ungheresi del
Novecento, Endre Ady (1877-1919):"
Sono le nostre ultime nozze:/Ci strappiamo la carne a colpi di becco/e cadiamo
sul fogliame d'autunno" ( Nozze di
falchi sul fogliame secco) [3].
Fa
rabbrividire, forse perché non è del tutto falsa, una sentenza tragica del
misogino suicida C. Pavese"Sono un popolo nemico, le donne, come il popolo
tedesco"[4].
E pure, con un pessimismo meno esteso ma più personalizzato:"Sono tuo
amante, perciò tuo nemico"[5]. Più avanti c'è invece una
riflessione cosmica che può spiegare questa ostilità interna alla coppia:"
Il mito greco insegna che si combatte sempre contro una parte di sé, quella che
si è superata, Zeus contro Tifone, Apollo contro il Pitone. Inversamente, ciò
contro cui si combatte è sempre una parte di sé, un antico se stesso. Si
combatte soprattutto per non essere qualcosa, per liberarsi. Chi non ha
grandi ripugnanze, non combatte"[6].
C'è
un romanzo di M. Kundera, non uno dei più conosciuti, che ha un breve capitolo
intitolato "La lotta"; ed è lotta tra i sessi che viene presentata
così:" Neanche lei pensava al piacere e all'eccitazione. Si diceva: non ti
lascerò, non mi scaccerai, lotterò per tenerti. E il suo sesso che si muoveva
su e giù si era trasformato in una macchina da guerra che lei aveva messo in
moto e guidava. Si diceva che quella era la sua ultima arma, l'unica che le era
rimasta, ma onnipotente. Al ritmo dei suoi movimenti ripeteva fra sé, come il
basso ostinato in una composizione musicale: lotterò, lotterò, lotterò, e
credeva di vincere (...) Il sesso di Laura si muoveva con forza su e giù. Laura
lottava. Lottava per Bernard. Ma contro chi? Contro colui che stringeva a sé e
poi di nuovo respingeva, per costringerlo ad assumere un'altra posizione.
Questa ginnastica estenuante sul divano e sul tappeto, che li bagnava di
sudore, che li lasciava senza fiato, assomigliava alla pantomima di una lotta
spietata: lei lottava e lui si difendeva, lei dava ordini e lui ubbidiva"[7].
Lucrezio aveva già descritto questa lotta
"sic in amore Venus
simulacris ludit amantis/nec satiare queunt spectando corpora coram/nec manibus
quicquam teneris abradere membris/possunt errantes incerti corpore
toto./Denique cum membris collatis flore fruuntur/aetatis, iam cum praesagit
gaudia corpus/atque in eost Venus ut muliebria conserat arva,/adfigunt avide
corpus iunguntque salivas/oris et inspirant pressantes dentibus ora,/nequiquam,
quoniam nil inde abradere possunt/nec penetrare et abire in corpus corpore
toto;/nam facere interdum velle et certare videntur:/usque adeo cupide in
Veneris compagibus haerent,/ membra voluptatis dum vi labefacta liquescunt " (De rerum natura, IV, vv.
1101-1114), così nell'amore Venere con i
simulacri beffa gli amanti, né possono saziarsi rimirando i corpi presenti, né
con le mani possono raschiare via nulla alle tenere membra, mentre errano
incerti per tutto il corpo. Infine, come, congiunte le membra, godono del fiore
della giovinezza, quando già il corpo pregusta il piacere e Venere è sul punto
di seminare i campi della femmina, inchiodano avidamente il corpo e mescolano
le salive della bocca, e ansimano premendo coi denti le labbra, invano poiché
di lì non possono raschiare via niente, né penetrare e sparire nel corpo con
tutto il corpo, infatti sembrano talvolta volere farlo lottando: a tal punto
sono avidamente attaccati nei lacci di Venere, mentre le membra sdilinquite
dalla violenza del piacere si struggono.
Un
apparato lussuoso non basta ad annientare l’angoscia insita nel rapporto
amoroso.
Eximia veste et
victu convivia, ludi, /pocula crebra, unguenta coronae serta parantur,
/nequiquam, quoniam medio de fonte leporum/surgit amari aliquid quod in ipsis
floribus angat
..." (vv. 1131-1134):"si preparano conviti con apparato e portate
sfarzose, giochi, tazze fitte, profumi, corone. ghirlande, invano poiché dal
mezzo della sorgente dei piaceri sgorga qualche cosa di amaro che angoscia
persino in mezzo ai fiori.-"
Proelium amoroso popiziato
dal vino e privo di angoscia è quello promesso da Fotide a Lucio nel romanzo di
Apuleio
“prima face
cubiculum tuum adero. Abi ergo ac te compara, tota enim nocte tecum fortiter et
ex animo proeliabor” (Metamorfosi,
II, 10), appena farà notte verrò in camera tua. Vai dunque e preparati, per
tutta la notte infatti io mi batterò con te fortemente e mettendocela tutta.
Aggiungo
un altro contributo comparativistico: in Il castello di Kafka viene descritta
una copula del genere per denunciare l'impossibilità o l'impotenza dell'amore
tra K. e Frieda:"poiché la seggiola era accanto al capezzale, vacillarono
e caddero sul letto. E lì giacquero, ma non con l'abbandono di quella prima
notte. Lei cercava qualcosa, e lui pure, e ciascuno, furente e col viso
contratto, cercava, conficcando il capo nel petto dell'altro: né i loro
amplessi né i loro corpi tesi li rendevan dimentichi, ma anzi li richiamavano
al dovere di cercare ancora; come i cani raspano disperatamente il terreno,
così essi scavavano l'uno il corpo dell'altro, e poi, delusi, smarriti, per
trovare un'ultima felicità, si lambivano a volte con la lingua vicendevolmente
il viso. Solo la stanchezza li pacificò e li riempì di mutua gratitudine. Poi
sopraggiunsero le due serve. "Guarda quei due sul letto" disse l'una,
e per compassione li coprì d'un lenzuolo"[8].-
giovanni
ghiselli 5 giugno ore 12
Capitolo
II
Amore
e guerra.
Alcuni
verbi greci sono significativi di tale associazione.
"Meignumi , "unirsi
sessualmente", significa anche mescolarsi, incontrarsi in battaglia.
Quando Diomede "si mescola ai Troiani", vuol dire che viene alle
mani, a distanza ravvicinata, con loro...Stessa cosa per damazo, damnemi : soggiogare, domare. Uno doma una donna che fa
sua, come doma il nemico cui dà la morte"[9].
Meignumi-e mivgnumi-mescolo; nella
diatesi passiva significa “mi azzuffo” e pure “mi unisco in amore”.
Amore
è un combattente invincibile
Il
terzo Stasimo dell’Antigone di
Sofocle è un inno a Eros, invincibile in guerra, capace di abbattersi su tutti e di riposare sulle morbide guance delle
ragazze. Egli è in movimento sul mare e nelle dimore agresti; è inevitabile da
parte dei mortali e degli immortali che vengono resi folli da lui. Amore può
traviare le menti dei giusti e renderle ingiuste, può spingere i consanguinei
alla contesa, quando il desiderio degli occhi di una fanciulla detta legge,
poiché in quella luce c'è qualche cosa di divino.
Leggiamo
la prima strofe.
Eros
invincibile in battaglia,/Eros che sul bestiame ti abbatti,/che nelle morbide
guance/della fanciulla trascorri la notte,/vai e vieni tanto sul mare
quanto/nelle agresti dimore:/e degli immortali nessuno ti sfugge/né degli
uomini effimeri;/ma chi ti possiede è impazzito" vv. 781-790.
"In realtà contro Eros non esiste rimedio
(" [Erwto" ga;r oujde;n favrmakon") né pozione
né pasticca né incantesimo se non il bacio, l'abbraccio e stendersi insieme con
i corpi nudi"[10].
Sofocle nelle Trachinie fa dire a Deianira che chiunque si alzi come
un pugile per venire alle mani con Eros, non ha la testa a posto ( "ouj kalw'" fronei'", v. 442).
Eros domina anche gli dèi e domina me e domina tutti. Sarei pazza a biasimare
mio marito se è stato lasciato in balia di questo male e se ritenessi colpevole
questa donna –Iole- per una passione che non è vergognosa e non mi fa del male.
Anacreonte aveva bisogno di alterarsi la mente
con il vino per lanciare una sfida di pugilato a Eros:"fevr j u{dwr, fevr j oi\non, w\
pai',...-pro;" [Erwta puktalivzw" (fr. 27
D.), porta l'acqua, porta il vino, ragazzo, voglio fare a pugni con Eros.
La guerra a volte viene fatta da Eros contro
gli amanti concordi, a volte dagli amanti tra loro per sopraffarsi a vicenda.
L'
Oreste dell' Elettra di Sofocle ricorda alla sorella che c'é
un Ares anche nelle donne:"kajn gunaixi;n... [Arh"- e[nestin" (vv. 1243-1244). Il riferimento è
alla loro madre assassina del marito ovviamente, ma il suo non è certo l'unico
caso di connubio conflittuale e criminale.
Alla
dea Afrodite che, fin dal primo verso[11] dell'Ippolito di Euripide, si
presenta come divinità possente e non senza fama, la nutrice di Fedra attribuisce una forza d'urto
ineluttabile :" Kuvpri" ga;r ouj forhto;n
h]n pollh; rJuh'/"
(v. 443), Cipride infatti non è sostenibile quando si avventa con tutta la
forza. Ella si accosta con mitezza a chi cede, ma fa strazio di chi trovi
altero e arrogante.
L'amore
come guerra, fuoco che arde e squilibrio è affermato pure da Terenzio (190ca-159ca a. C.) nell'Eunuco
:"In amore haec omnia insunt vitia
: iniuriae,/suspiciones, inimicitiae,
indutiae, bellum, pax rursum: incerta haec si tu postules/ratione certa facere,
nihilo plus agas/quam si des operam ut cum ratione insanias " (vv.
59-63), nell'amore ci sono tutti questi difetti: offese, sospetti, litigi, una
tregua, la guerra, di nuovo la pace: se tu cerchi di mettere in ordine sicuro
queste cose incerte, non fai di meglio che se ti adoperassi per fare il pazzo
ragionevolmente, dice lo schiavo Parmenione al giovane Fedria innamorato, il
quale risponde:"et taedet et amore ardeo,
et prudens sciens,/vivos[12] vidensque pereo, nec quid agam scio " (vv. 72-73), non ne
posso più e brucio d'amore, lo so e capisco e sono vivo e vedo e muoio, e non
so che fare.
Amore
e ferite
Nella
letteratura latina la ferita d'amore appare già nella Medea exul di Ennio che
traduce questo verso della Medea di Euripide:" e[rwti qumo;n ejkplagei's j jIavsono"" (v. 8), colpita nel cuore
dall'amore di Giasone, accentuandone il pathos con l'allitterazione:"Medea animo aegro amore saevo saucia
", (v. 9), Medea dall'animo sofferente, ferita da un amore crudele. Un
aggettivo che diverrà topico per indicare le ferite inflitte da Afrodite o da
suo figlio.
Secondo
Lucrezio perfino Marte "armipotens
" viene vinto aeterno… vulnere
amoris , dall'eterna ferita dell'amore.
In
effetti questo Marte vinto dalle ferite è rovesciato rispetto a quello usuale
che le infligge e su questo
capovolgimento insistono i termini scelti dall'autore. Vediamo alcuni versi dell'inno a Venere:" Nam
tu sola potes tranquilla pace iuvare/mortalis, quoniam belli fera moenera
Mavors/armipotens regit, in
gremium qui saepe tuum se/reicit
aeterno devictus vulnere amoris ,/
atque ita suspiciens tereti cervice reposta/pascit amore avidos inhians in te,
dea, visus,/eque tuo pendet resupini spiritus ore" (De
rerum natura, I, vv. 31-37), Infatti tu sola puoi con una pace tranquilla
aiutare/i mortali, poiché le feroci opere della guerra governa/Marte, signore
delle armi, che spesso si rovescia
nel tuo/grembo, vinto dall'eterna
ferita dell'amore,/e così guardando da sotto, con la il liscio collo gettato all’indietro,/pasce d'amore
gli avidi occhi agognandoti, o dea /e il respiro di lui resupino dipende dalla
tua bocca.
Si può notare come Mavors (arcaico per Mars
) si esponga alle ferite lasciando scoperta e rivolta all'amante la parte più
tenera del corpo, la gola, quella attraverso cui nell'Iliade risonante di battaglie i guerrieri marziali vengono uccisi
più frequentemente.
Insomma make love, not war come si diceva
nel '68. Ma il proemio è in un certo senso fuoritesto rispetto al poema. Più
avanti, infatti come vedremo, l’amore provoca non solo ferite ma anche piaghe
agli amanti mortali.
La personificazione mitologica e superstiziosa
del tormento amoroso dei mortali è costituita da Tizio:"Sed Tityos nobis hic est, in amore
iacentem/quem volucres lacerant atque exest anxius angor " (De rerum
natura, III, 992-993), ma Tizio è
qui in noi, quello che, prostrato nell'amore, gli uccelli dilaniano e un
angoscioso affanno divora.
Le
pene infernali della mitologia sono in realtà immaginazioni dovute alla mancata
visione razionale della natura
La
conclusione è hic Acherusia fit stultorum
denique vita (III, 1023), qui diventa infernale la vita degli stolti al
postutto
Noi
a volte tremiamo come i bambini che hanno paura di tutto nel buio "trepidant atque omnia caecis/in tenebris
metuunt "(II, 55-56).
Tali
tenebre le può dissipare solo"naturae
species ratioque "(II, 61) la visione razionale della natura.
"La pena di Tizio-il gigante ucciso da
Apollo per aver insidiato Latona, e disteso nel Tartaro col fegato
continuamente roso dagli avvoltoi- è per Lucrezio, come sarà pure per Orazio (carm.
3, 4, 77-79; cfr. Servio, ad Aen. 6, 596), allegoria dell'angosciosa
passione amorosa, la cupido"[13].
Ma
i versi più dolorosi sull'amore sono quelli del libro successivo, il quarto,
dove il termine vulnus, ferita, non
basta più e il segno lasciato dall'ansia erotica diviene una piaga che potrebbe
diventare mortale se non curata :"Ulcus
enim vivescit et inveterascit alendo/inque dies gliscit furor atque aerumna
gravescit,/si non prima novis conturbes vulnera plagis/vulgivagaque vagus
Venere ante recentia cures/aut alio possis animi traducere motus " ( De rerum natura, IV, 1068-1072), la
piaga infatti si ravviva e vigoreggia a nutrirla, la smania cresce di giorno in giorno, e
l'angoscia si aggrava, se non confondi le antiche ferite con nuovi colpi, e le
recenti non curi in anticipo vagando con
una Venere vagabonda o ad altro oggetto tu non drizzi i moti dell'animo.
Nei
primi due versi "le due coppie allitteranti di incoativi, qui più che mai
progressivi, si succedono in crescendo (...) simbolo fonico dell'inarrestabile
crescere della passione" (Traina 1979, 279-25). Il linguaggio erotico
lucreziano oscilla tra il tovpo"
dell'amore-ferita (il peggiorativo e prosastico ulcus sostituisce il nobile
ed epico vulnus ; cfr. vv. 1048-1055)
e il tovpo" dell'amore-follia"[14].
L'allitterazione
in "v" del penultimo verso suggerisce il suono di un soffio che passa
sulle ferite cercando di asciugarle.
E' da notare che tanto il termine ulcus
(IV, 968) quanto il nesso anxius
angor (III, 993) tornano alla fine
del poema lucreziano nella descrizione della peste di Atene del 430 (VI, 1148 e
1158).
Ammesso
che Amore infligga delle ferite, bisogna dire che queste, se comprese, possono
diventare un bene: "una ferita è un'apertura. Una ferita è anche una
bocca. Una qualche parte di noi sta cercando di dire qualcosa. Se potessimo
ascoltarla! Supponiamo che queste "intensità sconvolgenti" siano una
sorta di messaggio: sono "cicatrici", ferite, che segnano la nostra
vita. Tutti le sentiamo. E se non le sentiamo, siamo solo bambini, solo
innocenza. Si tratta piuttosto di rendersi conto che la vita è una serie di
iniziazioni, e questa è un'iniziazione in più. Un'altra apertura a qualcosa che
mette alla prova la nostra vitalità. Che sonda la nostra capacità di
comprensione. Che espande la nostra intelligenza"[15].
Insomma
è il tw/' pavqei
mavqo"
di Eschilo[16], attraverso la sofferenza, la
comprensione, che H. Hesse
esprime così:"Profondamente sentì in cuore l'amore per il figlio fuggito,
come una ferita, e sentì insieme che la ferita non gli era stata data per
rovistarci dentro e dilaniarla, ma perché fiorisse in tanta luce"[17].
Bologna
5 giugno 2021 ore 18, 54
giovanni
ghiselli
Parte
III
Orazio,
Properzio, Tibullo
Orazio
nell'Ode 26 del terzo libro[18], nello stesso tempo
scherzosa e malinconica, impiega la metafora della milizia d'amore dichiarando
il suo addio alle armi che, come la lira
usata per sedurre, saranno appese alla parete del tempio di Venere:"Vixi puellis nuper idoneus/et militavi non
sine gloria;/nunc arma defunctumque bello/barbiton hic paries habebit "
(26, 1-4) sono vissuto fino a poco fa idoneo alle ragazze, e ho fatto il
servizio militare non senza gloria: ora questa parete avrà le armi e la lira che ha compiuto la guerra.
Più
tardi, nella prima Ode del quarto libro[19] il poeta arrivato intorno
alla cinquantina (circa lustra decem
, v. 6) chiede a Venere di risparmiargli la guerra:"Intermissa, Venus, diu/rursus bella moves? Parce, precor, precor " (vv.
1-2), dopo lunga tregua, Venere, mi fai
di nuovo guerra? Risparmiami, ti prego,
ti prego. Il secondo verso "si configura come una ajpopomphv, cioè come una
preghiera destinata ad allontanare da chi prega il pericolo proveniente da una
divinità"[20].
Il
pericolo è costituito dai dardi dell'amore.
Orazio
è contemporaneo dei poeti elegiaci, ossia scrive nei decenni nei quali va
definendosi il modo di considerare il rapporto dell'uomo con la donna. Nel
poeta di Venosa, a differenza che in Catullo (il quale precorre gli elegiaci),
non c'è una donna che accentra l'attenzione: egli, come scrisse Pasquali, vola
di fiamma in fiamma senza bruciarsi le ali.
Anche
nel poeta di Venosa tuttavia c'è il mal d'amore: vediamo l' Ode I, 19 per Glìcera. La
prima strofe (asclepiadea IV) mette il rilievo fin dal suo incipit la dura
crudeltà di Venere:" Mater saeva
Cupidinum/Thebanaeque iubet me Semĕlae puer/et lasciva Licentia/finitis animum
reddere amoribus"( vv. 1-4), la
madre crudele degli Amori e il figlio della Tebana Semele-Semevlh- e
Nella contrasto tra iubet
me e lasciva Licentia vediamo una delle contraddizioni dell'amore: quando siamo
innamorati vogliamo libertà e servitù assoluta nello stesso tempo.
Nella seconda strofe c'è una fiamma che divora:"urit me Glycĕrae nitor/splendentis Pario
marmore purius,/urit grata protervitas/et voltus nimium lubrĭcus adspici "
(Ode, I, 19, vv. 5-8), mi infiamma il fulgore di Glìcera il quale brilla più
splendidamente del marmo Pario, mi infiamma la sfrontatezza gradita e il volto
troppo pericoloso a guardarsi. L'anafora di urit mette in rilievo la forza del fuoco e anche
se il nome della donna contiene la dolcezza[21], il suo volto lubrico è
un rischio per il poeta che può scivolarci sopra[22].
Nella
terza strofe successiva l'innamoramento è visto come un assalto subìto:"in me tota ruens Venus/Cyprum deseruit nec
patitur Scythas/et versis animosum equis/Parthum dicere nec quae nihil attĭnent
" (vv. 9-12), Venere lanciandosi tutta contro di me ha lasciato Cipro, e
non permette che io canti gli Sciti e il Parto audace sui cavalli girati né ciò
che non la riguarda. Venere tota
ruens è come Cipride nell'Ippolito
citato sopra (v. 443) e come Eros dell'Antigone che si abbatte su quello che trova (pivptei" v. 782) giacché amor
omnibus idem come scrive Virgilio"(Georgica III, v.244).
Sicché
Orazio innamorato è del tutto pervaso da questa divinità crudele, è già in
guerra con lui, e non può dedicarsi a cantare altre guerre, quelle esterne.
Nell'ultima strofe il poeta si dispone a riti propiziatori per mitigare la
divinità crudele che esige sacrifici:"hic vivum mihi caespitem,
hic/verbēnas, pueri, ponite turaque/bini cum patĕra meri:/mactata veniet lenior
hostia" (Ode, I, 19, vv. 13-16), ponetemi qui una zolla viva, ragazzi,
qui ramoscelli ponete e incenso con una tazza di vino dell'altro anno: verrà
più mite una volta ammazzata la vittima.
