mercoledì 30 giugno 2021

Shakespeare, "Riccardo III". Rilettura. XXI. Continua il corteggiamento alla madre per irretire la figlia

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Amore e odio vengono spesso associati.
 
Aggiunta del 30 giugno 2021. Ma è un’associazione incongrua quindi improduttiva di vita e produttrice invece di morte come può essere l’accoppiamento tra un leone e un cerbiatto.
Basta un gesto, una frase, perfino una sola parola a significare l’incompatibilità. Allora bisogna troncare. Subito.
Faccio un esempio. Una sera stavo portando una tale a cena dopo un concubitus. Durante il tragitto in automobile colei deplorava la strada quasi accusandomi del fatto che era piena di curve. Non dissi niente ma fuit haec sapientia mea: concubitu pohibere vago, quella di escludere tale accoppiamento instabile, mal fondato. Credo che le vittime delle prepotenze siano in qualche maniera complici di quanto subiscono. A una persona che rispetta se stessa deve bastare un solo sgarbo per cambiare aria. Il fatto è che pochissimi sono capaci di stare soli.  
 
Riccardo promette a Elisabetta che se avrà successo nella guerra sanguinosa che va ad affrontare farà a lei e ai suoi beni più grandi del danno che hanno ricevuto da lui.
La donna domanda quale bene possa farle del bene (IV, 4, 240-241)
Si sente così avvolta dal male da avere perduto la vista e la nozione di ogni bene.
Riccardo promette “l’elevazione della vostra prole, nobile signora”.
La donna con figli gradisce sempre molto l’attenzione che il corteggiatore dedica a questi. E’ una mossa giusta
Ma Elisabetta resiste ancora alle lusinghe e risponde con sarcasmo: “up to some scaffold, there to lose their heads” (IV, 4, 243), (elevazione) fino a qualche patibolo dove perdere le loro teste. Torna la commistione di amore e morte: il corteggiatore propone amore e la donna replica evocando e rinfacciando la morte, come aveva fatto Lady Anne nella seconda scena del I atto di questo dramma.
 
Elisabetta continua a fare domande che sembrano escludere ogni fiducia in quanto promette Riccardo il quale ricorre al mito classico che fa sempre presa in chi abbia un poco di educazione. Dice alla cognata che deve annegare (drown) nel Lete del suo animo adirato- in the Lethe of thy angry- anger, collera,  Lat. angor- soul” - il  mesto ricordo dei torti che ella pensa siano stati arrecati da lui.
Ricorrere al mito significa allontanare il dolore e universalizzarlo
Murray commenta il V stasimo della Medea di Euipide dove il Coro ricorda altri bambini uccisi da un’altra madre, Ino precedente Medea.
“Il pianto di morte non è più un grido udito nella stanza accanto. E’ l’eco di molti pianti di bambini dall’inizio del mondo, bambini che ora sono in pace e la cui sofferenza antica è diventata in parte mistero, in parte musica. La Mermoria-quella Memoria che era la madre delle Muse- ha compiuto la sua opera. Noi vediamo qui la giustificazione dell’alto formalismo e delle convenzione della tragedia greca. Essa può toccare, senza indietreggiare qualunque orrore di vita tragica, senza mancare di sincerità e senza guastare la sua normale atmosfera di bellezza. Essa porta le cose sotto la grande magia di qualche cosa cui è difficile dare un nome, ma che io ho tentato di indicare in queste pagine; qualche cosa che noi possiamo pensare come eternità o l’universale o forse perfino come Memoria. Perché Memoria, usata in questo modo, ha un potere magico[1]”.
 
