mercoledì 9 giugno 2021

Parte settima. Il suicidio di Didone.

 


 

Un oggetto con presenza simultanea nella letteratura antica: la spada del suicidio donata dal nemico.

 

 


 Segue il punto di vista della regina che è opposto a quello di Enea. Appena  sveglia Didone si accorge dell'abbandono, si infuria e vorrebbe attaccare a Enea il  fuoco che la divora  per distruggerlo:"ferte citi flammas, date tela, impellite remos! " (Eneide IV, v. 594), portate, svelti le fiamme, spiegate le vele, spingete i remi!  Per lei le azioni di Enea sono tutt'altro che pie:"nunc te facta impia tangunt? " (v. 596), soltanto ora ti colpiscono le scelleratezze? domanda a se stessa.

 

 Quindi torna la denuncia della perfidia:"En dextra fidesque! " (v. 597), ecco la fedeltà dell'impegno! C'è il rimpianto di non avere usato il suo fuoco per provocare una conflagrazione :"faces in castra tulissem/implessemque foros flammis [1] natumque patremque/cum genere extinxem[2], memet super ipsa dedissem " (vv. 604-606), avrei potuto portare le fiaccole nell'accampamento, e riempire di fiamme le corsie delle navi  e il figlio e il padre  annientare con tutta la razza, e me stessa avrei potuto gettare sopra di loro. Se non nella vita  potevano essere uniti almeno nella morte.  Dopo Eros-Eris, Eros-Thanatos.

 

Segue una maledizione per la cui attuazione sono chiamate a raccolta potenze celesti e infere. La preghiera nera della regina, deprecativa nei confronti di Enea  invoca anzitutto  il sole :"Sol, qui terrarum flammis opera omnia lustras " (v. 607), Sole che con le tue fiamme rischiari tutte le opere della terra. Il sole illumina e vede tutto

Gli altri numi invocati sono Giunone, la dea pronuba  che è stata "interpres curarum et conscia " (v. 608), intermediaria e al corrente delle pene di Didone; poi Ecate, la divinità infernale "nocturnisque Hecate triviis ululata per urbes " (609) invocata a ululati nei trivi notturni per le città.

 Hecate triformis torna nella preghiera nera della Medea di Seneca (v. 7). Un po’ tutta Didone è una filigrana di Medea.

Vengono poi chiamate le Furie vendicatrici e tutti gli dèi di Elissa morente  "Dirae ultrices et di morientis Elissae"  (v. 610). La regina li prega di rivolgere prima o poi la loro potenza contro quell'infandum caput  (v. 613) quella testa esecranda, abominevole.

Didone dunque si uccide maledicendo Enea gli augura quanto di peggio può capitare a un uomo: la guerra, la morte prematura  e l’insepoltura in mezzo alla sabbia:"sed cadat ante diem mediaque inhumatus harena " (v. 620)

Vengono prefigurate le guerre puniche: la discendenza di lei e quella di lui dovranno sempre odiarsi:"nullus amor populis nec foedera sunto " (624), nessun amore né alleanza ci sia mai tra i due popoli.

Quindi viene evocata la figura di Annibale:"exoriare [3] aliquis nostris ex ossibus ultor,/ qui face Dardanios ferroque sequare colonos,/nunc, olim, quocumque dabunt se tempora vires " (vv. 625-627), sorgi tu dalle mie ossa, chiunque tu sia vendicatore che perseguiti col fuoco e col ferro i coloni Dardani, ora, poi,  in qualunque momento si offriranno le forze.

Questa grande fallita in amore, nel momento di morire, auspica la grande guerra contro i Romani di quello che sarà il più nobile fallito del mondo antico, secondo una definizione di G. De Sanctis.

 "Litora litoribus contraria, fluctibus undas/imprecor, arma armis: pugnent ipsique nepotesque " (vv. 628-629), auguro che i lidi contro i lidi, le onde contro i flutti, le armi contro le armi combattano loro stessi e i discendenti. L’Eris dpvrà coinvolgere i mari e le terre dei due popoli.