Cipride
stessa vanta la propria potenza entrando
in scena all’inizio dell’Ippolito di Euripide
“ Pollh; me;n ejn
brotoi'" koujk ajnwvnumo"-qea; kevklhmai Kuvpri~, oujranou' t j e[sw
( vv.
1-2), grande e non oscura dea, sono chiamata Cipride, tra i mortali e nel
cielo.
Nel
primo episodio la nutrice di Fedra le
attribuisce una forza d'urto
ineluttabile:" Kuvpri"
ga;r ouj forhto;n h]n pollh; rJuh'/" (v. 443), Cipride infatti non è
sostenibile quando si avventa con tutta la forza.
La potenza di Cipride viene celebrata anche
all'inizio della Parodo delle Trachinie di Sofocle:"mevga ti sqevno" aJ
Kuvpri" ejkfevretai-nivka" ajeiv" (vv. 497-498), Cipride porta con sé una grande
potenza, sempre vittorie.
Il
tovpo" del rapporto
rischioso con un Eros crudele e ostile si trova pure, con accentuazione del
dolore, in Properzio il quale dipinge Amore come un nemico armato dal quale
nessuno può allontanarsi senza ricevere ferite:" Et merito hamatis
manus est armata sagittis,/ et pharetra ex umero Gnosia utroque iacet,/Ante
ferit quoniam, tuti quam cernimus hostem, /nec quisquam ex illo vulnere sanus abit " (II, 12, 11- 12),
giustamente la mano è armata di frecce uncinate, e dai due omeri pende una
faretra cretese, poiché ferisce prima che noi al riparo vediamo il nemico né
alcuno scampa immune da quella ferita.
Il poeta ne è già stato colpito al punto che il dio fa una guerra
continua dentro il suo sangue:" Assiduusque meo sanguine bella gerit"
(v. 16). Amore dovrebbe vergognarsi di tanto accanimento e scagliare i suoi dardi contro qualcun
altro:" Si pudor est, alio
traice tela tua " (v. 18). Oramai è l'ombra sottile di Properzio, non
più la persona che busca bastonate:"non ego, sed tenuis vapulat umbra
mea" (20). Se il canto deve continuare dunque bisogna che almeno l'umbra
non vada perduta e Amore smetta di menare colpi.
Amore è sempre armato e ponto a infliggere ferite
Nel Pervigilium
Veneris che celebra l'inizio della primavera e la potenza di
Afrodite, Amore è in vacanza ("feriatus est amor ", v. 31)
perciò gli è stato ordinato di andare inerme, di andare nudo:"neu quid
arcu, neu sagitta, neu quid igne laederet " (v. 33), per non ferire
qualche creatura con l'arco, con la saetta, con il fuoco. Eppure, avverte
l'autore, o l'autrice, "Nymphae, cavete, quod Cupido pulcher est:/
totus est in armis idem quando nudus est amor " (vv. 34-35),
guardatevene o Ninfe, poiché Cupido è bello: ed è tutto armato anche quando è
nudo Amore.
Cesare Pavese ribalta la posizione del vulnus : per lui è la vita che infligge
ferite e l'amore anestetizza il dolore :"Perché il veramente
innamorato chiede la continuità, la vitalità (lifelongness) dei
rapporti? Perché la vita è dolore e l'amore goduto è un anestetico e chi
vorrebbe svegliarsi a metà operazione?” [23]
La differenza tra Orazio e gli elegiaci è che
questi non cercano di attenuare la violenza di Eros ma accettano tutti gli
aspetti dolorosi della passione.
Nell'Ode I 33 di consolazione a Tibullo, Orazio allega
all'amore una parola chiave della poesia amorosa che è dolere , patire il dolor, la sofferenza
amorosa consigliando all'amico Albio di evitarla. Vediamo la prima stofe (
asclepiadea terza):" Albi, ne doleas
plus nimio memor/immitis Glycĕrae, neu miserabilis/decantes elegos, cur tibi
iunior/laesa praeniteat fide " (vv. 1-4), Albio non dolerti più troppo memore della crudele Glìcera e non
andare cantando lamentosi distici perché, violata la fedeltà, uno più giovane
prevale su te con il suo splendore.
Immitis Glycerae presenta un rapporto ossimorico tra
l'aggettivo e la dolcezza contenuta nel
nome della donna.. Questo ossimoro anticipa il successivo saevo cum ioco (v. 12): alla
dea Venere con divertimento crudele piace sottomettere a gioghi di bronzo anime
e aspetti incongrui.
Il motivo della donna immitis e pure domina è ricorrente nella poesia
elegiaca: nel corpus Tibullianum uno dei componimenti di Ligdamo indica un
rapporto di necessità tra la padrona crudele e l'amore:"Nescis quid sit amor, iuvenis, si ferre
recusas/immitem dominam coniugiumque ferum " (III, 4, 73-74), non sai
cosa sia l'amore , giovane, se rifiuti di soffrire una padrona crudele e un
accoppiamento feroce.
Tornando
all'Ode oraziana (I, 33) il
verbo decantare del v. 3 allude al
ripetuto, continuo piagnisteo della poesia elegiaca e così pure miserabilis= miserabiles (v. 2).
Nella
seconda strofe c'è un poliptoto che significa la singolare catena d'amore nella
quale chi ama non è riamato:"Insignem
tenui fronte Lycorida/Cyri torret amor, Cyrus in asperam/declīnat Pholoen: sed
prius Apulis/iungentur caprae lupis,//quam turpi Pholoe peccet adultero. Sic
visum Veneri, cui placet imparis/Formas atque animos sub iuga aenea/Saevo
mittere cum ioco " (vv. 5-12), l'amore per Ciro brucia Licorida
notevole per la fronte piccola, Ciro è incline all'aspra Foloe: ma le capre si
accoppieranno con i lupi apuli prima che Foloe pecchi con un amante brutto.
Così è parso giusto a Venere cui sembra opportuno sottoporre a gioghi di bronzo
aspetti e anime differenti con divertimento crudele.
E'
il tovpo" dell'amore che
insegue chi fugge e viceversa.
quod sequitur,
fugio; quod fugit, ipse sequor (Ovidio,
Amores , 2, 20, 36).
In
torret (v. 6) ritroviamo la metafora del fuoco molto frequente nella
poesia amorosa.
L'accoppiamento di capre e lupi è un esempio
di adynaton, cosa impossibile. Orazio in ogni caso non soffre troppo
poiché ha capito e si è rassegnato alla tragica legge del crudele gioco erotico
per la quale amiamo chi non ci ama e non amiamo chi ci ama. Sembra che capire
questo, e magari riderci sopra, sia l'antidoto al dolore:"Ipsum me melior cum peteret Venus,/Grata
detinuit compede Myrtale/Libertina, fretis acrior Hadriae/Curvantis Calabros
sinus " (Ode I, 33, vv. 13-16), me pure, quando mi cercava un amore
più degno, tenne avvinto con ceppi graditi
Mìrtale liberta, più violenta dei flutti dell'Adriatico che incurva i
golfi salentini. Il giogo amoroso è accettato volentieri dal poeta.
Del
resto i caratteri forse non erano troppo impares poiché Orazio nell'Ode
III 9 viene definito dall'amante Lidia "improbo/iracundior Hadria " (vv. 21-22), più collerico
dell'Adriatico in tempesta.
In
ogni modo il rapporto amoroso è difficile quanto la traversata dell'Adriatico
in tempesta. Ma vale la pena affrontarlo poiché ci aiuta a scoprire l'identità:
come scrivere un libro, impresa che "non
cessa mai di essere una cosa folle, eccitante, la traversata di un oceano su un
minuscolo canotto, un volo solitario attraverso il Tutto[24]".
Bologna
6 giugno 2021 ore 10, 35
giovanni
ghiselli
Parte
IV La guerra fredda tra gli amanti
Spergiuri
puniti e spergiuri impuniti
Il tradimento della fede da parte della donna ricordato nell'Ode I 33 è topico nelle
situazioni amorose dei poeti elegiaci i quali ricevono ferite da questa
attitudine dell'amante.
Invano le korivnqiai gunai'ke" nel primo stasimo della Medea di Euripide avevano protestato
contro questo tipo di giudizio malevolo comune dei poeti maschi: i canti dei
poeti antichi smetteranno di ripetere la storia della mia malafede ("ta;n ejma;n
uJmneu'sai ajpistosuvnan ", v. 422). Dopo il tradimento di Giasone a
Medea ovviamente. I poeti “moderni” hanno continuato a cantare la malafede
delle donne.
La considerazione malevola delle donne si trova già
nell'XI canto dell'Odissea quando Agamennone finito nell'Ade
dopo essere stato trucidato dalla moglie in combutta con l’amante, suggerisce a
Ulisse di stare molto attennto anche quando sarà tornato a Itaca:" ejpei; oujkevti pista; gunaixivn" (v. 456), poiché
non c'è più credibilità per le donne.
Poi Esiodo
nelle Opere aveva scritto: chi si fida di una donna, si fida dei
ladri (v. 375). Perciò il fratello dell'autore, Perse, doveva stare attento a
non lasciarsi ingannare da una donna pugostovlo", dal deretano vezzoso, che mentre fa moine seducenti mira al granaio (vv.
373-374).
Una femmina oraziana che
incarna il tradimento è l'etera Barìne.
Nell'Ode
II 8 Orazio afferma che gli dèi non puniscono gli spergiuri in amore,
come se il campo erotico fosse estraneo alla religione e alla morale.
Sembra la trasposizione scherzosa di quello che Tucidide fa dire agli Ateniesi nel
dialogo con i Meli: riteniamo infatti che la divinità, secondo la nostra
opinione, e l'umanità in modo evidente, in ogni occasione, per
necessità di natura ("dia; panto;" uJpo; fuvsew"
ajnagkaiva"") dove sia più forte, comandi, V, 105, 2.
In amore, come in guerra e in molti altri campi,
i rapporti tra gli umani sono rapporti di lotta decisa dalla forza
preponderante. Barine non viene punita per i suoi spergiuri, non diventa più
brutta, anzi.
Vediamo le prime due strofe saffiche.
"Ulla si iuris tibi peierati/poena, Barīne,
nocuisset umquam,/dente si nigro fieres vel uno/turpior ungui,/ /crederem:sed
tu simul obligasti/perfidum votis caput, enitescis/pulchrior multo iuvenumque
prodis/publica cura " ( Ode, II, 8, vv. 5-8), Barìne, se la
pena del giuramento violato ti avesse mai nociuto, se diventassi una dal dente
nero o più brutta per una sola unghia, ti crederei: ma tu
appena hai impegnato la tua vita perfida con i voti, brilli
molto più bella e vieni avanti, pubblico tormento per i giovani.
-iuris peierati poena:"in
nessun'altra cosa come in amore si usa e si abusa a cuor leggero del
giuramento. Ma gli antichi, che erano attaccati con tutta l'anima a una
credenza che aveva tanta parte nella loro religione, nel diritto e nella vita
comune, corsero ai ripari per ingannar se stessi: in amore sì, poiché lo si
vede ogni giorno avvenire senza conseguenze, è lecito giurare falso senza
pericolo, nel resto no"[25].
Perfidum caput è il consueto[26] aggettivo che indica la rottura del foedus ,
e obligare, impegnare, è coerentemente un verbo del linguaggio
giuridico. Enitescis costituisce l' ajprosdovkhton che contrasta con la punizione mancata dell'annerimento dei denti in
conseguenza dello spergiuro (dente si nigro fieres vel uno/turpior ungui
", vv. 2-3, se diventassi più brutta per la dentatura annerita o almeno
per una sola unghia).
" Orazio, negando che Barine abbia anche
soltanto un tal neo, la glorifica perfetta: menzognera sì ma perfetta. Noi non
possiamo immaginare che le parole del poeta carezzino, più che non feriscano,
l'orecchio dell'ascoltatrice: donne di tal fatta non possono soffrire che si
rinfaccino loro difetti fisici, o, peggio, l'età, ma sanno bene che mestiere
fanno e non si dolgono se lo si ricorda loro con i debiti riguardi"[27].
Il publica cura del v. 8 sovrappone la
terminologia politica a una situazione erotica. "Orazio rincara la dose:
essa non solo non ha sofferto della fede mancata, anzi a ogni giuramento falso
divien più bella, ed esce per le vie accompagnata da un corteo sempre maggiore
di giovani: nel publica cura si sente l'ironia, che però si rivolge
molto più contro gli adoratori che non contro la bella donna, la quale fa, e ha
ragione, i suoi interessi"[28]
Il tovpo" del giuramento amoroso tradìto.
Pasquali cita varie testimonianze della sua
affermazione per la quale solo in amore è lecito spergiurare.
aggiungo il Simposio di Platone dove Pausania fa notare
che i più pensano che gli stessi dèi siano indulgenti verso gli spergiuri
amorosi:"ajfrodivsion ga;r o{rkon ou[ fasin ei\nai" (183b), infatti dicono che non c'è giuramento d'amore.
Seguo qualche altra indicazione dell'autore di Orazio
lirico :" Tibullo non
ne[29] fa uso se non in quella
sua Ars amandi (I 4, 21) posta in bocca a Priapo" (p. 480).
Vediamone due distici:"Nec iurare time: Veneris periuria venti/irrita
per terras et freta summa ferunt.// Gratia magna Iovi; vetuit pater ipse
valere,/iurasset cupide quidquid ineptus amor " (I, 4, vv.
21-24), non aver paura di giurare: gli spergiuri di Venere i venti li
trascinano annullati per le terre e in cima ai flutti. Dobbiamo essere molto
grati a Giove; il padre ha personalmente vietato che avesse valore qualunque
giuramento avesse bramosamente fatto uno spropositato amore.
Sull’ esempio dato da Zeus in fatto di adultèri e
tradimenti possiamo ricordare le Nuvole di Aristofane.
Una giustificazioni dell’adulterio: Iuppiter quoque
Se vuoi fare i tuoi comodi, suggerisce il
Discorso ingiusto, vieni a
scuola da me: ti insegnerò a parlare in modo da avere sempre ragione:
"se vieni
sorpreso in adulterio-moico;" ga;r
h]n tuvch/" aJlouv"-
(1079), rispondi a quello che non hai
fatto niente di male-wJ" oujde;n
hjdivkhka"-: quindi devi imputarne la
colpa a Zeus,/(1080) anche
lui è sottomesso all'amore e alle donne-kajkei'no"
wJ" h[ttwn e[rwtov" ejsti kai; gunaikw'n (1081);e allora tu che sei mortale, come potresti essere più forte- di un dio? qeou' mei'zon ; "(1082).
Elena nelle Troiane
di Euripide attribuisce la colpa del suo adulterio ad Afrodite.
“Venne
avendo con sé una non piccola dea
Il
demone nato da costei, sia che tu lo voglia chiamare
con
il nome di Alessandro, sia Paride;
che
tu, o pessimo, lasciato nel tuo palazzo,
partisti
da Sparta con la nave per la terra di Creta.
E
sia.
Non
a te, ma a me stessa voglio fare una domanda a questo proposito :
A
che cosa pensando dal palazzo mi accompagnai
allo
straniero, tradendo la patria e la famiglia mia?
Punisci
la dèa e diventa più forte di Zeus,
che
ha potere sulle altre divinità,
ma
di quella è schiavo: ci sia comprensione
per me (Troiane, 940-950)
Allora Ecuba le risponde
“Assolutamente
straordinario era mio figlio per bellezza
e
la tua mente vedendolo si fece Cipride:
tutte
le follie infatti sono Afrodite per i mortali,
e
il nome di afrosyne[30]
comincia giustamente come quello della dea. (Troiane, 886- 990)
Una menzione ridicola del dongiovannismo di Zeus, e di
Poseidone, si trova anche negli (Uccelli
del 414):
"bisogna
proclamare la guerra santa contro Zeus e impedire agli dèi/
di andare e venire per la
vostra terra a cazzo ritto
(toi`si qeoi`sin ajpeipei`n ejstukovsi, da stuvw, “ho un’erezione”, 557)
come una volta quando
scendevano a sedurre le Alcmene
le Alopi e le Semele"(vv.556-559).
Pasquali fa ancora notare che "Ovidio imita questo passo di Tibullo
nell' a. a. I 633 sgg" [31].
Vediamo qualche distici anche del magister Naso:"Iuppiter
ex alto periuria ridet amantum/et iubet Aeolios inrita ferre Notos.// Per Styga
Iunoni falsum iurare solebat/Iuppiter: exemplo nunc favet ipse suo " (Ars Amatoria ,I, 631-634), Giove
dall'alto sorride agli spergiuri degli amanti e ordina che i venti di Eolo li
portino via senza effetto. Sullo Stige Giove era solito giurare il falso a
Giunone: ora favorisce personalmente chi segue il suo esempio.
Ovidio, aggiunge Pasquali "aveva già adoperato il tovpo" in forma un po' diversa in due passi degli Amores, assai
somiglianti tra loro: I 8, 85 nec, siquem falles, tu periurare timeto:/
commodat in lusus numina surda Venus" [32] , e se ingannerai qualcuno tu non esitare a spergiurare: per i giochi
amorosi Venere rende sordi gli dèi.
Un altro passo chiede indulgenza per gli spergiuri
onesti:" Tu, dea, tu iubeas animi periuria puri/Carpathium tepidos per
mare ferre Notos " (Amores , II, 8, 19-20), tu, dea, tu ordina
che gli spergiuri di un animo puro li portino via i tiepidi venti del sud
attraverso il mare Carpatico. La dea naturalmente è Venere, il mare Carpatico è
l'Egeo chiamato così dall'isola di Carpato situata tra Creta e Rodi. Mare,
isole e venti meridionali, tiepidi evocano vacanze e
sensualità.
Anche in Anna
Karenina c'è un "codice di norme", quello di Vrònskij, che
ammette lo spergiuro amoroso:" Le norme stabilivano senz'ombra di dubbio
che bisognava pagare un baro, ma non obbligavano a pagare un sarto; che agli
uomini non bisognava mentire, ma si poteva con le donne; che non bisognava
ingannare nessuno ma un marito si poteva ingannare; che non si potevano
perdonare le offese, ma che si poteva offendere, e così via"[33].
Torniamo all’ Ode II 8 di Orazio che giustifica Barìne:"
Expedit matris cineres opertos/fallere et toto taciturna noctis/signa cum caelo
gelidaque divos/morte carentis//Ridet hoc, inquam, Venus ipsa, rident/simplices
Nymphae, ferus et Cupido/ semper ardentis acuens sagittas/cote cruenta "
(vv. 9-16), ti giova ingannare le ceneri sepolte di tua madre e le silenti
costellazioni della notte con l'intero cielo e gli dèi immuni dal gelo della
morte. Ride di questo, lo affermo, la stessa Venere, ridono le Ninfe ingenue e
il feroce Cupido che aguzza sempre i dardi ardenti sulla cote cruenta. Anche
questo cupido è armato.
-Ridet…rident : il poliptoto a cornice e inquam
rafforzano questo distacco sorridente dalla vicenda amorosa, ben diverso dagli
scoppi di gelosia e dalle maledizioni con le quali reagiscono ai tradimenti e
agli spergiuri Catullo e gli elegiaci.
Giuramenti gravi
matris cineres opertos (coperti
dalla tomba) fallere: il giuramento sulle ossa e le ceneri dei genitori
è particolarmente grave: lo usa Properzio per rendere indubitabile la sua
dedizione (gravitas) a Cinzia fino alla morte e oltre:"ossa
tibi iuro per matris et ossa parentis/ si fallo, cinis heu sit mihi uterque
gravis " (II, 20, 15-16), te lo giuro sulle ossa di mia madre, sulle
ossa di mio padre, se ti inganno siano opprimenti per me le ceneri di entrambi.
Se venisse meno la gravitas di Properzio interverrebbe negativamente quella
della cenere. I giuramenti amorosi violati, anche se non sdegnano gli dèi,
addolorano gli amanti traditi e sono latori di Eris, talora di discidium.
"La scena della terza strofa, il giuramento per
la tomba della madre sotto il cielo stellato è romantica e atta a ispirare
terrori misteriosi. Orazio riprende qui uno spunto che aveva trattato nella sua
romantica giovinezza (epod. XV 1):"nox erat et caelo
fulgebat luna sereno inter minora sidera, cum tu magnorum numen laesura deorum,
in verba iurabas mea", era notte e la luna brillava nel cielo sereno
tra gli astri minori, quando tu, pronta a violare la potenza degli dèi grandi,
giuravi sulle mie parole (vv. 1-4) Si tratta di Neera che giura, falsamente a
Orazio "fore hunc amore mutuum " (v. 10). Ma il Venosano saprà
reagire eroicamente: "nec
semel offensae cedet constantia
formae/si certus intrarit dolor " (vv. 15-16, un esametro e un dimetro
giambico), e la costanza non cederà alla bellezza una volta rivelatasi odiosa,
se un dolore certo sarà entrato nell’animo. E’ subentrata la guerra con la
bellezza perfida.
Il non cedere è caratteristico dell'eroe: lo
stesso Orazio definisce Achille incapace di cedere[34].