Elisabetta lascia parlare  Riccardo che le giura di amarne la figlia from my soul ( 256) con tutta l’anima mia. La cognata prova a rinfacciargli la morte dei fratelli della fanciulla e Riccardo replica la dichiarazione d’amore aggiungendo che vuole fare di Elisabetta iunior la regina d’Inghilterra. Quindi chiede alla suocera designata di insegnargli a corteggiare la figlia dato che la conosce bene.
Elisabetta senior torna a ricordargli il sangue versato: Riccardo potrebbe inviare alla donna che ama un fazzoletto intriso del sangue del fratello e invitarla ad asciugarsi le lacrime con questo.
Viene in mente la pezza che Ipazia arrossò con il suo sangue mestruale e mostrò a un suo allievo innamorato di lei.  C’è ancora il contrasto tra amore e morte e la loro vicinanza.
Elisabetta continua dicendo al cognato che può anche ricordare a sua figlia come le abbia ucciso lo zio paterno Clarence, lo zio materno Rivers  e la zia acquisita Anne
Riccardo reagisce dicendo di sentirsi beffato da questi consigli, poi prova a recuperarli proponendosi di dire che ha ucciso tanti congiunti  per amore di Elisabetta.
Ma la madre dissocia l’amore dal sangue associando questo piuttosto all’odio. Noi  però sappiamo che  odio e amore vengono spesso associati.
Almeno quanto amore e morte
Facciamo qualche esempio
Molto noto è l'epigramma di Catullo: "Odi et amo . Quare id faciam, fortasse requiris./Nescio, sed fieri  sentio et excrucior ." (85), odio e amo. L'ossimòro condensa la contraddizione lacerante del poeta che dissocia l'amare  dal bene velle: la componente sensuale da quella affettiva, come chiarisce bene il distico finale del carme 72 :"Qui potis est?, inquis. Quod amantem iniuria talis/ cogit amare magis, sed bene velle minus "(vv. 7-8), come può essere?, chiedi. Poiché una tale offesa costringe l'amante ad amare di più ma a voler bene di meno.
 "E' la conflittualità catulliana fra sesso e amore"[2]. Si trova anche in Senilità di Svevo:"Aveva posseduto la donna che odiava, non quella ch'egli amava. Oh, ingannatrice!"[3].
Su questa linea Paolo Silenziario, autore che si colloca tra la tarda antichità e l'inizio della cultura bizantina (VI sec. d. C), in uno dei suoi circa ottanta epigrammi rimasti nell' Antologia Palatina  considera l'oltraggio della donna che gli ha sbattuto la porta in faccia, aggiungendo parole ingiuriose, come una forma di   u{bri" che eccita ancora di più il suo folle amore:"u{bri" ejmh;n ejrevqei ma'llon ejrwmanivhn" (V, 256)
 
Secondo Ovidio, oltre essere turpe odiare chi abbiamo amato, non è produttivo, e non è indicativo di emancipazione dall'amore:"Saepe reas faciunt et amant" (Remedia amoris, v. 661), spesso le accusano e amano. Senza contare le relazioni e i matrimoni che finiscono in tribunale con danni di tutti i generi:"Tutius est aptumque magis discedere pace/nec petere a thalamis litigiosa fora./Munera, quae dederas, habeat sine lite iubeto;/esse solent magno damna minora bono" (vv. 669-672), è più sicuro e più conveniente separarsi in pace, e non passare dal talamo ai processi del foro. I doni che le avevi fatto, lascia che se li tenga senza contesa; di solito le perdite sono inferiori a un bene grande.
 “La Chauchat poteva essere solo un’avventura estiva che non doveva trovare approvazione davanti al tribunale della ragione: era una donna ammalata, fiacca, febbricitante e bacata nell’animo, circostanza connessa con gli aspetti equivoci della sua esistenza complessiva.
Per questo Hans provava anche sentimenti di prudente distacco
(T. Mann, La montagna incantata, capitolo  IV)
In D'Annunzio la donna non poche volte è  la nemica, come Ippolita Sanzio lo è di Giorgio Aurispa nel Trionfo della morte   (del 1894) di cui cito la conclusione :" Fu una lotta breve e feroce come tra nemici implacabili che avessero covato fino a quell'ora nel profondo dell'anima un odio supremo. E precipitarono nella morte avvinti".
Cito anche, per dare un esempio meno noto, alcuni versi di una poesia,  di uno dei massimi autori ungheresi del Novecento, Endre Ady (1877-1919):" Sono le nostre ultime nozze:/Ci strappiamo la carne a colpi di becco/e cadiamo sul fogliame d'autunno" ( Nozze di falchi sul fogliame secco) [4].
Fa rabbrividire, forse perché non è del tutto falsa, una sentenza tragica del misogino suicida C. Pavese"Sono un popolo nemico, le donne, come il popolo tedesco"[5]. E pure, con un pessimismo meno esteso ma più personalizzato:"Sono tuo amante, perciò tuo nemico"[6].
 
giovanni ghiselli 
 


[1] G. Murray, Euripides and his age, pp. 242-243.
[2] A, Traina, Di fronte ai classici , p. 263.
[3] Senilità (del 1898), p. 155.
 [4]. Trad. it. Lerici, Milano, 1964.
[5]Il mestiere di vivere , 9 settembre 1946.
[6] Il mestiere di vivere ,18 novembre 1945.

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