 

Didone poi vuole spezzare la luce: sale furibonda i gradini del suo alto rogo e snuda la spada di Enea, dono richiesto non per questo uso: " altos /conscendit furibunda rogos ensemque recludit/Dardanium, non hos quaesitum munus in usus " (vv. 646-647).

Non è difficile individuare nella spada un simbolo fallico, sulle tracce di Freud:" Tutti gli oggetti allungati: bastoni, tronchi, ombrelli (per il modo di aprirli, che può essere paragonato all'erezione!) intendono rappresentare il membro maschile, così come tutte le armi lunghe e acuminate coltelli, pugnali, picche"[4].

A maggior ragione questa spada nata come segno d'amore.

 

T. S. Eliot afferma che la tradizione deve essee conquistata con grande fatica. essa esige che si abbia anzitutto un buon senso storico cioè la consapevolezza che il passato è anche presente. Il senso storico costringe a scrivere    : "with a feeling that the whole of the literature of Europe from Homer and within it the whole of the literature of is own country has a simultaneous existence and composes a simultaneous order"[5],  con la coscienza che tutta la letteratura europea da Omero, e, all'interno di essa, tutta la letteratura del proprio paese, ha un'esistenza simultanea e compone un ordine simultaneo.

 

Nella letteratura europea che da Omero in avanti ha un’esistenza simultanea anche gli oggetti materiali hanno presenze simultanee. L'ensis lasciata da Enea e impiegata da Didone, quale dono richiesto non per essere usato in quel modo, ossia  per il suicidio, risale all'Aiace di Sofocle dove il Telamonio si uccide con la spada a borchie d'argento (xivfo" ajrgurovhlon) ricevuta in dono da Ettore[6], dopo averla ricordata come e[cqiston belw'n (Aiace, v. 658), la più odiosa tra le armi, e avere sentenziato che sono non doni, i doni dei nemici e non sono vantaggiosi:"ejcqrw'n a[dwra dw'ra koujk ojnhvsima" (v. 665).

Si può pensare anche allo scudo: in Archiloco (fr. 6 D.), in Orazio (Odi, II, 7, 10), in Tacito (Germania, 6, 7).

 In questo modo Virgilio non solo ci ricorda una concatenazione tragica dei destini, ma ci riporta, attraverso Sofocle, a Omero. Insomma accade che la letteratura europea diventi organica swmatoeidh' sumbaivnei givnesqai, poiché succede che si intreccino (sumplevkesqai) le opere degli autori, e  tendano tutte verso un unico fine (kai; pro;" e{n givnesqai tevlo" ). Polibio afferma questo a proposito dei fatti della  storia mondiale, unificati dai Romani in rebus ipsis, e da lui stesso nel racconto[7]. Noi auspichiamo questa organicità per i nostri studi

 

Didone si uccide conservando comunque il senso della propria grandezza poiché se non è possibile la felicità nella vita, per i magnanimi è sempre possibile, in una forma o in un'altra, la grandezza dell'eroismo:"Vixi et quem dederat cursum Fortuna peregi,/et nunc magna mei sub terras ibit imago " (vv. 653-654), ho vissuto e compiuto il percorso che la Fortuna mi aveva assegnato, e ora grande l'ombra mia andrà sotto terra.

Magna ha valore predicativo.

Didone riconosce a se stessa delle capacità realizzative che l'avrebbero anche resa felice se non avesse incontrato Enea :"Urbem praeclaram statui, mea moenia vidi,/ulta virum poenas inimico a fratre recepi:/heu nimium felix, si litora tantum/numquam Dardaniae tetigissent carinae " (vv. 655-658), ho fondato una città splendida, ho visto mura mie, vendicato il marito ho punito il fratello nemico: oh troppo felice, se solo le le navi della Dardania non avessero mai toccato le  nostre coste!

Il rimpianto della non conoscenza del seduttore che ha sconvolto la vita, il desiderio di annullare la tragica storia d'amore appartiene già alla Medea  di Euripide (v. 1 e ss.), a quella di Apollonio Rodio ( Le Argonautiche , IV, 32-33), a quella di Ennio (246-9 Vahlen 2)  e, con influenza chiaramente visibile, all'Arianna dell'opus maximum  di Catullo"utinam ne tempore primo/Gnosia Cecropiae tetigissent litora puppes " (64, 171-172), oh se mai fin dal primo momento le navi cecropie non avessero toccato le rive di Cnosso!