Il rivale felicior , più fortunato cui il
poeta si rivolge con un quicumque es (v. 17), chiunque tu sia- come il
coro o un personaggio della tragedia greca a Zeus (Eschilo, Agamennone
160; Euripide, Troiane , 885) e come Enea a Mercurio (Eneide
IV, 577)-, presto piangerà anche lui l'amore passato da un'altra parte e il
poeta a sua volta riderà:" Heu heu! translatos alio maerebis amores/Ast
ego vicissim risero " (epod. XV vv. 23-24). L'ultimo distico
applica all'amore l'idea dell'orbis che ogni cosa porta in giro, in
tutti i sensi.
Gli elegiaci sono meno disposti a ridere per i tradimenti
amorosi e meno inclini a considerare impuniti gli spergiuri.
Faccio l'esempio di Properzio: nel primo libro (pubblicato attorno al
Nel secondo libro, redatto tra il 28 e il 26, Properzio sembra replicare all’ ode di
Orazio citata sopra (II, 8), quella che giustifica Barìne con il ridere di
Venere e di Cupido
Sentiamo questa obiezione all’impunità dei tradimenti
amorosi"non semper placidus periuros ridet amantes/Iuppiter et surda
neglegit aura preces./vidistis toto sonitus percurrere caelo,/fulminaque
aetheria desiluisse domo?/non haec Pleiades faciunt neque aquosus Orion,/nec
sic de nihilo fulminis ira cadit;/periuras tunc ille solet punire
puellas,/deceptus quoniam flevit et ipse deus " ( Properzio, II, 16,
47-54), non sempre Giove ride calmo degli amanti spergiuri e con orecchie sorde
trascura le preghiere. Hai visto i tuoni trascorrere per tutto il cielo e i
fulmini saltati giù dalla dimora eteria? Questi non sono effetti delle Pleiadi
né del piovoso Orione, né così cade dal niente l'ira del fulmine; allora quello
suole punire le ragazze spergiure, poiché anche lui stesso, un dio, pianse
ingannato.
E' il ribaltamento del gioco sofistico utilizzato dal
Discorso Ingiusto nelle Nuvole di Aristofane e ripreso da Orazio, poi da
Ovidio. Anzi, secondo Pasquali "l'ultimo verso par quasi una risposta alla
elegia citata dal primo libro di Tibullo ( I, 4, 21-24 citato sopra) pubblicato
appunto in quello stesso torno di tempo: come lì Giove perdonava, conscio di
aver dato lui il cattivo esempio, così qui punisce per dispetto degli inganni
in cui egli è caduto"[35]
Properzio in
un'altra elegia del medesimo libro fa dipendere la malattia di Cinzia non tanto
dal caldo canicolare quanto dal fatto che la fanciulla non ha rispettato gli
dèi:" venit enim tempus, quo torridus aestuat aer,/ incipit et sicco
fervĕre terra Cane./sed non tam ardoris culpa est neque crimina
caeli,/quam totiens sanctos non habuisse deos " (II, 28, 5-6), è
venuto il tempo nel quale l'aria ribolle torrida, e la terra comincia a
bruciare per
Il tovpo" degli
spergiuri puniti si trova anche in un'altra elegia di Tibullo, quella contro il fanciullo Maratho (I, 9). Il poeta
all'inizio utilizza il motivo della sera numinis vindicta , la punizione
divina che tarda ma arriva contro gli spergiuri:" Ah miser, et
siquis primo periuria celat,/sera tamen tacitis Poena venit pedibus!"
(vv. 3-4), ah sciagurato, se qualcuno in un primo momento nasconde gli
spergiuri, la punizione arriva comunque anche se tardi con piedi silenziosi.
Appendice
Una confutazione generale all’impunità di tutte le
malefatte
Plutarco nello scritto I ritardi della
punizione divina cita un proverbio: “i mulini degli dei macinano tardi”
(550) La formulazione completa è che essi macinano tardi, però macinano finemente.
L’autore dei Moralia spiega tale lentezza con la volontà divina di dare
un esempio “per eliminare la violenza e il furore delle nostre vendette. Il dio
insegna a non aggredire chi ci ha offeso” (550 E).
Orazio ricorda che “raro antecedentem scelestum/deseruit pede Poena claudo”
(Carm., III, 2, 31-32), raramente
E Stazio,
a proposito delle “ardite femmine spietate” dell’isola di Lemno, le quali
“tutti li maschi loro a morte dienno”[12]
ricorda, attraverso il racconto di Ipsipile, che “lentoque inrepunt agmine
Poenae” (Tebaide, V, 60), le
punizioni che procedono in colonna, senza fretta, quindi la “divum sera per
aequor iustitia” ( V, 359-360), la giustizia degli dèi che arriva tardi, ma
arriva magari su una nave.
Ancora: in La tempesta di Shakspeare, Ariele
ricorda ai tre peccatori (You are three men of sin, III, 3) Alonso, Sebastiano
e Antonio i quali hanno spodestato da Milano il buon Prospero, che per il loro
atto “The powers, delayng, not forgetting, have-Incens’d the seas and shores”,
le potenze che rimandano, non scordano, hanno aizzato i mari e le rive.
Bologna 6 giugno 2021 ore 11, 55
giovanni ghiselli
[1]
G. Pasquali, Orazio lirico, p. 477.
[2]Cfr. perfide in Catullo 64, 133
già visto; più avanti lo troveremo in bocca a Didone in Eneide IV
305.
[3]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 484.
[4]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 485.
[5]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 480,
n. 2.
[6] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 480,
n. 2.
[7] L. Tolstoj, Anna Karenina, p. 310.
[8] carentis=carentes.-
[9] Pasquali, op. cit., p. 485. Gli Epodi
furono pubblicati intorno al
[10] Odi , I, 6, 6.
[11] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 481.
[12] Dante, Inferno, XVII, 89 e 90.
Eros-
Eris- Parte V
Una
capatina in un paio di drammi di Shakespeare,
per variare.
Eros-Eris
nell’ Antonio e Cleopatra di
Shakespeare.
Una
scenata di Antonio a Cleopatra poi la pace
con amore
Nell’Antonio e Cleopatra di Shakespeare,
Antonio frustrato e depresso dopo la sconfitta di Azio dovuta alla fuga delle
navi di Cleopatra che pure aveva voluto la battaglia navale, le dice: “you
were half blasted ere I knew you” (III, 13, 105), eri gà mezzo appassita
prima che ti conoscessi.
Io
dunque ho lasciato il mio guanciale intatto a Roma –Have I my pillow left unpress’d in Rome – e rinunciato ad avere una
discendenza legittima -by a gem-L. gemma- of women- da una gemma tra le
donne per essere ingannato da una che presta attenzione ai servi? .
Cleopatra
aveva baciato la mano a Tireo, un messo mandato da Ottaviano per blandirla
affinchè non si uccidesse e il vincitore potesse portarla al proprio seguito
durante la celebrazione del trionfo.
Poi
continua: “sei sempre stata incostante, ma quando ci incalliamo nel nostro
vizio , oh miseria- the gods seel – L. cilium, eye-lid-our eyes- gli dei ci
acciecano. L’acciecamento mentale è l’ a[th dei Greci, quell’offuscamento della ragione che
impedisce di vedere gli errori che commettiamo in tempo per evitarli .
Dopo
averci tolta la vista mentale gli dèi ci fanno adorare i nostri errori-make us-adore our errors-e ridono
mentre noi avanziamo pomposamente verso il nostro rovinoso caos-laugh at while we strut –to our confusion
(III, 13, 113- 115),
Poi Antonio aggiunge un’altra
volgarità contro l’amante : “ I found you
as a morsel-latino morsus- cold upon /dead Caesar’s trencher” , vi ho
trovata come un boccone freddo sul tagliere di Cesare morto, nay, you were a fragment of Cneius Pompey’
s, (III, 13, 116-117) anzi eravate un avanzo di Pompeo. Senza contare le
lussurie inaudite, ossia non registrate dalla fama volgare.
In conclusione: “though you can guess what temperance should
be,-you knew not what it is” (III, 13,121-122), sebbene tu possa supporre
che cosa sia la temperanza, non hai saputo che cosa davvero è.
Quando un uomo se la prende così
bassamente con la sua amante, questo significa che sente la caduta della
propria identità e la affretta, la fa precipitare siccome è già entrato in
collisione con se stesso.
Infatti
poi lo sconfitto di Azio ingiunge al messo venuto da Roma, Tireo, che ha fatto
pure frustare per il suo civettare con Cleopatra, di tornare da Cesare a raccontargli come è
stato accolto. Aggiunge che Ottaviano lo fa arrabbiare- he makes me angry (III, 13, 143) in un momento in cui è facilissimo
farlo: “ when my good stars that were
former guides-have empty their orbs and shot their fires-into the abyss of hell
(144-147) quando le mie buone stelle che erano un tempo la mia guida hanno
lasciato vuote le loro orbite e hanno lanciato I loro fuochi nell’abisso
dell’inferno.
Per
lo stesso motivo se la prende con Cleopatra che prima di Azio era la sua
signora.
Nelle
sconfitte gli amanti perdono l’equilibrio del loro rapporto.
Diventano
del tutto incostanti.
Antonio
poco dopo cambia atteggiamento verso se stesso e verso l’amante:
“now I will set
my teeth-and send to darkness all that stop me. Come, let’s have one other gaudy
-latino gaudium, gaudere; greco ghqevw- night: call to me-all my sad captains, fill our
bowls –latino bulla-once
more:-let’s mock the midnight bell”
(III, 13, 181-185), ora voglio serrare I denti e mandare nelle tenebre tutti
quelli che cercano di fermarmi. Su, prendiamoci un’altra notte gioiosa:
chiamatemi tutti i miei tristi capitani, riempiamo le nostre coppe ancora una
volta: e scherniamo la campana della mezzanotte.
Cleopatra
replica: It is my birh-day:-I had thought
to have held it poor, but since my lord-is Antony again, I will be Cleopatra”
(185-187), è il mio compleanno: avevo pensato di passarlo tristemente , ma dal
momento che il mio signore è di nuovo Antonio, io voglio essere Cleopatra.
Antonio
conferma la sua decisione disperata senza escludere del resto la speranza: “come on my queen-greco gunhv-:-there is sap in ’t yet. The next time I do
fight-i’ll make death love me, for I will contend-even with his pestilent
scythe (III, 13, 191-194), venite mia regina: c’è ancora
della vita in questo. Nel
prossimo combattimento mi farò amare dalla morte, perché io lotterò persino con
la sua falce avvelenata.
Torna
la difesa dell’identità che è difesa della vita già asserita in I am Antony yet " ( III, 13, 92.)
T. S. Eliot trova in questo arroccarsi nell’identità
un’influenza senecana negli elisabettiani
Antonio
dice "Sono ancora Antonio " e
Medea
è anche lei fallita nell’amore tuttavia vuole sopravvivere e ci riesce a
differenza di Antonio e di Cleopatra.
Quando
la nutrice le fa notare:"Abiere
Colchi, coniugis nulla est fides;/nihlque superest opibus e tantis tibi" ( Senevca, Medea, vv. 164-165), quelli della Colchide sono lontani, la lealtà
del marito non esiste, di tanta potenza non ti rimane niente, la donna abbandonata ribatte:"Medea superest; hic mare et terras vides,/ferrumque
et ignes et deos et fulmina " (vv. 166-167), Medea rimane: qui
vedi il mare e le terre, e il ferro e i fuochi e gli Dei e i fulmini.
La difesa
dell'identità a tutti i costi anzi assimila questi personaggi agli eroi
omerici, che non cedono, e a quelli sofoclei: preferiscono tutti morire o fare
morire piuttosto che piegarsi alla pressione della norma.
L'autopossesso è l'unico punto fermo nei periodi e nei
momenti critici:"Vaco, Lucili, vaco, et ubicumque sum, ibi meus sum"
(Seneca, Ep. 62, 1), sono libero, Lucilio, sono libero, e dovunque
mi trovi sono padrone di me stesso.
Un’altra Epistola si chiude con queste parole: "Qui se
habet nihil perdidit: sed quoto cuique habere se contigit? Vale" ( 42,
10), chi possiede se stesso non ha perduto nulla ma a quanto pochi tocca questo
possesso! Stammi bene.
Due
corteggiamenti a dispetto della donna, eppure arrivati al successo
I
corteggiamenti di Riccardo e di Cielo d’Alcamo.
Nel
Riccardo III di Shakespeare (del
1592) Lady Anne si rivolge a Riccardo che l’ha avvicinata durante il
funerale del suocero di lei, Enrico VI Lancaster.
Anne attribuisce a Riccardo quella morte e
quella del proprio marito Edoardo
principe di Galles: “Foul devil, for
God’s sake hence, and trouble-tuvrbh-turba us not , diavolo immondo, per amor di Dio, vattene
e non ci disturbare for thou hast made
the happy earth- greco e[ra,
terra- thy hell, (I, 2, 50-51) tu che
hai fatto della terra felice il tuo inferno.
Il
tiranno come mivasma.
Cfr.
:"Fecimus coelum nocens"
( Seneca, Oedipus, v. 36), io ho reso colpevole il cielo[38]. Un'eco di questa
autodenuncia si trova nell'Amleto quando il re Claudio assassino del
fratello dice:"Oh, my offence is rank, it smells to heaven"
(III, 3), oh il mio delitto è marcio, e manda fetore fino al cielo.
Poco
dopo Amleto[39],
parlando con la madre, paragona lo zio a una spiga ammuffita che infetta l'aria
salubre (III, 4).
Riccardo
ha fermato il funerale di Enrico VI per corteggiare lady Anne che segue il
feretro.
Pima
la chiama sweet saint, dolce santa
poi le rinfaccia l’ignoranza delle regole della carità che rende bene per il male e benedizioni per
maledizioni-lady, you know no rules -latin. regula- of charity- latino caritas, carus-- which renders -Lat. reddere to give back- good for bad , blessings for curses (I,
2, 68-69).
Segue
uno scambio di battute contrastive tra i
due.
Cfr.
i dissoi; lovgoi della sofistica
presenti anche nelle Nuvole di
Aristofane.
Riccardo trova meravigliosa pure la collera di quella
donna-angelo “more wonderful when angels are
so angry” (I, 2, 74) e la
definisce -divine perfection of woman
(I, 2, 75) divina perfezione di donna.
Anne lo maledice chiamandolo –diffus’d infection—L.
infectus incompiuto inficio- of man-(78)
uomo totalmente infetto.
Vengono
in mente i contrasti presenti nella poesia provenzale e nella scuola siciliana
con Rosa fresca aulentissima di Cielo
d’Alcamo (databile tra il 1231 e il 1250)
Riccardo
chiede a lady Anne di accordargli con pazienza qualche agio per scusarsi: “let me have-some patient leisure to excuse
myself (81-82).
La donna
risponde che l’unica giustificazione accettabile da parte sua, uomo
turpe, è impiccarsi: “thou canst make-no excuse current but to hang thyself
(83-84).
Sentiamo
la risposta meno dura ma altrettanto decisa della rosa aulentissima al suo
corteggiatore nel “contrasto” di
Cielo
“Se
di meve trabàgliti , follia lo ti fa fare
lo
mar potresti arompere (arare), e venti asemenare
l’abère
d’esto secolo tutto quanto asembrare (radunare, provenzale asembrar)
Avere
me non pòteri a esto monno;
avanti
li capelli m’aritonno (mi taglio i capelli e mi faccio monaca)
Eppure
Riccardo riesce a sedurre la donna che ha reso vedova.
Lady Anne gli dice “thou are unfit for any place but hell” (I, 2, 111), tu non sei adatto
ad altro luogo che all’inferno, e lui le risponde di essere invece adatto for your
bed-chamber (114) per la vostra camera da letto
Seguono
diverse altre battute di un contrasto che via via si attenua
Vediamone
alcune
Riccardo
dice che è stata Anne a spingerlo a uccidere il marito, con la bellezza di lei
: it is my day, my life (134) essa-la
bellezza- è la mia luce, la mia vita.
Il
corteggiatore aggiunge che l’ha privata di un marito per dargliene uno
migliore-to a better husband-143.
Anne
sputa addosso a Riccardo e lui le domanda perché l’abbia fatto: “Why dost thou spit at me?” (148)
E
lei: “would it were mortal poison for thy
sake, vorrei che fosse veleno al tuo gusto (149)
Riccardo:
“never came poison from so sweet a place”
(150), mai è scaturito del veleno da una fonte tanto dolce.
Anne:
“never hung poison on a fouler toad”
151, mai è colato veleno su un rospo più immondo.
Riccardo
insiste con i complimenti e lady Anne continua a rilanciarglieli rovesciati in
ingiurie. Il duca di Gloucester non si lascia smontare e torna a dire che ha
ucciso istigato dalla bellezza di lei.
Poi
la mossa estrema di consegnarle la sua spada dicendo alla bella di ucciderlo e inginocchiandosi davanti a
lei. Anne non lo ammazza, anzi lascia cadere la spada e lo fa rialzare, quindi
gli chiede di mettere via l’arma e infine quando Riccardo le porge un anello
non lo rifiuta, ma per non cedere subito del tutto, gli fa: “to take is not to give” (I, 2, 205),
prendere non è dare. Ma ormai è solo un poco ritrosetta e per Riccardo è fatta.
Il
linguaggio drammatico di Shakespeare suggerisce attraverso la parola scritta il
gesto e il tono che devono accompagnarla mentre viene detta[40].
Come
quando Riccardo dopo avere conquistato Anne, dice: “Shine out, fair sun, till I have bought a glass, /That I may see my shadow-
greco skovtoς (oJ)- as I pass-latino passus” (I, 2, 267-268), brilla bel
sole, finché mi sia comprato uno specchio, perché io possa vedere la mia ombra
mentre cammino.
L’attore
non può non levare il capo verso il sole
indicando la sua ombra.
Sentiamo
il corteggiamento di Cielo che convince la rosa profumatissima
“Cercat’ajo
Calabria, Toscana e Lombardia,
Puglia,
Costantinopoli, Genoa, Pisa e Soria,
Lamagna
e Babilonia e tutta Barberia:
donna
non ci trovai tanto cortese
per
che sovrana di meve te prese”
Anche
la rosa viene a patti con l’indefesso corteggiatore
“
Poi tanto trabagliàsti, faccioti meo pregheri
Che
tu vada adomànnimi a mia mare e a mon peri
Se
dare mi ti degnano , menami a lo mosteri,
e
sposami davanti de la jente
e
poi farò le tuo comannamente”.
giovanni
ghiselli
Eros-
Eris parte VI. La storia di Didone
prima
parte
Nella storia virgiliana di Didone l’ amore è
associato al dolore attraverso ferite, incendi, fiamme, follia, colpa, peste e
suicidio.
Al
dolore della donna abbandonata segue l’odio per l’uomo.
Fin
dal primo canto Venere invia il figlio Cupido a Cartagine : "ut
faciem mutatus et ora Cupido/ pro dulci Ascanio veniat donisque furentem/ incendat reginam atque ossibus
implicet ignem " (Eneide I , 658-660) affinchè, mutato nel
volto e nell'aspetto, vada al posto del
dolce Ascanio, con i suoi doni infiammi la regina alla follia e faccia
penetrare nelle ossa il fuoco d'amore.
L'ardore
erotico che arriva alle ossa è un locus reperibile già in Teocrito:
"wj" ejk
paido;" [Arato" uJjp j ojstevon ai[qet j e[rwti" (VII, Le Talisie, v. 1O2) Aristi sa cantare
come Arato ardeva fin sotto le ossa per amore di un ragazzo.
In
questo stesso idillio VII Licida è ojpteuvomenon (v. 55), cottp da
Afrodite per Ageanatte.
Il
fuoco d'amore è attestato fin da Saffo
che anzi inaugura il topos della
cottura amorosa:"o[ptai"
a[mme"
(fr. 38 Voigt), tu mi cuoci.
Il
fuoco che brucia Didone non è di cottura né purificatore, ma deleterio,
velenoso, pestifero, ingannevole:"occultum
inspires ignem fallasque veneno " (I, v. 688), infondile un fuoco
occulto e ingannala con il veleno, ordina Cipride al figlio. L'amore è causa di infelicità, è pestifero, mortale,
e Didone innamorata di Enea è predestinata alla rovina:" Praecipue infelix, pesti devota futurae,/expleri mentem nequit ardescitque tuendo
" (I, 712-713), sopra tutti l'infelice, consacrata alla rovina imminente,
non sa saziare il cuore e s'infiamma guardando.
L'infelicità
connessa all'amore prima ancora che questo si realizzi si trova pure nella
storia di Medea delle Argonautiche di Apollonio Rodio: quando la ragazza si
avvia incontro a Giasone, che è stato salvato da lei e le ha promesso le nozze,
Questo presunto amore di Medea e Giasone non
dona gioia ai due amanti, al punto che l'autore
rivolge un'apostrofe ad Eros quale latore di infiniti dolori: Eros
atroce, grande sciagura, grande abominio per gli uomini ("Scevtli [Erw", mevga ph'ma, mega stuvgo"
ajnqrwvpoisin"
(IV, 445) da te provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori
infiniti si agitano per giunta. àrmati contro i figli dei miei nemici, demone,
quale gettasti l'accecamento odioso nell'animo di Medea ( oi|o" Mhdeivh/ stugerh;n
fresi;n e{mbale" a[thn", v. 449).
