giovedì 10 giugno 2021

Didone. Ottava e ultima parte.

 


 

Didone morta oppone alle scuse tardive di Enea "il più espressivo rimprovero di tutta la storia della poesia".

 

Passiamo al VI canto dell’Eneide.

 La regina  si trova tra coloro "quos durus amor crudeli tabe peredit " (442) che un amore spietato divorò con consunzione crudele. Neanche la morte basta a dissolvere la sofferenza d'amore degli umani:"curae non ipsa in morte relinquont " (v. 444), gli affanni neppure nella morte li lasciano.  e vediamo che il volnus di Didone non si cicatrizza nemmeno dopo il suicidio :"recens a volnere Dido-errabat silva in magna " (VI, 450-451) Didone errava nella gran selva, con la ferita fresca. L'accoppiata recens vulnus è utilizzata da Seneca nella Consolazione indirizzata Ad Helviam Matrem (del 42 d. C.) dall'esilio in Corsica:"Gravissimum est ex omnibus quae umquam in corpus tuum descenderunt recens vulnus, fateor " (III, 1), la più grave tra tutte quelle che sono mai penetrate nel tuo corpo, lo ammetto, è la ferita recente.

Enea vede l'ex amante suicida come immagine sfocata:"Quam Troïus heros/ut primum iuxta stetit adgnovitque per umbras/obscuram, qualem primo qui surgere mense/aut videt aut vidisse putat per nubila lunam,/demisit lacrimas dulcique adfatus amorest " (vv. 451-455), appena l'eroe troiano si trovò accanto a lei e la riconobbe in mezzo alle ombre, oscura, come chi all'inizio del mese vede sorgere o crede di avere visto la luna fra le nuvole, fece cadere le lacrime e le parlò con dolce amore.

L'immagine ha il suo modello nel poema di Apollonio Rodio quando Linceo che aveva grande acume visivo, credette di vedere Eracle in lontananza, come uno che ha visto o ha creduto di vedere la luna offuscata nel primo giorno del mese (Le Argonautiche , IV, 1478-1480).

Eracle è l'eroe tradizionale del poema, contrapposto a Giasone: ebbene questa immagine "che verrà splendidamente reimpiegata da Virgilio (…) suggella definitivamente l'irrecuperabilità di Eracle all'universo argonautico"[1]. Pure Didone è irrecuperabile da Enea.     

 

“L’eroe troiano”  cerca di scusarsi dicendo che lui non voleva (invitus ) ma sono stati gli ordini degli dèi (iussa deum ), gli stessi che lo costringono (cogunt ) ad attraversare le ombre,  a spingerlo con la loro autorità suprema (imperiis egere suis ); egli del resto non avrebbe potuto credere di arrecarle tanto dolore con la partenza. L'eroe fa un discorso imbarazzato (456-466) con il quale  tenta di mitigare la donna ancora ardente di un fuoco ostile e cerca di spengere quel fuoco con le proprie lacrime:"Talibus Aeneas ardentem et torva tuentem/lenibat dictis animum lacrimasque ciebat ", vv. 467-468), con tali parole Enea cercava di placare l'animo infiammato che biecamente guardava e faceva cadere le lacrime.

 

"L'humanitas  di Enea ha nel IV libro dei forti limiti che solo nell'incontro con Didone nell'oltretomba (...) saranno superati: solo allora Enea comprenderà fino in fondo ciò che l'amore significava per la donna; ma ciò avverrà in una situazione in cui l'humanitas sarà tanto profonda quanto inutile, giacché il tentativo di mutare un destino ormai compiuto per l'eternità non sarà allora neppure pensabile...l'estraneità fra i due perdura anche in questo episodio, salvo che le parti sono come invertite: questa volta è Enea che prega e piange, come nel IV libro era stata Didone. E come egli allora non si era arreso a Didone, così ora Didone è irremovibile, quasi per una specie di contrappasso".[2]

 

 La donna "che s'ancise amorosa"[3]   non perdona l'amante che l'ha abbandonata; anzi manifesta il suo sdegno col non rispondergli e non rivolgergli lo sguardo: "Illa solo fixos oculos aversa tenebat ", v. 469, quella teneva gli occhi fissi al suolo, girata dall'altra parte.

T. S. Eliot nel silenzio di Didone riconosce "il più espressivo rimprovero di tutta la storia della poesia" e "non soltanto uno dei brani più commoventi , ma anche uno dei più civili che si possano incontrare in poesia"[4].

Possiamo accostare a questo rancore muto  quello del suicida Aiace nei confronti di Ulisse nell'XI canto dell'Odissea (vv. 542-564).

 In effetti non si può manifestare un'ostilità più radicale e nello stesso tempo più educata che opponendo il silenzio ai vani tentativi giustificatòri di quanti ci hanno inflitto i danni più gravi.

giovanni ghiselli

 

 



[1] M. Fusillo, op. cit., p. 129.

[2]A. La Penna-C. Grassi, op. cit., p. 359 e p. 561

[3]Dante, Inferno , V, 61.

[4]Che cos'è un classico? , in T. S. Eliot, Opere , p. 966.

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