La versione virgiliana appare più semplice e più ricca di pathos.

 

Infine Didone vuole mandare a Enea un messaggio letale e un annunzio di futuri danni:"Hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto/dardanus et nostrae secum ferat omina mortis " (661-662), beva con gli occhi questo fuoco il crudele troiano dal largo, e porti con sé i presagi della mia morte.

 

Quindi l'atto del suicidio:"Dixerat, atque illam media inter talia ferro/conlapsam aspiciunt comites ensemque cruore/spumantem sparsasque manus. It clamor ad alta/atria; concussam bacchatur Fama per urbem" (vv. 663-666), aveva detto e in mezzo a tali parole le compagne la vedono caduta sul ferro e la spada spumeggiante di sangue e le mani cosparse. Sale il grido fino agli alti atri; la Fama va infuriando per la città sconvolta.

 

La morte della regina prefigura la distruzione della sua città:"Lamentis gemituque et femineo ululatu/tecta fremunt, resonat magnis plangoribus aether,/non aliter quam si immissis ruat hostibus omnis/Karthago aut antiqua Tyros flammaeque furentes/culmina perque hominum volvantur perque deorum " (vv. 667-671), gli edifici fremono di lamenti e di gemiti e di ululati femminei, l'etere risuona di grandi pianti, non altrimenti che se Cartagine tutta o l'antica Tiro crollasse, entrati i nemici, e le fiamme furiose si avvolgessero sui tetti degli uomini e degli dèi.

E’ la connessione organica del capo con il suo popolo e la sua terra

Sappiamo fin da da Omero[8] e da Esiodo[9], che i costumi, virtù, vizi e perfino malattie del capo si riverberano sulla sua terra per una sorta di responsabilità collettiva

 

Bologna 10 giugno 2021 ore 8, 50

giovanni ghiselli

 



[1]Si noti il nesso allitterante

[2]Forma sincopata di extinxissem .

[3]=exoriaris , seconda persona del congiuntivo, come sequare =sequaris .

[4]S. Freud, L'interpretazione dei sogni , p. 327.

[5] Tradition and the Individual Talent (del 1919),

[6]  Nell'Iliade , VII, 303.

[7] Polibio, Storie, I, 3, 4.

[8] Un re buono, afferma lo stesso Ulisse nel XIX canto dell'Odissea. parlando con Penelope, porta il popolo alla prosperità:"Raggiunge l'ampio cielo la tua fama,/ come quella di un re irreprensibile che pio,/ regnando su molti uomini forti,/tenga alta la giustizia; allora la nera terra produce/ grano e orzo, gli alberi si appesantiscono di frutti,/figliano continuamente le greggi e il mare offre i pesci,/per il suo buon governo, insomma prosperano le genti sotto di lui" (vv. 108-114).

Il ribaltamento di questa situazione è il re negativo, cattivo e malato, che contamina la sua terra, rendendola sterile e sconciandola quale mivasma. Come si scopre essere il protagonista dell'Edipo re  che perciò si allontana da Tebe.

 

[9]  L'altro lato della stessa concezione secondo la quale il bene e il male di un solo uomo ridondano in favore e in danno di una città intero lo troviamo nel secondo archetipo della poesia greca, cioé in Esiodo (Opere, vv.240-244:"Pollavki kai; xuvmpasa povli" kakou' ajndro;" ajphuvra-oJv" ti" ajlitraivnh/ kai; ajtavsqala mhcanavatai.-Toi'sin d  j oujranovqen meg  j ejpevgage ph'ma Kronivwn-limo;n oJmou' kai; loimovn: ajpofqinuvqousi de; laoiv.-Oujde; gunai'ke" tivktousin, minuvqousi de; oi\koi", spesso anche un'intera città soffre per un uomo malvagio,/uno che si rende colpevole e architetta scelleratezze./Su di loro dal cielo il Cronide fa piombare grandi malanni,/fame e peste insieme,e le genti vanno in rovina,/le donne non fanno figli e le case diminuiscono". Infatti quando sbaglia solo Prometeo  tutti gli uomini pagano.

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