Catullo usa la parola pestis in nesso allitterante
con pernicies per definire il proprio amore doloroso dal
quale chiede agli dèi di liberarlo come da una malattia non meritata (O di (…) eripite hanc pestem perniciemque mihi-76, 16 e -2o).
In
Apollonio e in Catullo era presente la tragedia greca, specialmente Euripide.
Anche Virgilio si collega a Euripide direttamente (e non solo attraverso
Apollonio e Catullo): il IV libro meglio degli altri dell'Eneide ci mostra come egli
utilizzi e fonda suggestioni non solo di autori vari, ma di autori che sono già
tra loro in un rapporto di dipendenza, quasi ponendosi coscientemente
all'estremità di una catena letteraria. Euripide poteva offrirgli spunti non
solo per il personaggio di Didone, ma anche, con Giasone o altri, per il
personaggio di Enea."[41].
E'
quella che Musil definisce la
"catena di plagi"[42] che lega le grandi figure
del mondo artistico l'una all'altra.
Su
Catullo come primo anello latino di questa catena che rende malato l'amore
sentiamo Paolo Fedeli:"Grazie a Catullo una nutrita serie di vocaboli
acquista diritto di cittadinanza nel linguaggio d'amore: basterà ricordare la
definizione dell'amore come dolor (2 7) ardor (2 8) cura (2 10; 68 51), ma anche come morbus
(76 25) , come pestis e pernicies che s'insinua nelle membra simile a un torpor
(76 20) e le divora (31 15) ; oppure la definizione dell'amata come desiderium (2 5); dell'innamorato come vesanus
(7 10) miser (8 1; 51 5) e dell'innamorata che si strugge
come misella (31 14);
dell'innamoramento come equivalente dell'ineptire (8 1), del perdite amare (45 3) dell'amore deperire (35 12), del tabescere (68 55) dell'ardere (68 53)"[43].
L'ardore
e il fuoco a dire il vero sono già presenti negli amorazzi dei giovani della
commedia:"Sperabam iam defervisse
adulescentiam :/ gaudebam. Ecce autem de integro! " fa Micione negli Adelphoe di Terenzio (v. 151-152) a
proposito del nipote, speravo che fossero sbolliti quegli ardori giovanili: me
ne rallegravo. Ecco invece di nuovo.
L'amore
in ogni caso secondo questi autori fa male, rende infelici, malati, ferisce,
consuma, brucia. "Deve" fare male poiché chi lo vive senza sensi di
colpa è meno intimidibile e ricattabile; insomma è meno soggetto al potere, ai
tempi di Augusto come ai nostri.
Su
questo stesso motivo sentiamo D. H.
Lawrence (1885-1930):"C'è un desiderio inconfessato, implacabile,
dietro a tutte le teorie del sesso. Ed è desiderio di annullare, di cancellare
completamente il mistero della bellezza. (…) La scienza ha una misteriosa
avversione per la bellezza, in quanto non riesce a sistemarla adeguatamente
nella visione che essa ha del mondo come serie di cause ed effetti. La società
a sua volta ha una misteriosa avversione per il sesso, in quanto interferisce
perpetuamente con la organizzazione bene ordinata che l'uomo sociale ha
inventato per fare quattrini. Le due avversioni si assommano e ne risulta che
il sesso e la bellezza sono soltanto espressioni dell'istinto di riprodursi. E
allora diciamolo: il sesso e la bellezza sono una cosa sola, come la fiamma e
il fuoco. Se provi odio per il sesso, lo provi anche per la bellezza. Se ammiri
la bellezza vivente, provi rispetto anche per il sesso…La sventura della nostra civiltà deriva
dall'odio morboso che proviamo per il sesso"[44].
La
fobia del sesso fa parte della propaganda di qualsiasi regime.
Deriva
spesso dalla storia personale e, quando è espressa da autori maschi, deve
essere collegata alla paura delle donne. Faccio un esempio che accosta, paradossalmente, Aristofane a
Manzoni.
Nelle
Rane
di Aristofane il personaggio
Eschilo si vanta di non avere mai fatto agire nei suoi drammi Fedre né Stenebee
puttane (povrna", v. 1043) e anzi
di non avere mai creato una donna in amore (" ejrw'san pwvpot j ejpoivhsa gunai'ka", v. 1044).
Il
personaggio Euripide ribatte maliziosamente che nei drammi del rivale in
effetti non c'è nulla di Afrodite (1045), ossia non c'è grazia.
Ebbene
lo stesso merito, dubbio assai, se lo attribuisce Manzoni nel Fermo e Lucia :" Non si deve
scrivere di amore in modo da far consentire l'animo di chi legge a questa
passione. Di amore ce n'è seicento volte di più di quanto sia necessario alla
conservazione della nostra riverita specie. Io stimo dunque opera impudente
l'andarlo fomentando con gli scritti".
A
queste parole dell'autore aggiungo alcune frasi prese da una tesi di
abilitazione all'insegnamento secondario di una giovane laureata della SSIS di Bologna:"Il carattere di
Lucia è architettato sulla base d'un sistema che uccide il pensiero…Le sue
aspirazioni, il suo voto incontrano freddezza nel lettore di cuore sano; essa
appare o insipida o egoista e tutta la maestria della disposizione non basta a
infondere sangue a quella creazione…Lucia fa olocausto di sé sull'altare di un
sistema"[45].
Manzoni,
maniaco dell'antisesso, si noti, è un moderato e uno che si dice cristiano.
Eppure il Cristo disse bene della peccatrice :"Remissa sunt peccata eius multa, quoniam dilexit multum, cui autem
minus dimittitur, minus diligit " (Luca, 7, 47), le sono perdonati i
suoi molti peccati poiché ha amato molto, quello invece cui si perdona meno,
ama meno. E' una di quelle splendide pagine del Vangelo che sono ignorate o
fraintese dai furfanti bigotti i quali adulterano le parole sante. A tale
categoria appartiene "la vecchia Bovary" la quale, quando il
farmacista propose di chiamare sua nipote Madeleine "protestò aspramente
contro quel nome di peccatrice"[46].
Tolstoj
ci scherza sopra con intelligenza:" I libertini, queste Maddalene di sesso
maschile, hanno un segreto senso della propria innocenza, né più né meno come
le Maddalene femminili, e basato sulla medesima speranza di perdono:"Tutto
le sarà perdonato, perché ha molto amato; e a lui tutto sarà perdonato, perché
si è molto divertito"[47].
Ma
torniamo all’Eneide con Didone che all’inizio del quarto canto dopo il
racconto di Enea è già ferita dal volnus
–vulnus- amoroso:"At regina gravi iamdudum saucia cura/volnus
alit venis et caeco carpitur igni " (IV, vv. 1-2) ma la regina, già da
tempo vulnerata da pesante affanno, /ravviva nelle vene la ferita ed è divorata
da un fuoco nascosto.-
at: la congiunzione
avversativa connette il primo verso di questo canto all'ultimo del terzo con il quale Virgilio dichiara concluso il
racconto di Enea, capace, come Odisseo, di sedurre attraverso le parole il cui
lungo fluire ha messo in agitazione la regina mentre ha dato finalmente quiete
all'eroe che ha raccontato se stesso:"Conticuit tandem factoque hic
fine quievit" (III, 718), tacque infine e posto qui un termine si
riposò.
Bologna
7 giugno 2021 ore 10, 40
giovanni
ghiselli
Eros-
Eris parte VII. La storia di Didone seconda parte
La discordia della regina con l’amore sentito
quale colpa.
All'inizio
del libro IV Didone è già immersa nella sua passione tormentosa e il nuovo
punto di partenza del dramma è la sofferenza della donna colpita e vulnerata saucia (v. 1) da amore. La metafora
della ferita volnus (v. 2) per
significare l'amore proviene dalla poesia greca, specialmente da quella
alessandrina, ed è spesso associata con l'immagine del figlio di Afrodite, che ferisce con le sue frecce.
Da
una freccia di Eros , è ferita Medea nella scena dell'innamoramento nel poema
di Apollonio Rodio
Il
fanciullo inviato dalla madre a colpire Medea lanciò una freccia apportatrice
di pene (poluvstonon
ijovn, Argonautiche, III 279 ) dopo essere
giunto invisibile eppure violento, come si scaglia sulle giovani vacche
l’assillo oi\stro" che i pastori
usano chiamare tafano-muvwpa- (277-278)
L'aggettivo
(saucia ) ha una sua tradizione di
pathos erotico, da Ennio, già citato, a Catullo cui Virgilio allude :"multiplices animo volvebat saucia curas ",
64, 250, volgeva ferita nell'animo molti pensieri affannosi.
Si tratta, naturalmente, di Arianna
abbandonata da Teseo.
Citiamo
di nuovo Lucrezio:"idque petit
corpus, mens unde est saucia amore
" (IV, 1048), ed essa (la voluntas eicere , il desiderio di
eiaculare dove si indirizza la dira
libido , la brama funesta) cerca
quel corpo da cui la mente è ferita d'amore.
Per
quanto riguarda igni ( et
caeco carpitur igni Eneide, IV, v.
2 il soggetto è regina del primo
verso), il poeta passa facilmente dalla metafora della ferita, a quella, ancora
più diffusa, del fuoco.
E'
notevole che Apollonio Rodio nella scena dell'innamoramento di Medea unisca già le due immagini: la freccia scagliata
da Eros alla giovinetta bruciava sotto il cuore simile a fiamma bevlo" d ’ ejnedaiveto
kouvrh/-nevrqen ujpo; kradivh/ flogi;
ei[kelon
(Argonautiche, III 286-287).
"Multa
viri virtus animo multusque recursat/gentis honos haerent infixi pectore voltus/verbaque
nec placidam membris dat cura quietem" (vv. 3-5), il gran valore
dell'eroe e la grande gloria della stirpe le ricorrono al pensiero, le
sembianze e le parole le stanno ficcate nel cuore e l'affanno non concede alle
membra un riposo tranquillo.
Didone
è stata colpita dalla forte, intensa
espressività degli occhi (voltus è il
volto che guarda) e delle parole (verba).
Le
due parti più significative del viso
sono la bocca, os, e gli
occhi, oculi. Nel voltus determinanti sono gli occhi. "Possiamo
quindi ritenere che, quando dicono vultus, i Romani concentrino il senso
della faccia non nella parte bassa del viso, come nel caso di os, ma in
quella alta.
Alla
faccia/bocca, sembra dunque contrapporsi una faccia/occhi"[48].
La
bocca del resto emette le parole, anche queste funzionali alla seduzione.
I
primi versi del quarto canto, prefigurano la catastrofe finale, presentando
l'amore come tormento: le sembianze e le parole di Enea, invece di procurare
gioia alla regina, sono infissi nel petto come dardi dolorosi e Didone, al
contrario del profugo troiano, non trova riposo. Diverso, sproporzionato è
dunque l'investimento, e questa è la prima causa che crea dolore negli amanti,
tragicamente in uno dei due. Gli strumenti seduttivi di Enea, oltre la virtus
evidenziata dal racconto e connessa pure etimologicamente al vir che ne
è dotato[49],
sono l'aspetto bello (voltus, non per niente Enea è figlio e protetto di
Venere che lo ha pure imbellito[50]) e le parole (verba).
Sono gli eterni mezzi del seduttore; gli stessi che usa Odisseo, anche lui
infatti abbellito dalla sua dea che è Atena[51].
L'amore è dolore, affanno ed è anche colpa: subito dopo la regina, parlando con la fida
sorella Anna, celebra l'eccezionalità dell'ospite troiano e aggiunge che se non le fossero venuta in odio i letti
e la fiaccole nuziali (si non pertaesum animi taedaeque fuisset, v. 18)
forse solo per l'ospite troiano avrebbe potuto soccombere alla colpa:"huic uni forsan potui succumbere culpae " (v. 19).
Le vedove in Roma, pur essendo loro concesso
dalla legge un nuovo matrimonio, ritenevano degno d'onore mantenersi unĭvirae, cioè donne che avevano avuto
un solo marito. Questo naturalmente secondo gli antiqui mores al cui
ripristino Virgilio vuole contribuire.
Il
fatto che, uomini e donne, si
accontentino di un solo coniuge corrisponde al costume antico dei Romani secondo
quanto racconta Valerio Massimo
(I sec. d. C.)"Quae uno contentae matrimonio fuerant, corona pudicitiae
honorabantur. Existimabant enim eum praecipue matronae sincera fide incorruptum
esse animum , qui, depositae virginitatis cubile egredi nesciret, multorum
matrimoniorum experientiam quasi legitimae cuiusdam intemperantiae signum esse
credentes. Repudium inter uxorem et virum a condita urbe usque ad centesimum et
quinquagesimum annum nullum fuit " (Factorum et dictorum
memorabilium, II, 1, 3), quelle che si erano accontentate di un solo
matrimonio venivano onorate con la corona della pudicizia. Consideravano
infatti che fosse in particolare puro per schietta fedeltà l'animo di una
matrona che non sapesse uscire dal letto dove aveva lasciato la verginità,
poiché credevano che l'esperienza di molti matrimoni fosse segno di una per
così dire legittima sfrenatezza. Non ci fu nessun divorzio tra moglie e marito
dalla fondazione di Roma per centocinquant'anni.
Anche
per gli uomini romani unum matrimonium è motivo di lode: Tacito fa
l'elogio funebre di Germanico, morto avvelenato in Siria da Pisone nel 19 d. C.
, riportando l'opinione di chi lo
anteponeva ad Alessandro Magno: avevano in comune il bell'aspetto, la stirpe nobile,
la morte precoce tra genti straniere dovuta a insidie familiari, "sed
hunc mitem erga amicos, modicum voluptatum, uno matrimonio, certis liberis
egisse " (Annales , II, 73), ma questo era stato gentile con
gli amici, temperante nei piaceri, sposato con una sola donna, con figli
legittimi.
Si
può notare che da Virgilio non viene altrettanto incolpato l'amore omosessuale:
Niso ardeva per il bell'Eurialo "amore
pio " (Eneide , V, 296) di
un amore santo.
Poco
dopo Didone confida alla sorella che dopo la morte di Sicheo solo Enea ha scosso
i suoi sensi e ha colpito l'animo in modo da farlo vacillare:"Adgnosco veteris vestigia flammae "
(v. 23), riconosco i segni dell'antica fiamma.
Se
ne ricorderà Seneca nella Medea la cui nutrice vedendo la furia della moglie
tradita dice:"irae novimus veteris
notas " (v. 394), conosco i segni dell'antica ira, poi Dante che ne dò
una traduzione letterale nel Purgatorio ("conosco i segni dell'antica
fiamma", XXX, 48). Ogni autore che conosce la tradizione se ne avvale come base aggiungendo del suo.
Così l'edificio cresce.
Dare
retta a un impulso amoroso viene vissuto dalla regina come una violazione del pudore, (Pudor, v. 27) considerato al pari di una
divinità.
Valerio Massimo nel proemio del VI libro invoca
Non
era più questo il sentimento comune nell’età imperiale e nemmeno in quella
precedente.
Seneca nel III libro del De Beneficiis sostiene che la frequenza e la diffusione dei
peccatori leva l'infamia a ogni peccato, dall'ingratitudine
all'adulterio:" Numquid iam ulla repudio erubescit, postquam inlustres
quaedam ac nobiles feminae non consulum numero sed maritorum annos suos
computant et exeunt matrimonii causa, nubunt repudii? " (III, 16, 2), oramai forse qualcuna arrossisce per un
ripudio, dopo che alcune donne famose e
nobili contano i loro anni non con il numero dei consoli ma con quello dei
mariti ed escono di casa per sposarsi, si maritano per divorziare?
Subito
dopo il filosofo aggiunge:"Numquid
iam ullus adulterii pudor est, postquam
eo ventum est, ut nulla virum habeat, nisi ut adulterum inrītet? Argumentum est deformitatis pudicitia " (III, 16, 3), c'è forse più un poco di vergogna
dell'adulterio, dopo che si è arrivati al punto che nessuna donna ha il marito,
se non per stimolare l'amante? La
pudicizia è indizio di bruttezza..
L’esempio
partiva dalle donne dell’alta società già nell’ultima età repubblicana: si
pensi alla Sempronia di Sallustio complice di Catilina. Era una donna colta: “litteris Graecis, Latinis docta, psallere
saltare elegantius quam necesse est probae, multa alia, quae instrumenta
luxuriae sunt. Sed ei cariora semper
omnia quam decus atque pudicitia fuit" ( Bellum Catilinae , 25) sapeva di lettere greche e latine, suonare e
danzare più raffinatamente di quanto convenga a una donna onesta e molte altre
arti che sono strumenti di lussuria. Ma
tutto le fu sempre più caro del decoro e della pudicizia.
Sentiamo
qualche parola dei Greci su aijdwv" pudore, rispetto,
senso di vergogna.
Aijdwv" è considerato già da Esiodo uno dei pilastri
del vivere umano e civile (l'altro è Nevmesi", la riprovazione, lo sdegno): quando se
ne andranno dalla terra non ci sarà più
scampo dal male (Opere, 200-201).
La
vergogna, ossia la riservatezza e il ritegno contaddistinguono il giovane
beneducato da quello petulante e sfacciato
nelle Nuvole di Aristofane dove il Discorso Giusto
prescrive al ragazzo di essere "th'" aijdou'"...ta[galm j "(v. 995),
l'immagine del ritegno. Al tempo dell'ajrcaiva paideiva (
Nel
mito di Prometeo del Protagora di Platone
(322b): senza aijdw'" e divkh, "virtù
altrettanto morali quanto politiche", distribuite a tutti non
esisterebbero le città:"Hermes è incaricato di portarle agli uomini; ma,
nella distribuzione, deve fare l'opposto di quello che aveva fatto Prometeo:
non dare a ciascuno una capacità differente, ma le stesse a tutti egualmente e
indistintamente"[53].
Virgilio
dunque dà voce agli scrupoli sessuali che trattengono la regina, mentre la
sorella Anna con la voce del buon senso le consiglia di non opporsi anche a un
amore gradito ("placitone etiam
pugnabis amori? ", v. 38) e dunque naturale; tuttavia tale modo reale e razionale di
vedere eros viene smontato dal poeta
Simile
a quello di Anna è il consiglio della nutrice di Fedra che, con ragioni del
resto assai diverse da quelle di Didone, lotta contro la propria passione nell'Ippolito di Euripide :" ouj lovgwn eujschmovnwn-dei' s
j, ajlla; tajndrov"",
vv. 490-491, tu non hai bisogno di discorsi speciosi, dice l’anziana alla giovane
innamorata, ma di quell'uomo.
Le
proposte delle nutrici spesso sono più convincenti di quelle degli accigliati
catoniani:"nutrīcum et paedagogorum rettulēre mox in adulescentiam
mores "[54],
ben presto i ragazzi riproducono nella giovinezza i costumi di nutrici e
pedagoghi.
Bologna
7 giugno 2021 ore 19, 31
giovanni
ghiselli
La
storia di Didone terza parte con l’accostamento a quella di Medea
Fuoco ferita da freccia e follia tutti insieme
tormentano Didone durante la successiva cerimonia religiosa con cui la
regina cerca la pace:"quid vota furentem,/ quid delubra iuvant? Est mollis flamma medullas/interea et tacitum vivit
sub pectore volnus./ Uritur infelix Dido totaque
vagatur/urbe furens, qualis coniecta cerva sagitta" (IV, vv. 65-69) a che giovano i sacrifici, a che i templi a chi è
fuori di sé? divora i teneri midolli la fiamma intanto e si ravviva in silenzio
la ferita sotto il petto. Brucia l' infelice Didone e vaga fuori di sé per
tutta la città, quale cerva dopo che è stata scagliata la freccia.
-Est= edit. La radice deriva dall'indoeuropeo *ed-
da cui discendono pure il greco [esqivw< *ejjjd-qivw l' italiano
inedia, l'inglese to eat , il tedesco essen .-mollis=molles.
-Uritur: c'è un consiglio dell'apostolo Paolo
alle vedove che contiene questo verbo, con questa diatesi:"Dico autem
innuptis et viduis:"Bonum est illis si sic maneant sicut et ego; quod si
non contineant, nubant. Melius est autem nubere quam uri" (Ai
Corinzi , I, 7, 9), dico però a quanti non sono sposati e alle vedove: è
bene per loro che stiano così come sto io, ma se non si contengono, si sposino.
E' meglio infatti sposarsi che ardere (krei'tton gavr ejstin gamh'sai
h] purou'sqai).
Possiamo fare una riflessione tutta nostra: se l'amore
è fuoco e il matrimonio lo spenge, il matrimonio nega l'amore.
L'immagine della freccia che trafigge la cerva quale
correlativo venatorio del dardo d'amore è una " virgiliana comparatio
" che impressionò Petrarca
schiavo e malato d'amore portandolo a identificarsi con la creatura colpita,
ossia, in definitiva, con Didone:"Huic ego cerve non absimilis factus
sum. Fugi enim, sed malum meum ubīque circumfĕrens "[55] io sono diventato non dissimile a questa cerva. Sono fuggito infatti, ma
portando il mio male dappertutto in giro con me. Poco più avanti Petrarca cita
Orazio per significare l'impossibilità di liberarsi dal dardo amoroso:"celum
non animum mutant, qui trans mare currunt "[56] cambiano il cielo non l'animo quelli che corrono al di là del
mare.
Per quanto riguarda la dipendenza di Virgilio da Catullo segnalo due versi del Liber
: "ignis mollibus ardet in medullis " (45, 16), arde il
fuoco nelle tenere midolle, dice Acme a Settimio.
Poi: "cum penitus maestas exēdit cura medullas "(
66, 23), quando una pena profonda consumò le afflitte midolla Qui si tratta di
Berenice
La catena delle analogie prosegue con
La donna descrive questo suo bruciare per Enea
illustrandolo in maniera particolareggiata con due paragoni, il secondo dei
quali prefigura il suicidio per amore:"Uror, ut inducto ceratae sulpure
taedae;/ut pia fumosis addita tura rogis "(VII, 25-26), brucio come
fiaccole coperte di cera e impregnate di zolfo; come i santi incensi gettati
sui roghi fumosi.
Il dardo d'amore nell'Eneide è una canna
mortale ficcata nel fianco:"haeret lateri letalis harundo "
(IV, v.73).
Il sentimento amoroso è dunque connesso al
dolore, alla morte e al senso di colpa. La causa è il terrore dell'istinto che
è sintomo di decadenza e di calo del turgore vitale.
Un’altra e[ri" è quella contro gli istinti "combattere gli istinti-questa è la
formula della décadence ; fintanto che la vita è ascendente ,
felicità e istinti sono uguali"[57]
Rimasta sola nella casa vuota la digraziata regina si
tormenta:"sola domo maeret vacua " (v. 82) o in altri momenti
inganna se stessa trattenendo in grembo Ascanio "infandum si possit
fallere amorem " (v. 85), per vedere se possa illudere l'indicibile
amore.
L’Amore vissuto come colpa e follia, può diventare anche crudeltà, nel caso
che la donna abbia a portata di mano creature deboli-compresa se stessa- con
cui prendersela:"Saevus Amor docuit natorum sanguine matrem/commaculare
manus. Crudelis tu quoque, mater./Crudelis
mater magis, an puer improbus ille? ", il crudele
Amore insegnò alle madri a contaminare le mani col sangue dei figli. Crudele
anche tu madre. Crudele la madre di più o quel figlio malvagio? canta Damone
nell Ecloga VIII (vv. 47-49) di Virgilio con riferimento a Medea,
a Venere e a Cupido.
Anche Giunone, benevola e protettiva verso la regina
di Cartagine, individua l'amore di lei come ardore e furore:"ardet
amans Dido traxitque per ossa furorem " ( IV, 101), arde d'amore
Didone e ha contratto nelle ossa il furore. Ne parla con Venere auspicando un
accordo che non ci sarà.
La pazzia con ira e rabies secondo
Giovenale rendono meno
esecrabili i crimini di Medea e Procne, rispetto a quelli delle matrone
romane perpetrati per denaro o per il potere: “ et illae/grandia monstra
suis audebant temporibus, sed/non propter nummos. Minor admiratio summis/
debetur monstris, quotiens facit ira nocentem /hunc sexum et rabie iecur incendente
feruntur/praecipites… (VI, 644-649), anche quelle ai loro tempi osavano
grandi mostruosità, ma non per denaro. Meno stupore si deve alle mostruosità
somme, tutte le volte che è l'ira a rendere assassino questo sesso ed esse sono
trascinate a precipizio dalla rabbia furiosa che brucia il fegato.
L’ e[ri" tra due
parti dell’anima di una stessa persona
La Medea di Euripide individua nel suo animo un conflitto tra la
passione furente e i ragionamenti, quindi comprende che l'emotività, sebbene
sia causa dei massimi mali, per gli uomini è più forte dei suoi
propositi:" Kai; manqavnw me;n oi\\\a
dra'n mevllw kakav,-qumo;" de; kreivsswn tw'n ejmw'n
bouleumavtwn,-o{sper megivstwn ai[tio" kakw'n brotoi'""( vv. 1078-1080), capisco quale abominio sto per compiere, ma più
forte dei miei ragionamenti è la passione, che è causa dei mali più grandi per
i mortali", dice la furente nel quinto episodio dopo avere preso la
decisione folle di uccidere i figli .
Un'eco di questa situazione si trova nelle Metamorfosi
di Ovidio dove Medea cerca di contrastare, senza successo, la passione per
Giasone " et luctata diu, postquam ratione furorem/ vincere non
poterat, "Frustra, Medea, repugnas." (VII, vv. 10-11), e dopo
avere combattuto a lungo, dacché non poteva vincere la follia amorosa con la
ragione, si disse "ti opponi invano, Medea".
Nell'Eneide il bruciare della regina
Didone innamorata, prima ancora che l'amore venga consumato e che
fallisca, rende la donna miserrima (v. 117) secondo la
qualificazione della stessa dea che la protegge.
Il desiderio amoroso viene realizzato durante la
tempesta e a questo punto il male diviene irreversibile e letale:"Ille
dies primus leti primusque malorum/ causa fuit "(v. 169-170),
quel giorno fu il primo della morte e il primo dei mali, e ne fu la causa;
anche perché Didone non si preoccupa della fama , ossia dell'infamia che
gliene deriverà, in quanto pensa a un amore coniugale, senza contare che quel
sant'uomo di Enea non aveva tempo per stare a lungo con lei.
Il desiderio non trova un limite nella vergogna che
viene momentaneamente repressa ma non superata da Didone: il conflitto tra
queste due forze contrastanti è drammaticamente sentito dalla Medea
vergine di Apollonio Rodio che
il pudore (aijdwv") tratteneva ,
mentre un desiderio possente (qrasu;" i{mero" ) spingeva (Argonautiche , III, 653).
Bologna 8 giugno 2021
giovanni ghiselli
[1]Secretum , III, 40.
[2]Ep. , I, 11, 27.
[3]F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli
, p. 57.
[4] M. Fusillo, Lo spazio letterario della
Grecia antica , I, 2, p. 124.
La storia di Didone quarta parte con altre donne
abbandonate. Medea e Arianna
La “lussuria” della regina scatena l'ira di Iarba, re
dei Getuli e pretendente respinto, e la complicità di Enea provoca la collera
di Giove che considera legittimo e santo l'ardore sacro della gloria ("si
nulla accendit tantarum gloria rerum ", v. 232); impuro e deleterio
invece quello dell'amore. Il figlio di Venere dunque "naviget "
(v. 237), navighi, non ami punto!
Quindi il re degli dèi manda Mercurio per rinfocolare i
sensi di colpa. Appena vede Enea il messaggero infatti lo assale ("Continuo
invadit ", v. 265) rimproverandolo per il suo crimine; quello di
scordare il regno che è il suo destino: Tu
(…) uxorius
(…) regni rerumque oblite tuarum
8265-267). Scordare è il vetitum maximum
anche nell’Odissea (novstou te laqevsqai, IX, 97, mangiando i fiori del loto ) Scordare il
ritorno per l’aedo che recita significa scordare l’Odissea.
Excursus
Scordare
Scordare
è non tenere nel cuore, dato che la memoria è in massima parte emotiva. Io
almeno ricordo solo quello che mi sta a cuore, che ha colpito la mia emotività.
Nell’Odissea diversi compagni di Ulisse arrivano a
scordare il ritorno novstou
laqevsqai (IX,
97)
Sono
quelli che mangiano i fiori del loto e si perdono nell’indifferenza. Sono i
drogati.
Per
me che studio e racconto quanto mi ha impressionato, e cerco di farlo leggendo
il meno possibile, scordare costituirebbe il fallimento della mia identità di
conferenziere-educatore che mi sta a cuore.
Per
Odisseo che non vuole scordare il ritorno a Itaca novstou laqevsqai è il vetitum maximum. Anche per me e per
altri studiosi seri è un tabù,
Ma
vediamo l’altra faccia di questa medaglia.
Nell’Eneide di Virgilio, Mercurio mandato da
Giove investe Enea rimproverandolo: “Continuo
invadit: Tu nunc, Karthaginis altae
Fundamenta locas
pulchramque uxorius urbem
Extruis heu regni rerumque oblite tuarum?” (265-267)
Tu
ora getti le fondamenta dell’ala Cartagine, schiavo di donna, e costruisci la
bella città, dimentico ahi del regno tuo e
delle cose che devi?
Doveva
dare pincipio a quella che sarebbe stata
Senza
contare il mattatoio delle guerre sulle quali si è fondato l’impero
giovanni
ghiselli
L'eroe troiano davanti a tanto rimprovero nemmeno
cerca di difendere l'amore:"obmutuit amens/arrectaeque horrore comae et
vox faucibus haesit "(vv. 280-281), restò muto, fuori di sé, gli
si drizzarono i capelli per il terrore e la voce si arrestò nella gola.
Ma Enea deve compiere altre imprese grandi e
meravigliose, sicché non rimane agghiacciato a lungo : infatti lo scalda un
ardore legittimo e davvero degno di un eroe:"Ardet abire fuga
" (v. 281), arde di andarsene in fuga, e dà ordini per prepararla
furtivamente, riservandosi di parlarne a Didone nei momenti più dolci.
La regina però lo capisce da sola ("quis
fallere possit amantem? ", v. 296, chi potrebbe ingannare
un'amante? ), lei che temeva tutte le situazioni anche tranquille:"omnia
tuta timens" (v. 298). L'ossimoro che accosta parole di significato
contrastante evidenzia quanto di contraddittorio c'è nell'anima di questa donna
innamorata e ansiosa. L'allitterazione evoca un battere di colpi e contraccolpi
sul’incudine dove il male si posa.
Per giunta
Allora scoppia di nuovo l'incendio della
pazzia e dell'amore:"Saevit inops animi totamque incensa per urbem/
bacchatur ", vv. 300-301, ella infuria, priva di senno, e infiammata
baccheggia per tutta la città.
Quindi la disgraziata affronta Enea al grido di "perfide
" (305), che echeggia il lamento dell'Arianna abbandonata di Catullo[58]
Questa pessima fama di Enea ha un’eco in
Shakespeare. La figlia di Cimbelino
Imogene, falsamente creduta infedele dice che molti uomini onesti vennero
ritenuti falsi quando vennero interpretati tali quale era il falso Enea ( being heard like false Aeneas, Cimbelino, III, 4, 58-59)
Prima Didone lo aggredisce rinfacciandogli la
malafede, poi lo supplica, prospettandogli la propria morte, invocandone il
senso dell'onore, la gratitudine dovuta, e cercando di
impietosirlo:" Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum/posse nefas
tacitusque mea decedere terra?/nec te noster amor nec te data dextera
quondam/nec moritura tenet crudeli funere Dido? " (Eneide, IV, vv. 305-308), hai sperato, perfido persino di
dissimulare un così grande misfatto, e di poter andartene dalla mia terra senza
dir niente? non ti trattiene il nostro amore né la destra data una volta né
Didone pronta a morire di morte crudele?
mea… terra: la
terra e la donna sono spesso identificate nella letteratura antica come non
poche volte in quella moderna: Pound, a proposito dell'Ulisse di Joyce, ossia di
Leopold Bloom, nota che :"La sua sposa Gea-Tellus, simbolo della terra, è
il suolo dal quale l'intelletto tenta di saltar via, e nel quale ricade in saecula saeculorum "[59].-
A proposito della data dextera si
ricorderanno della Medea di Euripide i versi 21-22:"ajnakalei'
de; dexia'"-pivstin megivsthn, reclama il sommo
impegno della mano destra.
Vediamo altri tre versi:" per conubia nostra, per inceptos
hymenaeos,/si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam/dulce meum, miserere domus labentis et
istam,/oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem " (vv. 316-319), per la nostra unione, per le nozze iniziate, se ho
ben meritato di te, o se per te c'è stato qualcosa di dolce in me, abbi pietà
di una casa che vacilla e deponi questo proposito, ti prego, se ancora c'è
qualche posto per le preghiere. Questi versi contengono echi catulliani
La figlia di Minosse, piantata in asso da Teseo mentre
dormiva nell'isola di Dia, al risveglio si dispera, corre come una puledra e
impreca contro il perfido amante:"Sicine me patriis avectam, perfide,
ab aris,/ perfide [2], deserto liquisti in litore,
Theseu?/Sicine discedens neglecto numine divum/inmemor a! devota domum periuria
portas? " (Catullo 64, vv. 132-135) è così che tu, traditore,
condottami via dal focolare paterno, mi hai abbandonata in una spiaggia
deserta, Teseo, traditore? E' così che tu, fuggendo dopo avere disprezzato il
potere dei numi, dimentico ah! porti a casa i tuoi maledetti spergiuri?
l'Arianna dell'opus maximum di Catullo emetteva grida acute dal petto
rivolgendosi al mare scrutato dai monti o dalla riva. La ragazza, rievoca
le sue promesse vane che l'uomo crudelis (136) : "at non
haec quondam blandā promissa dedisti-
voce mihi, non haec, miserae, sperare iubebas,-sed conubia laeta, sed optatos hymenaeos " (64, 139-141)
Si bene quid de te merui detto da Didone
(317) è echeggiato da Dante, quando Virgilio si rivolge alla fiamma antica che
contiene i politici fraudolenti Ulisse e Diomede: “s’io meritai di voi mentre
ch’io vissi-s’io meritai di voi assai o poco” (Inferno, XXVI, 80-81).
Entrambe le donne rinfacciano all'amante in fuga le
nozze fatte da loro sperare e terminate appena iniziate.
Il Teseo di Catullo pagherà il fio della sua perfidia.
Arianna abbandonata glielo augura e lo prevede:"sed
quali solam Theseus me mente reliquit,/tali mente, deae, funestet seque suosque
" (vv. 200-201), con quale animo Teseo mi lasciò sola, con tale, o dee, getti
nel lutto se stesso e i suoi.
In effetti Giove ascolta la preghiera la nemesi
si compie:"annuit invicto caelestum numine rector " (v. 204),
il re degli dèi annuì con il suo assenso invincibile.
La fides violata incorre qui nella
punizione divina: Arianna, credendosi ormai destinata alla morte, invoca su
Teseo la maledizione degli dèi, e la sua preghiera non rimane inascoltata.
Teseo è immemor tanto delle promesse ad Arianna (il matrimonio)
quanto di quelle al padre (issare le vele bianche) e questo suo carattere
costante è quello che lo porta tanto a tradire la donna che lo ama quanto a
provocare la morte del proprio padre.
E’ il contrappasso.
Che la slealtà verso chi si fidava rende infelici
prima di tutti gli stessi sleali lo afferma già Isocrate nel Nicocle (del 368 ca) :" jaqliwtavtou"
hJgei'sqe kai; dustucestavtou" o{soi peri; tou;" pisteuvonta"
a[pistoi gegovnasin" (58), reputate molto infelici e disgraziati
quanti sono stati sleali nei confronti di chi credeva in loro; infatti,
continua il re di Salamina di Cipro che pronuncia il discorso, è necessario che
tali uomini passino il resto della vita con la paura di tutto e senza più
fidarsi di nessuno.
In Pene d’amore perdute di Shakespeare
leggiamo: “Thus pour the stars down plagues for perjury” (V, 2),
così le stelle versano guai sullo spergiuro.
Catullo per lo mano non fa di Teseo
l’incarnazione della pietas.
Enea è il santo eroe magnificato da Virgilio oppure un
seduttore come il fallace Giasone che Dante mette all’inferno dove per giunta
situa Didone?
Virgilio viene deriso da Ovidio per l’agiografia di
Enea che il poeta di Sulmona mette nel novero dei seduttori.
Nel
proemio dell'Eneide[60] Virgilio domanda con meraviglia:"Musa, mihi
causas memora, quo numine laeso,/quidve dolens regina deum tot volvere casus/insignem pietate virum, tot adire
labores/impulerit. Tantaene animis caelestibus irae?" (vv, 8-11), o
Musa, dimmi le ragioni, per quale offesa volontà divina, o di che cosa
dolendosi la regina degli dèi abbia spinto un uomo insigne per la devozione a
girare per tante sventure, ad affrontare tante fatiche. Così grandi sono le ire
nell'animo dei celesti?
Ebbene Ovidio trova la ragione delle grandi
ire divine: dopo avere affermato che gli
uomini ingannano spesso, più delle tenere fanciulle (saepe viri fallunt,
tenerae non saepe puellae, Ars, III, 31) il poeta peligno inserisce
Enea tra i seduttori ingannevoli quali il fallax Iason (Ars, III, 33) e Teseo, tanto perfido
che, se fosse dipeso da lui, Arianna avrebbe nutrito gli uccelli marini.
Enea dunque "et famam pietatis habet,
tamen hospes et ensem[61]/praebuit et causam
mortis, Elissa, tuae" (Ars, III, 39-40), ha la nomèa di uomo pio,
tuttavia da ospite ti offrì la spada e il motivo della morte tua, Elissa.
Ovidio dunque smaschera Enea e il poeta che lo celebra come antenato di
Augusto.
Il dulce
meum rammentato da Didone a Enea (v. 318) ricorda quello che
Tecmessa cerca di richiamare alla mente di Aiace quando, nella tragedia di Sofocle, tenta di dissuaderlo dal
suicidio:" ajndriv toi crew;n-mnhvnhn prosei'nai, terpno;n ei[
tiv pou pavqh/:- cavri" cavrin gavr ejstin hJ
tivktous j ajei;-o{tou d j ajporrei' mnh'sti" eu\
peponqovto",-oujk a]n
levgoit j e[q j ou|to" eujgenh;" ajnhvr" (Aiace , vv. 520-524), per l'uomo certo è doveroso che
rimanga un ricordo congiunto a qualche gioia se in qualche modo l'ha provata:
infatti grazia genera grazia, sempre.
. Chiunque perda il ricordo di avere ricevuto del
bene, non può più essere chiamato nobile. Ancora una volta scordare è male.
Ma tra i nostri amanti non può esserci più nulla di
buono poiché compiacenza e condiscendenza devono essere reciproche mentre Enea
non vuole saperne di Didone, nemmeno quando questa arriva a dire " Saltem
si qua mihi de te suscepta fuisset/ante fugam suboles, si quis mihi parvulus
aula/luderet Aeneas, qui te tamen ore referret,/non equidem omnino capta et
deserta viderer "(Eneide, IV, vv. 328-330), se almeno
fosse stato da me concepito un figlio tuo prima della tua fuga e nella mia
reggia giocasse un piccolo Enea che comunque sia ti riproducesse nel viso,
certo non mi sentirei del tutto ingannata e abbandonata.
Ma l'eroe è chiamato altrove dal destino e non vuole
sentire altra fiamma che quella del fatum
Salvo l'affetto per la donna che sta abbandonando (ci
mancherebbe!), egli ha doveri più forti verso gli dèi, il padre e il figlio.
Sono gli argomenti classici degli amanti (uomini e ora anche tante donne) che
nemmeno ci pensano a lasciare la famiglia. Apollo attraverso vari oracoli gli
ha ordinato di raggiungere l'Italia:"hic amor, haec patria est "
(v. 347), questo è l'amore, questa è la patria. Inoltre l'eroe riceve
rimproveri dall'immagine turbata del padre morto, ovviamente in somnis , nei sogni, in tutti: quotiens
umentibus umbris-nox operit terras, vv. 351-352, ogni volta che la notte
con umide ombre copre le terre, diverse immagini oniriche, il padre, il
figlio e il messo divino mandato da Giove, lo biasimano per quel suo iniquo
procrastinare il compimento del destino. Sicché conclude dicendo all’amante:"Desine
meque tuis incendere teque querellis:/ Italiam non sponte sequor "
(vv. 360-61), smetti di infiammare me e te stessa con i lamenti: non cerco
l'Italia di mia volontà.
La parola querellis ci porta
di nuovo a ricordare l’opus maximum di Catullo (vedi, c. 64, v. 130 e v.
195, dove querellae sono i "lamenti" di Arianna abbandonata).
Enea da una parte, Prometeo e Antigone dall’altra
Enea in fuga, affrontato da Didone, trova la scusa
della coercizione del fato che lo obbliga a lasciarla (Italiam non sponte
sequor, Eneide, IV, 361).
Questa espressione prefigura
quanto dirà all’ombra dell’amante morta suicida “invitus regina tuo de
litore cessi " (Eneide, VI, v. 460) contro la mia
volontà, regina, mi allontanai dalla tua spiaggia.
Tali parole rendono bene l'idea, anche se non voluta
da Virgilio, della viltà dell'uomo.
Si pensi a Prometeo di Eschilo che dice: io sapevo tutto questo:/di mia volontà, di mia volontà ho compiuto la
trasgressione, non lo negherò (eJkw;n eJkw;n h{marton, oujk ajrnhvsomai)/ aiutando i mortali ho trovato io stesso le pene (aujto;~ huJrovmhn povnou~ )"(Prometeo
incatenato, . 265-267).
Oppure
si ponga mente all’eroica ragazza Antigone che risponde al tiranno Creonte:”kai; fhmi; dra`sai koujk ajparnnou`mai
to; mhv”
(Sofocle, Antigone, v. 443), confermo
di averlo fatto e non lo nego.
Prometeo
e Antigone rivendicano ciascuno la propria trasgressione a costo del martirio.
Noi sappiamo che quella dell'amore, quando c'è,
è la forza massima, ineluttabile; lo sa anche Virgilio (omnia vincit Amor,
et nos cedamus amori " Ecloga X, v. 69, tutto vince Amore e noi
all'Amore cediamo), e lo sa pure Didone che si dispera siccome capisce che Enea
non la ama e non ha il coraggio di dirlo. Comprende che ha fatto l’amore con un
uomo che non lo meritava e disprezza se stessa perché non l’aveva capito.
Molto più onestamente Odisseo lascia Calipso senza
cercare scuse: Ermes lo cercava sull’isola di Ogigia:" e lo trovò
seduto sul lido: mai gli occhi/erano asciutti di lacrime, ma gli si struggeva
la dolce vita/mentre sospirava il ritorno, poiché non gli piaceva più la
ninfa" (Odissea, V, 151-153).
Calipso lo comprende e gli dà il viatico per il viaggio.
Didone
invece si ammazza perché è stata lasciata in malo modo, in maniera vile, falsa
e volgare
Aggiungo che il verso di scusa “invitus regina tuo
de litore cessi " risente di Catullo che dà voce al rimpianto
della treccia per la testa della regina Berenice:"invita, o regina, tuo
de vertice cessi " (66, v.39), contro voglia o regina, mi sono
allontanata dal tuo capo.
Bologna 8 giugno 2021 ore 18
giovanni ghiselli
Didone
parte V
L’amore
infelice nelle Bucoliche e nelle Georgiche.
Amor omnnibus idem
Notturni
di Virgilio, Saffo, Teocrito, Alcmane
Nell'ecloga
II il pastore Coridone arde d'amore per il
bell'Alessi. (Formosum pastor Corydon
ardebat Alexin, 1) che non ha pietà di lui. Fin dalle Bucoliche (
Coridone
non ha tregua dall'ardore amoroso nemmeno quando il bestiame e, con motivo
teocriteo[62]
perfino i ramarri, riposano al
fresco:"Nunc etiam pecudes umbras et
frigora captant / Nunc viridis[63] etiam occultant spineta lacertos " (vv. 8-9), ora anche il bestiame cerca di
prendere le ombre e il fresco, ora i rovi spinosi nascondono perfino i
verdi ramarri.
Alla
fine di questa bucolica il tramonto
raddoppia le ombre ma non concede pausa all'ardore di Coridone e alla
passione che trascina ciascuno sconvolgendo ogni misura :"…trahit sua quemque voluptas (65) “et sol crescentes decedens duplicat umbras;/me tamen urit amor : quis enim modus adsit amori? " (v.65 e vv. 67-68).
Chi
è afferrato da Eros ignora la giusta
misura siccome l'amore è follia:"A
Corydon, Corydon, quae te dementia cepit!
", v. 69.
Nella Georgica III, che tratta l'allevamento del bestiame, la conflagrazione amorosa
riguarda, oltre gli umani, anche gli animali:"Carpit enim vires paulatim uritque videndo/ femina, nec nemorum patitur
meminisse nec herbae/ dulcibus illa quidem inlecebris et saepe
superbos/cornibus[64] inter se subigit decernere amantis[65], " (v. 215-218) logora infatti le forze a poco a poco, e li
brucia la femmina in vista, e non lascia che si ricordino dei boschi né
dell'erba, ma quella certo li attira con dolci seduzioni e spesso costringe i
fieri pretendenti a combattere con le
corna.
E’ l’eris, talora mortale, tra i pretendenti.
Tale
istinto è uguale per tutte le creature viventi:
"Omne adeo genus in terris hominumque ferarumque/et genus
aequoreum, pecudes pictaeque volucres/ in furias ignemque ruunt: amor omnibus idem "(vv. 242-244) così ogni specie sulle
terre di uomini e di animali, e la razza marina, il bestiame e gli uccelli
colorati si precipitano in ardori furiosi, amore è lo stesso per tutti.
Virgilio
è poeta protetto e deve assecondare il pogramma di restaurazione degli antiqui mores voluto dal suo protettore.
Pogramma che comunque fallirà.
Nemmeno
nelle Metamorfosi del mulierosus poeta Ovidio
mancano casi di ustione amorosa, ed essa tocca perfino gli dèi:"sic deus in flammas abiit, sic pectore
toto/uritur " ( I, 495-496),
così il dio si infiammò, così in tutto il petto/brucia. Si tratta di
Febo che brucia per Dafne. Più avanti (III, 464) è Narciso che brucia per amore
di se stesso:"uror amore mei,
flammas moveoque feroque ", brucio per amore di me stesso e porto e
agito le fiamme.
Ma
torniamo a Didone (V parte)
Didone
non accetta le scuse e, infiammata ("accensa
" v. 364), rimprovera all'amante in partenza una perfidia e
un'ingratitudine, tanto grandi da avere spento in lei ogni possibilità di
credere nella buona fede che oramai in nessun luogo è sicura"Nusquam tuta fides " (v. 372).
Foedus e fides
sono legati etimologicamente: foedus
è l'accordo, il patto stipulato secondo le sacre regole della fides
Fides insomma è il
rispetto del foedus, il trattato reso visibile e simboleggiato da una
stretta delle destre (cfr. Eneide IV,
vv. 305-308 e Medea di Euripide 21-22
citati sopra).
la
regina infiammata dunque investe Enea
accusandolo di crudeltà disumana. Esprime sfiducia perfino in Giove e Giunone
che non tutelano la fides. La donna
sente che il fuoco d'amore è diventato un incendio di odio:" Heu furiis
incensa feror (v. 376 e cfr. v. 300 citato sopra), ahi sono trascinata in
fiamme dalle furie!
Laa
donna infuriata congeda con maledizioni
l'amante che la sta abbandonando:" i, sequere Italiam ventis, pete
regna per undas;/spero equidem mediis, si quid pia numina possunt,/supplicia
hausurum scopulis et nomine Dido/saepe vocaturum. Sequar atris ignibus absens/et, cum frigida mors anima seduxerit artus,/
omnibus umbra locis adero. Dabis, improbe,
poenas;/ audiam et haec manis veniet mihi fama sub imos " (vv. 381-
386), va', insegui l'Italia coi venti, cerca un regno attraverso le onde. Spero
però che in mezzo agli scogli, se i pii numi hanno qualche potere, berrai la
pena e invocherai spesso Didone per nome. Ti inseguirò con fiaccole funebri
anche da lontano e quando la gelida morte avrà separato le mie membra
dall'anima, sarò presente in tutti i luoghi come ombra. pagherai il fio
malvagio! starò in ascolto e questa fama mi raggiungerà sotto le ombre profonde.
Si noti che ventis e undas
significano l'instabilità pericolosa della ricerca di una terra da parte di
Enea e tale fluttuare corrisponde
all'inaffidabilità dell'anima di Enea: fissi sono invece gli scogli che
colpiranno il traditore facendogli bere quell'acqua dove erano stati scritti i
suoi giuramenti spergiuri. Didone favorirà quella morte e la fama che l'ha
infamata da viva la compenserà portandogliene la sospirata notizia
Il
furor d'amore è divenuto furor di odio senza confini.
Ma
il “pio” eroe deve eseguire comunque gli ordini degli dèi e non può permettersi
l'amore:"At pius Aeneas, quamquam lenire dolentem/solando cupit et
dictis avertere curas,/multa gemens magnoque animo labefacto amore,/iussa tamen
divom exsequitur classemque revisit " (vv. 393-396), ma il pio Enea,
sebbene desideri mitigare la dolente consolandola e rimuovere gli affanni con
le parole, gemendo molto e scosso nell'animo da grande amore, esegue nondimeno
gli ordini degli dèi e torna a vedere la flotta.
Pius Aeneas è una formula che torna una
ventina di volte nel poema.
Personalmente
assimilo la pietas di Enea all'ipocrisia
del furfante bigotto. La assimilo pure al culto della peiqarciva (disciplina) di
Creonte che, per reprimere la disobbedienza della nipote, la manda a morte, ed
ella morendo rivendica la pietà come virtù propria:":"O rocca della
terra di Tebe e dei miei padri/e dèi progenitori/io vengo portata via e non
indugio più./Guardate, maggiorenti di Tebe,/l'unica superstite della stirpe
regale,/quali sofferenze inumane da quali uomini subisco/poiché onorai la pietà
-th;n eujsebivan
sebivsasa"
( Antigone, vv.937-943).
Capisco e apprezzo di più la motivazione
dell'abbandono di Calipso da parte di Odisseo:" ejpei; oujkevti h{ndanh nuvmfh " (Odissea
, V, 153), poiché la ninfa non le piaceva più.
Virgilio,
mosso a compassione della donna, e non volendo del resto incolpare il suo eroe,
ritorce e fa ricadere sull'amore la maledizione indirizzata a Enea dall'amante
abbandonata:"Improbe Amor, quid non
mortalia pectora cogis!" (Eneide,
IV, v. 412), malvagio Amore, a cosa non spingi i petti mortali!
E'
un'apostrofe contro l'amore che viene
messo allo stesso livello dell'auri sacra
fames , la maledetta fame dell'oro che ha spinto il re di Tracia
Polimestore a uccidere l'ospite Polidoro:"Quid non mortalia pectora cogis,/ auri sacra fames! " (Eneide , III, 56-57).
Didone
fa un'ultima prova "ne quid inexpertum
frustra moritura relinquat " (v. 415) per non lasciare nulla di
intentato, destinata com'è a morire invano. Quello dell'amore è un piano
inclinato e scivoloso che conduce inevitabilmente alla rovina (cfr. infelix, pesti devota futurae già nel I
canto, v.712). Dunque la regina manda la sorella Anna da Enea a chiedere
l'ultima grazia (extremam...veniam ,
v. 435) di un rinvio:"tempus inane
peto, requiem spatiumque furori,/dum mea me victam doceat fortuna dolere
" (vv. 433-434), un tempo di intervallo chiedo, una tregua e un respiro al
mio furore, finché la mia sorte insegni a me vinta a soffrire. L'intervallo si
deve comunque concedere anche ai ragazzini nelle scuole (danda est tamen
omnibus aliqua remissio raccomanda Quintiliano nella sua Institutio oratoria
, I, 8) ma Enea rimane inesorabile:"fata
obstant ", v. 440, i destini si oppongono e la dura volontà dell'eroe
si conforma alla necessità che ha le mani d'acciaio.
La sua mente rimane immota come le radici di
una quercia scossa dal vento.
I
notturni di Virgilio, Saffo, Teocrito, Alcmane
Nemmeno
la notte che porta riposo a tutte le creature lenisce l'affanno
dell'abbandonata:"Nox erat et
placidum carpebant fessa soporem/corpora per terras silvaeque et saeva
quierant/aequora, cum medio volvontur sidera lapsu,/cum tacet omnis ager,
pecudes pictaeque volucres,/quaeque lacus late liquidos quaeque aspera
dumis/rura tenent, somno positae sub nocte silenti/(lenibant curas et corda
oblita laborum[66])/At non infelix animi Phoenissa neque umquam/solvitur in somnos
oculisve aut pectore noctem/accipit: ingeminant curae rursusque
resurgens/saevit amor magnoque irarum fluctuat aestu " (vv. 522-532),
Era notte e i corpi stanchi raccoglievano per le terre il placido sonno e le
selve e le acque furiose erano tranquille, quando le stelle si volgono alla
metà del loro giro, quando tace ogni campo, le bestie e gli uccelli variopinti,
sia quelli che abitano per largo tratto i limpidi laghi, sia quelli delle
campagne ispide di cespugli, posati nel sonno sotto la notte silenziosa/calmavano
gli affanni e i cuori dimentichi delle fatiche/.
Ma
Ecco dunque il contrasto tra la quiete della
natura e l'agitazione della creatura che si sente in colpa.
La natura in Saffo è sempre portatrice di
luminosa bellezza che offre ristoro ai mali, consolazione per le perdite, e
compagnia di vario genere: malinconica nella solitudine, festosa, floreale e
variopinta nei momenti lieti.
Vediamo un paio di notturni. Fr. 94D:
"E' tramontata la luna
e
le Pleiadi; è a metà
la
notte[67], trascorre la giovinezza
e io dormo sola (e[gw de, movna kateuvdw)"
Admeto dopo il funerale di Alcesti lamenta
il fatto che
i
vestiti a lutto con mevlane~
stolmoiv
lo accompagnano a casa levktrwn
koivta~ ej~ ejrhvmou~
(Euripide, Alcesti, v. 925), a
giacigli di letti vuoti.
Orazio(in
Sat . I, 5, 82-83) utilizza, in un
contesto ironico, il luogo saffico:"hic
ego mendacem stultissimus usque puellam/ad mediam noctem expecto ",
qui io sono tanto stupido da aspettare fino a mezzanotte una ragazza bugiarda.
Fr. 4D. "Le stelle intorno alla bella
luna
nascondono di nuovo l'immagine lucente,
quando, piena, splende al massimo
su tutta la terra
...e si inargenta"[68].
Il
notturno secondo me più suggestivo è
quello di Alcmane lirico corale, di
lingua dorica, del VII secolo:" Dormono le cime dei monti e i
burroni/e le balze e anche le gole/e le specie degli animali quante ne nutre la
nera terra/e le fiere montane e la stirpe delle api/e i mostri negli abissi del
mare purpureo; /dormono le razze degli uccelli dalle ampie ali" (fr. 58
D.).
Il
contrasto rilevato da Virgilio si trova in Apollonio Rodio quando cala la notte
che porta il desiderio del sonno a tutti ma non a Medea tenuta sveglia dal
desiderio di Giasone:" quindi la notte portava la tenebra sopra la terra;
nel mare i marinai fissarono l'Orsa Maggiore e le stelle di Orione dalle navi,
e qualche viandante e custode di porte desiderava il sonno, e un denso torpore
avvolgeva una madre di bambini morti; né c'era più abbaiare di cani per la
città, né chiasso sonoro: il silenzio possedeva la tenebra che diventava nera.
Ma il dolce sonno non prese Medea: molti pensieri la tenevano sveglia poiché le
mancava Giasone e temeva la possente forza dei tori"(Le Argonautiche , III, 744-753).
Già
in questo poeta ellenistico alla natura forte e sana del lirico arcaico Alcmane
è succeduto un mondo che incornicia il dolore degli uomini. Quella madre di
bimbi morti sembra anticipare vedove, orfani e simili sofferenti pascoliani.
Bologna
9 giugno 2021 ore 10, 11
giovanni
ghiselli
Parte
settima. Il suicidio di Didone
Un
oggetto con presenza simultanea nella letteratura antica: la spada del suicidio
donata dal nemico. Segue il punto di vista della regina che è opposto a quello
di Enea. Appena sveglia Didone si
accorge
dell'abbandono, si infuria e vorrebbe attaccare all’amante in fuga il fuoco che la divora per distruggerlo:"ferte citi flammas, date tela, impellite remos! " (Eneide IV, v. 594), portate, svelti le
fiamme, spiegate le vele, spingete i remi!
Per lei le azioni di Enea sono tutt'altro che pie:"nunc te facta impia tangunt? " (v.
596), soltanto ora ti colpiscono le scelleratezze? domanda a se stessa.
Quindi torna la denuncia della perfidia:"En dextra fidesque! " (v. 597),
ecco la fedeltà dell'impegno! C'è il rimpianto di non avere usato il suo fuoco
per provocare una conflagrazione :"faces
in castra tulissem/implessemque foros flammis
natumque patremque/cum genere extinxem[69], memet super ipsa dedissem " (vv. 604-606), avrei potuto
portare le fiaccole nell'accampamento, e riempire di fiamme le corsie delle
navi e il figlio e il padre annientare con tutta la razza, e me stessa
avrei potuto gettare sopra di loro. Se non nella vita potevano essere uniti almeno nella
morte. Dopo Eros-Eris, Eros-Thanatos.
Segue
una maledizione per la cui attuazione sono chiamate a raccolta potenze celesti
e infere. La preghiera nera della regina, deprecativa nei confronti di
Enea invoca anzitutto il sole :"Sol, qui terrarum flammis opera omnia lustras " (v. 607), Sole
che con le tue fiamme rischiari tutte le opere della terra. Il sole illumina e
vede tutto
Gli
altri numi invocati sono Giunone, la dea pronuba che è stata "interpres curarum et conscia " (v. 608), intermediaria e al
corrente delle pene di Didone; poi Ecate, la divinità infernale "nocturnisque Hecate triviis ululata per
urbes " (609) invocata a ululati nei trivi notturni per le città.
Hecate triformis torna nella preghiera
nera della Medea di Seneca (v. 7). Un po’ tutta Didone è una filigrana
di Medea.
Vengono
poi chiamate le Furie vendicatrici di Elissa morente e tutti gli dèi "Dirae ultrices et di morientis Elissae" (v. 610). La regina li prega di rivolgere
prima o poi la loro potenza contro quell'infandum
caput (v. 613) quella testa
esecranda, abominevole.
Sentiamo
Gaetano De Sanctis
“Più antico peraltro e più istruttivo è il rimanente
della leggenda: la persona anzitutto d'Elissa, 'Allisat', la
"Gioconda", che sembra una ipostasi della dea di Cartagine, Tanit[70]…l'intervento
di Iarba, forse una divinità libica; il pianto di Elissa pel marito, in cui
certo si rispecchia, come nel pianto d'Iside per Osiride o d'Afrodite per
Adone, la triste e desolata vedovanza della natura nell'atto che le muoiano in
seno durante il verno i germi vitali…Poi la lunga rivalità con Roma indusse
nella leggenda, trasformandola, nuova vita"[71].
La leggenda, continua De Sanctis, si arricchì della storia d'amore di Enea e
Didone, un "romanzo d'amore immaginato genialmente da un poeta guerriero[72]
che di sugli esemplari alessandrini aveva appreso a pregiare la novella erotica
e a vivificare d'intuizioni umane il mito, e dalle battaglie, cui aveva
partecipato, della prima punica attingeva, non l'odio feroce per Cartagine che
ispirarono alle generazioni più giovani le vicende della seconda, ma la fede
nei destini di Roma e il rispetto cavalleresco per la sua degna rivale…E le
tracce di Nevio seguì poi, rivestendo la nuova favola d'alta
poesia, Vergilio; se pure
all'abbandono di Elissa per parte d' Enea non seppe neanch'egli trovare una
motivazione così umana e chiara come quella che trova Omero dell'abbandono di
Calipso e di Circe per parte d'Odisseo. Omero gli aveva fornito lo spunto cantando, d'Odisseo, l'incontro con le dee
amorose e lusinghiere e gli aveva insegnato a sovrapporre l'intervento divino
liberatore, che compie e che risolve, alle contingenze e alle passioni umane,
da cui rampolla per forza intrinseca la catastrofe. Ma non riuscì Virgilio di
sostituire con passioni altrettanto umane e vive l'amore alla patria, il
ricordo della famiglia, il sentimento del dovere verso i compagni, per cui
Odisseo aveva già vinto virtualmente le lusinghe delle due dee incantatrici
quando ne conseguì dall'aiuto degli dèi la vittoria attuale. Il mero capriccio
del destino costringe Enea ad abbandonare la terra dove aveva trovato
ospitalità ed amore, e a quel capriccio l'eroe sacrifica con fredda spietatezza
i suoi sentimenti. Gli è che la figura d'Enea, diventata troppo ieratica e
rigida
nell'entrare tra le figure schematiche della
leggenda romana, non comportava quei contrasti di passioni che, dando alla luce
uno sfondo cupo d'ombra, giustificano ad esempio in Euripide, artisticamente se non moralmente, il
ripudio di Medea per parte di Iasone. Ma in Elissa invece il poeta gentile che
aveva formato il gusto sulla letteratura erotica ellenistica…foggiò una
immagine viva di donna innamorata e dimentica, per l'amore, di ogni cosa;
assai, appunto per questo, lontana dalle maliarde omeriche, il cui segreto
spirituale di dee è impenetrabile ad occhio umano, e non degna, per questo,
d'essere tradita dall'uomo e dal destino. Con ciò, mentre nelle imprecazioni
della moritura Vergilio faceva presentire l'impeto e l'odio di Annibale e nella
tragica sorte di lei quella della sua città, era artisticamente giustificato il
suicidio di Didone che il mito narrava e il mito stesso, delineato con una
delicatezza di sentimento pari alla finezza della espressione, si trasformava
in un dramma in un dramma immortale d'amore e di morte, in cui era adombrato il
dramma della lotta tra Roma e Cartagine"[73].
Didone
dunque si uccide maledicendo Enea gli augura quanto di peggio può capitare a un
uomo: la guerra, la morte prematura e
l’insepoltura in mezzo alla sabbia:"sed cadat ante diem mediaque
inhumatus harena " (v. 620)
Vengono
prefigurate le guerre puniche: la discendenza di lei e quella di lui dovranno
sempre odiarsi:"…nullus amor populis
nec foedera sunto " (624), nessun amore né alleanza ci sia mai tra i
due popoli.
Quindi
viene evocata la figura di Annibale:"exoriare
[74] aliquis nostris ex ossibus ultor,/ qui face Dardanios ferroque sequare
colonos,/nunc, olim, quocumque dabunt se tempora vires " (vv.
625-627), sorgi tu dalle mie ossa, chiunque tu sia vendicatore che perseguiti
col fuoco e col ferro i coloni Dardani, ora, poi, in qualunque momento si offriranno le forze.
Questa
grande fallita in amore, nel momento di morire, auspica la grande guerra contro
i Romani di quello che sarà il più nobile fallito del mondo antico, secondo una
definizione di G. De Sanctis.
"Litora
litoribus contraria, fluctibus undas/imprecor, arma armis: pugnent ipsique
nepotesque " (vv. 628-629), auguro che i lidi contro i lidi, le onde
contro i flutti, le armi contro le armi combattano loro stessi e i discendenti.
L’Eris dpvrà coinvolgere i mari e le terre dei due popoli.
Didone
poi vuole spezzare la luce: sale furibonda i gradini del suo alto rogo e snuda
la spada di Enea, dono richiesto non per questo uso: " altos /conscendit
furibunda rogos ensemque recludit/Dardanium, non hos quaesitum munus in usus "
(vv. 646-647).
Non
è difficile individuare nella spada un simbolo fallico, sulle tracce di Freud:"
Tutti gli oggetti allungati: bastoni, tronchi, ombrelli (per il modo di
aprirli, che può essere paragonato all'erezione!) intendono rappresentare il
membro maschile, così come tutte le armi lunghe e acuminate coltelli, pugnali,
picche"[75].
A
maggior ragione questa spada nata come segno d'amore.
T.
S. Eliot afferma che la tradizione deve essere conquistata con grande fatica.
essa esige che si abbia anzitutto un buon senso storico cioè la consapevolezza
che il passato è anche presente. Il senso storico costringe a scrivere : "with a feeling that the whole of
the literature of Europe from Homer and within it the whole of the literature
of is own country has a simultaneous existence and composes a simultaneous
order"[76],
con la coscienza che tutta la
letteratura europea da Omero, e, all'interno di essa, tutta la letteratura del
proprio paese, ha un'esistenza simultanea e compone un ordine simultaneo.
Nella
letteratura europea simultanea da Omero in avanti hanno un’esistenza simultanea
anche gli oggetti materiali. L'ensis lasciata da Enea e impiegata da
Didone, quale dono richiesto non per essere usato in quel modo, ossia per il suicidio, risale all'Aiace di
Sofocle dove il Telamonio si uccide con la spada a borchie d'argento (xivfo" ajrgurovhlon) ricevuta in dono
da Ettore[77],
dopo averla ricordata come e[cqiston belw'n (Aiace, v. 658), la più odiosa tra le armi, e
avere sentenziato che sono non doni, i doni dei nemici e non sono
vantaggiosi:"ejcqrw'n
a[dwra dw'ra koujk ojnhvsima" (v. 665).
Si
può pensare anche allo scudo: in Archiloco (fr. 6 D.), in Orazio (Odi, II, 7, 10), in Tacito (Germania, 6, 7).
In questo modo Virgilio non solo ci ricorda
una concatenazione tragica dei destini, ma ci riporta, attraverso Sofocle, a
Omero. Insomma accade che la letteratura europea diventi organica “swmatoeidh' sumbaivnei givnesqai”, poiché succede
che si intreccino (sumplevkesqai) le opere degli
autori, e tendano tutte verso un unico
fine (kai;
pro;" e{n givnesqai tevlo" ). Polibio afferma questo a proposito dei
fatti della storia mondiale, unificati
dai Romani in rebus ipsis, e da lui stesso nel racconto[78].
Noi
auspichiamo questa organicità per i nostri studi
Didone
si uccide conservando comunque il senso della propria grandezza poiché se non è
possibile la felicità nella vita, per i magnanimi è sempre possibile, in una
forma o in un'altra, la grandezza dell'eroismo:"Vixi et quem dederat cursum Fortuna peregi,/et nunc magna mei sub
terras ibit imago " (vv. 653-654), ho vissuto e compiuto il percorso
che
Magna ha valore
predicativo.
Didone
riconosce a se stessa delle capacità realizzative che l'avrebbero anche resa
felice se non avesse incontrato Enea :"Urbem praeclaram statui, mea
moenia vidi,/ulta virum poenas inimico a fratre recepi:/heu nimium felix, si litora tantum/numquam
Dardaniae tetigissent carinae " (vv. 655-658), ho fondato una città
splendida, ho visto mura mie, vendicato il marito ho punito il fratello nemico:
oh troppo felice, se solo le le navi della Dardania non avessero mai toccato
le nostre coste!
Il
rimpianto della non conoscenza del seduttore che ha sconvolto la vita, il
desiderio di annullare la tragica storia d'amore appartiene già alla Medea di Euripide (v. 1 e ss.), a quella di
Apollonio Rodio ( Le Argonautiche ,
IV, 32-33), a quella di Ennio (246-9 Vahlen 2)
e, con influenza chiaramente visibile, all'Arianna dell'opus maximum di Catullo"utinam ne tempore primo/Gnosia Cecropiae tetigissent litora puppes
" (64, 171-172), oh se mai fin dal primo momento le navi cecropie non
avessero toccato le rive di Cnosso!
La
versione virgiliana appare più semplice e più ricca di pathos.
Infine
Didone vuole mandare a Enea un messaggio letale e un annunzio di futuri
danni:"Hauriat hunc oculis ignem
crudelis ab alto/dardanus et nostrae secum ferat omina mortis "
(661-662), beva con gli occhi questo fuoco il crudele troiano dal largo, e
porti con sé i presagi della mia morte.
Quindi
l'atto del suicidio:"Dixerat, atque illam media inter talia
ferro/conlapsam aspiciunt comites ensemque cruore/spumantem sparsasque manus.
It clamor ad alta/atria; concussam bacchatur Fama per urbem" (vv.
663-666), aveva detto e in mezzo a tali parole le compagne la vedono caduta sul
ferro e la spada spumeggiante di sangue e le mani cosparse. Sale il grido fino
agli alti atri;
La
morte della regina prefigura la distruzione della sua città:"Lamentis gemituque et femineo ululatu/tecta
fremunt, resonat magnis plangoribus aether,/non aliter quam si immissis ruat
hostibus omnis/Karthago aut antiqua Tyros flammaeque furentes/culmina perque
hominum volvantur perque deorum " (vv. 667-671), gli edifici fremono
di lamenti e di gemiti e di ululati femminei, l'etere risuona di grandi pianti,
non altrimenti che se Cartagine tutta o l'antica Tiro crollasse, entrati i
nemici, e le fiamme furiose si avvolgessero sui tetti degli uomini e degli dèi.
E’
la connessione organica del capo con il suo popolo e la sua terra
Sappiamo
fin da da Omero[79]
e da Esiodo[80],
che i costumi, virtù, vizi e perfino malattie del capo si riverberano sulla sua
terra per una sorta di responsabilità collettiva
Bologna
10 giugno 2021 ore 8, 50
giovanni
ghiselli
Didone.
Ottava e ultima parte
Passiamo al VI canto dell’Eneide.
La regina si trova nei lugentes campi (441), i campi del pianto
"Hic quos durus amor crudeli
tabe peredit " (442) qui si trovano quelli che un amore spietato
divorò con consunzione crudele. Neanche la morte basta a dissolvere la
sofferenza d'amore degli umani:"…curae non ipsa in morte relinquont
" (v. 444), gli affanni neppure nella morte li lasciano. e vediamo
che il volnus di Didone non si cicatrizza nemmeno dopo il suicidio
:"recens a volnere Dido-errabat silva in magna… " (VI,
450-451) Didone errava nella gran selva, con la ferita fresca.
L'accoppiata recens vulnus è utilizzata da
Seneca nella Consolazione indirizzata Ad Helviam Matrem (del 42 d. C.)
dall'esilio in Corsica:"Gravissimum est ex omnibus quae umquam in
corpus tuum descenderunt recens vulnus, fateor " (III, 1), la più
grave tra tutte quelle che sono mai penetrate nel tuo corpo, lo ammetto, è la
ferita recente.
Enea vede l'ex amante suicida come immagine
sfocata:"…Quam Troïus heros/ut primum iuxta stetit adgnovitque per
umbras/obscuram, qualem primo qui surgere mense/aut videt aut vidisse putat per
nubila lunam,/demisit lacrimas dulcique adfatus amorest " (vv.
451-455), appena l'eroe troiano si trovò accanto a lei e la riconobbe in mezzo
alle ombre, oscura, come chi all'inizio del mese vede sorgere o crede di avere
visto la luna fra le nuvole, fece cadere le lacrime e le parlò con dolce amore.
L'immagine ha il suo modello nel poema di Apollonio Rodio quando Linceo che aveva
grande acume visivo, credette di vedere Eracle in lontananza, come uno che ha
visto o ha creduto di vedere la luna offuscata nel primo giorno del mese (Le
Argonautiche , IV, 1478-1480).
Eracle è l'eroe tradizionale del poema, contrapposto a
Giasone: ebbene questa immagine "che verrà splendidamente reimpiegata da
Virgilio (…) suggella definitivamente l'irrecuperabilità di Eracle all'universo
argonautico"[81].
Didone è irrecuperabile da
Enea.
“L’eroe troiano” cerca di scusarsi dicendo che
lui non voleva (invitus ) ma sono stati gli ordini degli dèi (iussa
deum ), gli stessi che lo costringono (cogunt ) ad attraversare le
ombre, a spingerlo con la loro autorità suprema (imperiis egere suis
); egli del resto non avrebbe potuto credere di arrecarle tanto dolore con la
partenza. L'eroe fa un discorso imbarazzato (456-466) con il quale tenta
di mitigare la donna ancora ardente di un fuoco ostile e cerca di spengere quel
fuoco con le proprie lacrime:"Talibus Aeneas ardentem et torva
tuentem/lenibat dictis animum lacrimasque ciebat ", vv. 467-468), con
tali parole Enea cercava di placare l'animo infiammato che biecamente guardava
e faceva cadere le lacrime.
"L'humanitas di Enea ha nel IV libro
dei forti limiti che solo nell'incontro con Didone nell'oltretomba (...)
saranno superati: solo allora Enea comprenderà fino in fondo ciò che l'amore
significava per la donna; ma ciò avverrà in una situazione in cui l'humanitas
sarà tanto profonda quanto inutile, giacché il tentativo di mutare un
destino ormai compiuto per l'eternità non sarà allora neppure
pensabile...l'estraneità fra i due perdura anche in questo episodio, salvo che
le parti sono come invertite: questa volta è Enea che prega e piange, come nel
IV libro era stata Didone. E come egli allora non si era arreso a Didone, così
ora Didone è irremovibile, quasi per una specie di contrappasso"[82].
La donna "che s'ancise amorosa"[83] non perdona l'amante che l'ha abbandonata; anzi manifesta il suo
sdegno col non rispondergli e non rivolgergli lo sguardo: "Illa solo
fixos oculos aversa tenebat ", v. 469, quella teneva gli occhi fissi
al suolo, girata dall'altra parte.
T. S. Eliot nel silenzio di Didone riconosce "il più espressivo rimprovero di
tutta la storia della poesia" e "non soltanto uno dei brani più
commoventi , ma anche uno dei più civili che si possano incontrare in
poesia" [84].
Possiamo accostare a questo rancore muto quello
del suicida Aiace nei confronti di Ulisse nell'XI canto dell'Odissea
(vv. 542-564).
Odissea nel raccontare quell’incontro ai Feaci dice:
non avessi mai vinto quella gara! (548). Poi riferisce quanto disse ad Aiace:
che la colpa era dei numi, di Zeus in particolare che odiava i Danai. Quindi
gli chiede di domare l’ira. Ma Aiace
nulla mi rispose- oJ de;
m’ oujde;n ajmeivbeto-
In effetti non si può manifestare un'ostilità
più radicale e nello stesso tempo più educata che opponendo il silenzio ai vani
tentativi giustificatòri di quanti ci hanno inflitto i danni più gravi.
giovanni ghiselli
Appendice I
Riabilitazione di Eros. La spietatezza del pius
Aeneas. Virgilio poeta protetto.
Voglio mostrare una riabilitazione di Amore da tante calunnie
Il Simposio
di Platone
Leggiamo alcune parole di Agatone nel Simposio
platonico: Eros è il più felice, il più bello e il più nobile fra tutti gli
dèi. Ed è anche il più giovane, sicché non derivano da Eros le
mutilazioni dei tempi primordiali di cui parlano Esiodo e Parmenide, anzi , se
ci fosse stato lui, non sarebbero avvenute quelle ejktomaiv, castrazioni vere e proprie, né incatenamenti reciproci, desmoi;
ajllhvlwn, e molte altri prevaricazioni anche violente kai;
a[lla polla; kai; bivaia (195c), ma solo amicizia e pace come ai tempi nostri,
da quando Amore regna tra i numi. Inoltre è delicato: aJpalov"
, tant'è vero che cammina e dimora sulle entità
più tenere: infatti ha fondato la sua dimora nei caratteri e nelle anime degli
dèi e degli uomini. Anzi ripudia i caratteri duri e rozzi. Inoltre possiede
tutte le virtù, compreso il coraggio: infatti neppure
Ares tiene testa a Eros (196d) che anzi tiene in pugno il dio della guerra:
ebbene questo fatto toglie, non infligge ferite agli uomini, che è poi
quanto sostiene anche l'inno a Venere di Lucrezio.
Successivamente Socrate ricorda quanto udì da Diotima di
Mantinea una donna sapiente nelle cose d'amore e in molte altre (tau'tav ge sofh; h\n kai a[lla
pollav
, 201 d). La sacerdotessa dunque gli insegnò che Eros è qualche cosa di
intermedio (ti
metaxuv,
Gustavo Zagrebelsky
La pia ipocrisia di Enea
eroe di regime
Una rilettura del personaggio virgiliano
dall’abbandono di Didone al mito di Augusto
“
SIAMO sinceri! Enea non ci piace. Se dovessimo fare
una graduatoria tra i personaggi dell’epopea troiana, in cima metteremmo
probabilmente non lo spocchioso Achille, ma “il domator di cavalli Ettorre”
dell’ Iliade. In fondo alla
graduatoria, metteremmo proprio Enea il “pio”. In mezzo, l’astuto e inquieto
Ulisse. Questo nostro atteggiamento ci dice che sono mutati i paradigmi. Ciò
che piaceva allora, oggi infastidisce. E, in primo luogo, non ci piace la
poesia al servizio del potere. Neppure Virgilio, infatti, ci è mai troppo
piaciuto, perché fece della sua arte strumento di persuasione politica. Scrive
bene, è levigato.
Ma non riusciamo a dimenticare che è stato un poeta di
regime, stipendiato dal committente interessato a farsi tessere panegirici «di
natura quasi mussoliniana» (Canfora). Il suo eroe letterario è Enea, ma l’eroe
politico è Augusto, il destinatario del mito. Instauratore il primo;
restauratore, il secondo, dopo i torbidi delle guerre civili e il disfacimento
della Repubblica. Non una poesia civile, ma una poesia interessata, dunque, e,
perciò malsana.
“Pio” è Enea, anzi di più: la pietas è la ragione
della sua esistenza. Questa pietas è ciò che Virgilio propone come la virtù del
principe. Gli Dei sono sensibili alle prove di pietas e rispondono con due
prodigi archetipici, il fuoco che non brucia e la stella cometa. Entrambi
riguardano il piccolo Ascanio e lo consacrano come il capostipite della gens di
Augusto. Dentro Ascanio c’è dunque il futuro di Roma.
Ma, sulla strada accidentata verso la nuova patria,
Enea incontra la contraddizione maggiore: eros. Eros e pietas sono nemici. Eros
impone la sosta; pietas , la partenza. È la storia con Didone, cui è attribuito
uno spazio capitale nell’architettura del poema. Anche Ulisse, nel ritorno
verso la “petrosa Itaca”, incontra l’amore. È la storia di Calipso. Dopo la
caduta di Troia, tutti e due hanno una missione, ma molto diversa: il ritorno
alla casa di Itaca; la fondazione di un regno nel Lazio. La differenza è
grande. L’ Odissea è l’epopea delle radici; l’ Eneide, della
potenza politica. Odisseo deve ritornare per ricostruire la sua casa e trovare
la sua pace. Il disegno di Enea è fondare un regno guerriero, sulle rovine d’altri
regni. Di più: il ritorno a Itaca è il compito che Ulisse dà a se stesso da se
stesso. Per Enea è diverso: egli, “profugo del fato”, ma salvato dagli Dei, è
portatore d’un destino che gli è imposto dalla sentenza di Zeus. La sua pietas
è la soggezione fedele a questo destino.
Basta mettere a confronto l’Ulisse nell’isola di
Calipso e l’Enea nella città di Didone. Dopo sette anni di amori, Ulisse è
preso dalla nostalgia della sua casa che Calipso non era riuscita a fargli
dimenticare. Una forza irresistibile nasce dentro di sé, che lo chiama alla
partenza. “Dentro di sé”: Ulisse è artefice delle sue proprie fortune e
sfortune. Piange, Ulisse, in preda a vivo dolore, come quando la scelta sembra
impossibile.
Ben diverso il distacco tragico e lacerante dell’eroe
da Didone. Enea è costretto a lasciare Cartagine e la fuga, che a Didone appare
come la crudele ricompensa del bene ricevuto, non può che essere da lei
tacciata di perfidia: «La lealtà non è più al sicuro», dice la regina. Ma
Virgilio ci fa sentire anche la voce di Enea; e lo fa in un verso emblematico:
«Arde di andarsene via e di lasciare quelle amate regioni» (IV, 281). Nella
prima metà del verso vediamo Enea con gli occhi di Didone: un uomo che non vede
l’ora di andarsene; nella seconda metà del verso, vediamo invece Enea con gli
occhi di Enea stesso: ne è spia un aggettivo, «amate ( dulcis) regioni», che
Virgilio usa tutte le volte che deve esprimere lo strazio dell’abbandono.
Partire, dunque, non è la sua vera volontà, e l’Italia, checché ne dicano gli
Dei, potrà essere la sua nuova patria, ma non sarà mai veramente il suo amor. E
qui sta la pietas come virtù che sacrifica il singolo e i suoi sentimenti. Il
desiderio di Enea sarebbe un altro, però, e lo dice, cercando di giustificarsi
con Didone viva («non inseguo di mia volontà l’Italia») e con Didone morta:
nell’ultimo e impossibile dialogo con l’ombra della regina, Enea dirà: «Dalla
tua terra, regina, sono partito contro la mia volontà».
Aleggia, su questa storia, l’ombra dell’ipocrisia. In
verità, Enea è dipinto con i tratti del codardo, al quale importa soltanto di
salvare la faccia: vuole consolare “con giuste parole”, mostra grande amore,
dice che non è colpa sua. Non segue di sua volontà l’Italia. Però, di nascosto
fa preparare la flotta per partire. Sarà pure per evitare ch’ella faccia
bruciare le navi: resta il fatto che è Didone che lo affronta e, forse, se non
l’avesse fatto, se ne sarebbe andato alla chetichella. La dedizione totale al
fato si accompagna al cinismo verso chi ama. Piacerebbe poter pensare che
nell’episodio di Didone sia nascosto un messaggio a non esagerare nella pietas
spietata di cui Enea è campione: un messaggio rivolto ai potenti dell’Impero.
Didone è solo la prima vittima di una lunga serie di
ammazzamenti. Il progetto della Roma fondata dai discendenti dei Troiani si
scontra con l’ordine dei Latini, ed è la guerra; una guerra che, in certo
senso, è una guerra civile ante litteram, perché i due popoli sono destinati a
fondersi. Il poema si chiude con l’uccisione di Turno, il re dei Rutuli, rivale
di Enea. Turno, vicino a essere ucciso, ricorda a Enea il suo vecchio padre
Anchise. Ed Enea sembra quasi rinunciare a sferrare il colpo fatale: Turno,
infatti, è subiectus, sottomesso; e l’indicazione che Enea ha ricevuto da
Anchise è di «avere pietà di chi si sottomette». Poi però qualcosa trasforma
Enea: l’ultima immagine che ne riceviamo è quella di lui che, «infiammato di
rabbia furibonda» per avere visto il bàlteo, la cintura di cuoio che era stata
di Pallante, il suo alleato, pendere dalla spalla del suo nemico, l’uccide. Il
pio Enea non rifugge dalla vendetta, dall’inutile crudeltà.
Alla fine, siamo dunque consapevoli del potenziale di
violenza che la fedeltà assoluta alla propria patria, ai propri dei, ai propri
penati implica: una pietas empia
per chi sta fuori di quelle cerchie. E che l’apologeta cristiano del III secolo
Lattanzio rimprovera senza mezzi termini a Virgilio: «Non sapevi che cosa fosse
la pietas, e hai ritenuto che proprio ciò che quello ha compiuto in modo
disumano e odioso fosse un dovere imposto dalla pietà. Chi potrebbe dunque
attribuire a Enea anche un briciolo di valore, lui che si è acceso di rabbia
come paglia dimenticando lo spirito del padre, nel cui nome veniva supplicato,
non è stato capace di tenere a freno l’ira? Non è affatto pius chi uccide
qualcuno che non solo ha deposto le armi, ma gli rivolge una preghiera. La
pietas è quella di chi non conosce guerre, di chi è in armonia con tutti, di
chi è amico anche dei propri nemici, di chi ama tutti gli uomini come fratelli».
Così, entriamo in un nuovo mondo segnato dalla fratellanza universale, un mondo
in cui alla pietas imperiale si contrappone la charitas cristiana”.
Maurizio Bettini e
Mario Lentano: Il mito di Enea, Einaudi
Secondo Tertulliano, Lattanzio e sant’Agostino che, da
intellettuali cristiani, avevano tutto l’interesse a screditare uno dei simboli
identitari della Roma pagana, l’eroe sarebbe stato così poco coraggioso da
abbandonare Troia prima della battaglia finale. Così l’immagine edificante del
grande guerriero che porta in salvo il vecchio padre, viene oscurata da quella
infamante del disertore. E perfino del traditore. Della patria, ma anche delle
donne che egli incontra nel suo viaggio e dalle quali ha spesso figli: un nome
per tutti, Lavinia, moglie italica del troiano errante, nonché madre primigenia
di una stirpe che arriva a Romolo e Remo.
Ma l’affaire più celebre resta quello con Didone, che
gli autori ricostruiscono in un avvincente capitolo intitolato «Aeneas in
love». Il transfuga, fresco vedovo di Creusa, arriva a Cartagine dove conquista
i favori e le grazie della bella regina. E poi la molla per correre dietro alla
sua missione. Sedotta e abbandonata, l’infelice sovrana si uccide per il
dolore. Mentre Enea non si lascia sfuggire una sola parola d’amore per la
donna. Come si addice a un uomo duro e impuro. La storia comunque ha fatto
giustizia. Il lamento di Didone è sopravvissuto all’afasia di Enea. Volando
fino a noi sulle ali iridescenti della musica di Henry Purcell. E ci spezza
ancora il cuore. Perché alla fine la passione vince su ogni missione.
La libertà e gli autori
dell’età imperiale
Per quanto riguarda la libertà e il servilismo,
sentiamo Leopardi : “ Le Filippiche di Cicerone , contengono
l’ultima voce romana, sono l’ultimo monumento della libertà antica, le ultime
carte dov’ella sia difesa e predicata apertamente e senza sospetto ai
contemporanei. D’allora in poi la libertà non fu più oggetto di culto pubblico,
né delle lodi e insinuazioni degli scrittori (…) E infatti colla libertà romana
spirò per sempre la libertà delle nazioni civilizzate. Quelli che vennero dopo,
la celebrarono nel passato come un bene, la biasimarono e detestarono nel
presente come un male. I suoi fautori antichi furono esaltati nelle storie,
nelle orazioni, nei versi, come Eroi: i moderni biasimati ed esecrati come
traditori (Zibaldone, 459 )
Se non altro non si potè più né lodare né
insinuare e inculcare la libertà ai contemporanei espressamente, e la libertà
non fu più un nome 1 pronunziabile con lode, riguardo al presente e al moderno.
Quando anche non tutti si macchiassero della vile adulazione di Velleio, e
Livio fosse considerato come Pompeiano nella sua storia, e sieno celebrati i
sensi generosi di Tacito, ec. Ma neppur egli troverete che, sebbene condanna la
tirannia, lodi mai la libertà in persona propria. Dei poeti, come Virgilio,
Orazio, Ovidio non discorro. Adulatori per lo più de’ tiranni presenti, sebbene
lodatore degli antichi repubblicani. Il più libero è Lucano” (Zibaldone
463).
Cfr. Vittorio
Alfieri il quale in Del Principe e delle lettere definisce.
Lucrezio poeta libero, 'sprotetto' al pari. di Dante, contrapposto ai poeti
cortigiani,. 'protetti', come Virgilio, Orazio.
Giovanni ghiselli
[1] Infatti: omnem potentiam ad unum
conferri pacis interfuit (Hist.I, 1), fu utile alla pace che tutto
il potere venisse riunito in una sola persona. Ndr.
Eros-
Eris Appendice II
Elena
che scatenò la guerra di Troia
Elena
nell’Iliade e nell’Odissea
Elena
nel terzo canto dell’Iliade
rappresenta al suo apparire la bellezza in sé
L’amore
di Elena ha portato a Ilio la guerra e la morte con la bellezza.
La
sua avvenenza colpisce i compagni di
Priamo che per la vecchiaia avevano smesso la guerra ma erano ajgorhtai; esqloiv (III, 150)
oratori abili, simili alle cicale che nel bosco stando su una pianta mandano
voce di giglio (151).
Ebbene
questi anziani, come la vedono, dicono
che non è nevmesi~[85], (v. 156) non è motivo di sdegno che per una
donna siffatta tanti uomini soffrano a
lungo dolori: terribilmente somiglia alle dèe immortali a vederla.
Tuttavia
il prezzo di quella visione è troppo alto, quindi i vecchi aggiungono; “ma
anche così, vada via sulle navi: non rimanga a Troia quale ph`ma (sciagura, danno
v. 160) per noi e per i nostri figli.
Ma
Priamo, più coraggioso[86] e più affascinato degli
altri, la protegge: le chiede di sedersi vicino a lui, poiché non lei è
colpevole ma gli dei sono colpevoli (qeoi; ai[tioi, v, 164): sono stati loro a muovere la
funesta guerra dei Danai.
Nell’Iliade
Elena del resto è per lo più
una pentita: “ fossì morta prima”
(wJ~ pri;n w[fellon
ojlevsqai
, XXIV, 764) è il lamento che le sale dalle labbra durante il funerale di
Ettore
La
bellona, come tutte le donne, non perdona l’insuccesso.
Nell’Iliade quelli di Paride, ma anche il
proprio.
La
figlia di Leda accusa se stessa davanti a Ettore, soprattutto per la scelta
sbagliata che ha fatto: io ho avuto sciagure ma almeno fossi stata in seguito
la moglie di un uomo migliore (ajndro;~ e[peit j w[fellon ajmeivnono~ ei\nai a[koiti~ , VI, 350) che
conoscesse l’indignazione e le molte onte degli uomini.
Ma
questo[87] non ha cuore saldo (frevne~ e[mpedoi, 352) né l’avrà
in seguito[88].
Elena
a tratti disprezza Paride, mentre stima Ettore e prova affetto per lui.
Nel
compianto funebre dice che solo lui e Priamo, il suocero, eJkurov~ furono buoni con
lei, mentre i cognati e le cognate e pure la suocera hJ eJkurhv, la rimbrottavano
( XXIV, 770).
Più
avanti vedremo quali aspetti assume la maliarda in altre opere. Elena, come una parola del vocabolario, e, al pari
di altri personaggi del mito, assume significati diversi in diversi
contesti.
Nel’Odissea
l’adultera Elena ha riconquistato
la sua rispettabilità, anzi la supremazia dovuta al fatto di essere figlia di
Zeus e di avere imparentato anche Menelao con il dio supremo: il re di Sparta
quale “gambro;"
Diov""
( Odissea, IV, v. 569), genero di
Zeus, non morirà ma verrà mandato dagli dèi nella pianura Elisia, ai confini
della terra dov'è il biondo Radamanto, dove la vita per gli uomini è facilissima:
non c'è neve né inverno rigido, né pioggia, ma soffi di Zefiro che spirano
dall'Oceano a rinfrescare gli uomini (vv. 563-568).
Nel IV canto dell’Odissea Elena entra nella sala del banchetto
scendendo dall'alto talamo profumato, simile ad Artemide dalla conocchia d'oro
(vv.121-122).
La bellona è avvolta dall’aureola di
quella venustà che ha sempre posseduto e
mai perduto, e per giunta accresciuta di una rinnovata rispettabilità che solo
lei potrà permettersi, poco più avanti, di criticare. La figlia di Zeus quindi
siede sul trono, servita, riverita e fornita, da un'ancella, di una conocchia
d'oro con lana violetta poggiata in un cesto a rotelle, d'argento, con i bordi
rifiniti d'oro, colmo di filo ben lavorato. Poi prende a parlare: riconosce Telemaco
dalla somiglianza (invero non troppo logicamente con il figlio di Odisseo[89] invece che con Odisseo
stesso, ma i belli, si sa, possono permettersi anche una certa carenza di
logica) e critica se stessa chiamandosi kunw'pi" (v. 145), faccia
di cagna, con signorile spezzatura[90], con sovrana nonchalance.
Tutto quello che fa e dice la regina è
molto signorile:"Nell'Odissea Elena, tornata frattanto col primo marito a
Sparta, è descritta quale prototipo della gran signora, modello di eletta
eleganza e di suprema compitezza e maestà rappresentativa. E' lei a dirigere la
conversazione con l'ospite, che incomincia graziosamente col rilevare la
sorprendente somiglianza di famiglia, prima ancora che Telemaco le sia
presentato. Ciò rivela la sua magistrale superiorità in quell'arte[91]. La rocca, senza la quale
è impensabile la virtuosa massaia, che le serve le collocano dinanzi quando
viene a prender posto nella sala degli uomini, è d'argento, e il fuso d'oro[92]. L'uno e l'altra, per la
gran signora, non sono più che attributi decorativi[93]"[94].
Menelao conferma l'impressione della
moglie sulla somiglianza rendendola però logica.
Sul tema dell’antifemminismo alquanto
diffuso da Esiodo in poi, sentiamo
intanto Cesare Pavese:"Quei filosofi che credono all'assoluto
logico della verità, non hanno mai avuto a che discorrere a ferri corti con una
donna"[95].
Ma Elena è così bella e signorile che può
fare a meno della logica tanto più che il logos è molto più ampio e profondo
della logica.
In
questo IV canto dell’Odissea Elena getta nel vino un farmaco quale antidoto al dolore, all'ira, e oblio di
tutti i mali (vv. 220-221). L'aveva avuto in Egitto la cui terra produce
farmaci, molti buoni e molti tristi mescolati ("favrmaka, polla; me;n ejsqla;
memigmevna, polla; de; lugrav", v. 230).
Si può aggiungere magari oralmente
Elena nell’Agamennone di Eschilo (etimologia del nome), nelle Troiane,
nell’Elena e nell’Oreste di Euripide
Anche nelle Supplici di Eschilo c’è la guerra dei sessi e nell’Orestea il conflitto patriarcatro
matriarcato
giovanni ghiselli
[1]J. P. Vernant, Tra mito e politica , p. 136.
[2]L. Tolstoj, Anna Karenina (del 1877) , parte ottava, capitoloXII.
[4]Il
mestiere di vivere
, 9 settembre 1946.
[5] Il mestiere di vivere ,18 novembre 1945.
[6]Il
mestiere di vivere, 28 dicembre 1947.
[7]M. Kundera, L'immortalità , p. 169.
[8]F. Kafka, Il castello , p. 84.
[9]J. P. Vernant, L'individuo, la morte, l'amore , p. 118.
[10]Longo Sofista, Romanzo pastorale di Dafni e Cloe , II, 7.
[11] Pollh; me;n ejn brotoi'" koujk ajnwvnumo" (Ippolito , 1)
[12] Arcaico per vivus.
[13] Lucrezio,
[14]Lucrezio,
[15] J. Hillman, Il piacere di
pensare. conversazione con Silvia Ronchey, pp. 66-67.
[16]
Agamennone, 177.
[17]Siddharta
, p.135.
[18]Edito con i primi due nel
[19]Edito nel
[20]A.
[21] glukei'a=dolce.
[22]Ho colto diversi suggerimenti su questa Ode da una conferenza
tenuta da Paolo Fedeli durante il XV Certamen
Horatianum di Venosa (maggio 2001).
[23]Il
mestiere di vivere,
19 gennaio 1938.
[24]H. Hesse,
[25] G. Pasquali, Orazio lirico,
p. 477.
[26]Cfr. perfide in Catullo 64, 133 ;
più avanti lo troveremo in bocca a Didone in Eneide IV 305.
[27]G. Pasquali, Orazio lirico,
p. 484.
[28]G. Pasquali, Orazio lirico,
p. 485.
[29] Di questa impunità concessa allo
spergiuro in amore.
[30] Stoltezza.
[31]G. Pasquali, Orazio lirico,
p. 480, n. 2.
[32] G. Pasquali, Orazio lirico,
p. 480, n. 2.
[33] L. Tolstoj, Anna Karenina,
p. 310.
[34] Odi , I, 6, 5- 6:"
gravem /Pelidae stomachum cedere
nescii ", la funesta ira di
Achille incapace di cedere.
[35] G. Pasquali, Orazio lirico,
p. 481.
[36]Da La duchessa di Amalfi
(del 1614) , di J. Webster (1580-1625).
[37]Shakespeare e lo stoicismo di
Seneca, (del 1927)
in T. S. Eliot Opere , p. 800.
[38] In La tragedia spagnola (
1592) di Thomas Kyd il nobile portoghese
Alexandro, con pessimismo meno assoluto, dice:"Il cielo è la mia speranza:
quanto alla terra, essa è troppo infetta per darmi speranza di cosa alcuna
della sua matrice" (III, 1).
[39] 1601
[40] Cfr. C. Izzo, Storia della letteratura inglese, Nuova
Accademia Editrice, Milano, 1961.
[41]A.
[42]L'uomo
senza qualità , p.
270.
[43]Lo
spazio letterario di Roma antica,
1, p. 153.
[44] Fantasia dell'inconscio e altri
saggi sul desiderio, l'amore, il piacere , Mondadori, Milano, 1978. Tratto
da Lunario dei giorni d'amore , pp. 427-428.
[45] G. Morandini, La voce che è in
lei, Bompiani, 1997, p. 16. La tesi è di Alessandra Neri, alumna optima
.
[46]
G. Flaubert, Madame Bovary, p. 74.
[47]Guerra
e pace , p. 855.
[48] M. Bettini, Le orecchie di
Hermes, p. 328.
[49] Appellata est enim ex viro
virtus: viri autem propria maxime est fortitudo, cuius munera duo sunt maxima:
mortis dolorisque contemptio " (Cicerone , Tusc., 2,
43), la virtù infatti deriva da vir ed è soprattutto propria dell'uomo la
fortezza i cui principali compiti sono due: il disprezzo della morte e del
dolore. Enea disprezzerà sì la morte e il dolore, ma quelli dell'amante
Didone.
[50] Eneide I, 588-593.
[51] Odissea, VI, 232-235)
[52] Factorum et dictorum
memorabilium libri , VI, 1.
[53]J. P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci , p. 299.
[54]
Seneca, De ira , II, 21.
[55]Secretum , III, 40.
[56]Ep. , I, 11, 27.
[57]F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli (del 1888),
Il problema di Socrate, 11.
[58]64, 133.
[59] Critica e saggistica, in
Ezra Pound, Opere scelte, p. 1168.
[60] Scritta fra il 29 e il
[61] Spada lasciata da Enea ( Eneide,
IV, 507) e impiegata quale dono funesto (non hos quaesitum munus in usum.,
Eneide, IV, 647, dono richiesto non per questo uso.
[62]Cfr.
VII, Le
Talisie , 22.
[63] =virides.
[64] In questi versi
l'istinto amoroso si associa non solo al fuoco ma anche a Eris.
[65] =amantes.
[66]I migliori editori espungono questo
verso considerandolo un'interpolazione ricavata dal molto simile IX 225).
[67]La divisione della locuzione
mezzanotte ha forse influito sull'espressione di Leopardi "è notte senza
stelle a mezzo il verno"(Aspasia
, 108)
[68]Un rapporto così
forte e umano con la natura è riscontrabile, tra i moderni, oltre che in
Leopardi, in D'Annunzio dal quale(La sera
fiesolana , 5- 6:" su l'alta scala che s'annera/contro il fusto che
s'inargenta") , non per caso, traducendo abbiamo preso l'ultimo verbo, e
in Hermann Hesse che in Peter Camezind (p.12) scrive:"Le
montagne, il lago, le tempeste e il sole erano i miei educatori e amici, che
per molto tempo mi furono più cari e noti degli uomini e del loro
destino".
[69]Forma sincopata di extinxissem .
[70] Meno sicura è l'interpretazione
del nome Didone, che, probabilmente per equivoco, Servio spiega come virago
(Aen. IV, 36, 674) e forse solo a causa dei sacrifizi umani in uso a
Cartagine e altri scrittori tardi con ajndrofovno". Planh'ti"
(l'errante) invece interpreta l' Etym. Magnum s. v. attenendosi a
Timeo.
[71] G. De Sanctis, Storia dei
Romani, vol. III parte prima, pp. 21-22.
[72] L'incontro di Enea e Didone era
già nel Bellum Poenicum di Nevio (270ca-201ca a. C.). Il Bellum
poenicum in saturni canta la prima
guerra punica. Non mancano digressioni sul passato, anche mitico, di Roma e
sulle vicende che portarono alla sua fondazione.
[73] G. De Sanctis, Storia dei
Romani, vol. III parte prima, pp. 23-24.
[74]=exoriaris , seconda persona del congiuntivo, come sequare =sequaris .
[75]S. Freud, L'interpretazione dei sogni , p. 327.
[76] Tradition and the Individual Talent (del 1919),
[77]
Nell'Iliade , VII, 303.
[78] Polibio, Storie, I, 3, 4.
[79] Un re buono,
afferma lo stesso Ulisse nel XIX canto dell'Odissea. parlando con
Penelope, porta il popolo alla prosperità:"Raggiunge l'ampio cielo la tua
fama,/ come quella di un re irreprensibile che pio,/ regnando su molti uomini
forti,/tenga alta la giustizia; allora la nera terra produce/ grano e orzo, gli
alberi si appesantiscono di frutti,/figliano continuamente le greggi e il mare
offre i pesci,/per il suo buon governo, insomma prosperano le genti sotto di
lui" (vv. 108-114).
Il ribaltamento di questa situazione è il
re negativo, cattivo e malato, che contamina la sua terra, rendendola sterile e
sconciandola quale mivasma. Come si scopre
essere il protagonista dell'Edipo re che perciò si allontana da Tebe.
[80] L'altro lato della stessa concezione secondo
la quale il bene e il male di un solo uomo ridondano in favore e in danno di
una città intero lo troviamo nel secondo archetipo della poesia greca, cioé in
Esiodo (Opere, vv.240-244:"Pollavki kai; xuvmpasa povli" kakou'
ajndro;" ajphuvra-oJv" ti" ajlitraivnh/ kai; ajtavsqala
mhcanavatai.-Toi'sin d
j oujranovqen meg j ejpevgage
ph'ma Kronivwn-limo;n oJmou' kai; loimovn: ajpofqinuvqousi de; laoiv.-Oujde;
gunai'ke" tivktousin, minuvqousi de; oi\koi", spesso anche un'intera città soffre per un
uomo malvagio,/uno che si rende colpevole e architetta scelleratezze./Su di
loro dal cielo il Cronide fa piombare grandi malanni,/fame e peste insieme,e le
genti vanno in rovina,/le donne non fanno figli e le case diminuiscono".
Infatti quando sbaglia solo Prometeo
tutti gli uomini pagano. Nel IV
canto dell’Eneide l’uomo malvagio è
Enea.
[81] M. Fusillo, Lo spazio
letterario della Grecia antica, Vol. I, Tomo II, , p. 129.
[82]A.
[83]Dante, Inferno , V, 61.
[84]Che
cos'è un classico?
, in T. S. Eliot, Opere , p. 966.
[85] Il pittore Zeusi
(V-IV sec.) dopo averla dipinta per il tempio di Giunone non aspettò il
giudizio della critica, ma scrisse sulla tela ouj nevmesi~.
[86] Non solo la
guerra ma anche la bellezza può fare paura.
Leopardi, quando tratta di
bellezza nello Zibaldone (pp.
3443-3444), riporta questi della Canzone
XIV di Petrarca (Rime , CXXVI,
53-55):
"Quante volte diss'io allor pien di
spavento
Costei per fermo nacque in
paradiso!".
Quindi fa seguire un commento relativo alla
paura suscitata dalla bellezza:" E' proprio dell'impressione che fa la
bellezza...su quelli d'altro sesso che la veggono o l'ascoltano o l'avvicinano,
lo spaventare, e questo si è quasi il principale e il più sensibile effetto ch'ella
produce a prima giunta, o quello che più si distingue e si nota e
risalta."
[87] Paride.
[88] Nel III libro
Afrodite aveva sottratto Paride alla furia di Menelao che stava per ucciderlo.
Il perdente si era salvati dunque con una fuga vergognosa secondo la morale
degli eroi i cui motti sono “non cedere” e “primeggiare sempre”
[89] ui|ї e[oike
IV, 143
[90] Cfr. Anna Karenina, altra
adultera.
[91]d
120 sgg. Cfr. specialmente le sue parole a vv. 138 ss.
[92] Nemmeno fosse il fuso di Ananche,
l’asse dell’Universo.
[93]IV, 131.
[94]Jaeger, Paideia 1, p. 62.
[95]Il
mestiere di vivere
, 19 febbraio 1938.
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