Dopo il terzo orgasmo la giovane donna sembrava allegra e compiaciuta; io già molto contento di quel risultato, quasi stropicciandomi le mani, andai nel bagno a lavarmi, per continuare a battere il ferro caldo come si dice, ma quando, tre minuti più tardi, tornai nella stanza da letto e trovai che quella stessa persona, o piuttosto personaggio farsesco, dimessa la sembianza lieta, piangeva a dirotto.
Le domandai: "Cosa c'è
tesoro?". Non rispose. Le chiesi se potessi aiutarla. Disse che nessuno
poteva fare nulla per lei, infelice, svuotata, forse seriamente malata anche
nel corpo.
Mi venne in mente Helena quando disse
che non stava bene, poi sommessamente aggiunse “may be I am
pregnant, or may be a cancer".
Capii che quella donna non faceva una scena, non recitava, era spaventata
davvero pur parlando con calma. Le dissi subito che la mattina seguente, se
voleva, l’avrei accompagnata nel reparto delle donne incinte e malate
dell’ospedale di Debrecen.
Era il luglio del 1971, quasi dieci anni
erano già passati da quell’amore.
"Ho capito: allora vestiamoci
subito; ti accompagno in camera, così ti riposi", dissi con tono pacato a
Ifigenia, guardandola negli occhi senza ironia né incertezza. Con le
commedianti è necessario comportarsi così; gli uomini che invece di controllare
la situazione si lasciano intimidire,
oppure montano in furia, si meritano le zoccolate che ricevono in faccia.
Ifigenia saliva i gradini con passi di
enorme stanchezza.
Sembrava che andasse a morire. Aveva
scelto il ruolo della donna stremata come esodo della commedia di colori
diversi recitata quel giorno.
La salutai, poi tornai in camera mia, assai
contento di dormire da solo. “Per carità in casa mia - pensai - per carità”.
Lunedì nove marzo c'era un gran sole, caldo, luminoso, sicuro. Ci trovammo a colazione pieni di buonumore. Durante la notte avevo deciso che da colei non dovevo aspettarmi più di quanto voleva darmi: poco oramai, che però avrei utilizzato al meglio per la mia opera prossima a cominciare. Anche Ifigenia quasi sicuramente aveva deciso di prendere il più possibile da me , alternando lagne e piagnistei con tripudi di esultanza e di gioia.
Così armonizzati e contenti come possono
esserlo due amanti scellerati che hanno deciso di sfruttarsi a vicenda, salimmo
con la funivia al rifugio Le cune dove ci fermammo ad abbronzarci, quasi in
silenzio. Sul mezzogiorno, per cambiare posizione e visuale, scendemmo in un rifugio
più basso e riparato, dove più intenso era il calore della fiamma celeste che
dona e nutre la vita. Appena scesi dalla seggiovia, ci togliemmo le giacche a
vento e arrotolammo le maniche delle camicie. L'umore diveniva sempre più
allegro. A un tratto notai una casetta di legno in mezzo alla neve: distava
circa un chilometro in direzione di Bellamonte e tutt’intorno per ampio tratto
non si vedevano orme. Doveva essere disabitata.
Dissi: "Guarda quel casinetto in
mezzo alla luce: è nostro[1].
Andiamo là ad abbronzarci anche i
corpi". Desideravo fare l'amore all'aria aperta, tra il sole e la neve che
lo potenziava, ma conservavo parte della cautela che mi ero imposta la sera prima.
Però Ifigenia quella mattina voleva essere generosa e mi fece capire che
potevo, anzi dovevo essere franco.
"Dai – disse – andiamoci e facciamo
l'amore!".
"Come ai bei tempi – pensai - stai
a vedere che questa ha assorbito nel corpo, fino alle midolla, il calore della stagione bella”.
Le feci un sorriso di assenso, poi ci incamminammo
semiabbracciati. Qua e là affondavamo
fino alle ginocchia e oltre, in qualche buco pieno di acqua per il
disgelo. Prendevamo tutto con allegria. "Poi ci spogliamo e ci asciughiamo
ai raggi caldi, corroborati da questo biancore che li riflette" dissi. E lei: "Sì, e facciamo
zazzì". "Guarda un po’ com’è diventata un’altra volta
simpatica!" pensavo.
Eravamo eccitati. Finalmente giungemmo
alla baita. Era proprio isolata. Salimmo sulla terrazza non alta che la
cingeva, afferrandone il bordo e tirandoci su. Poi scavalcammo il parapetto e
ci stendemmo sul lato volto a sud, verso il passo Rolle. Si vedevano soltanto
le montagne innevate: una cascata di luce le circonfondeva facendole brillare. Rimanemmo
fermi e silenziosi per alcuni minuti, osservando il paesaggio. Sembrava un
pomeriggio di prima estate: il cielo era così luminoso e l'aria tanto calda che
non rabbrividivo all'idea di spogliarmi per fare l'amore con una ragazza di cui
non mi fidavo. Alcune grosse mosche iridate volavano ronzando intorno a
noi senza posa. Davanti agli occhi
avevamo le pale di San Martino, bianche, lontane, e illuminate così
ardentemente da sembrare tre opliti giganti levatisi al sole con le armature
candide per riverberarne i dardi di fuoco. I lati settentrionali, i fianchi destri
degli smisurati guerrieri, dall'ombra che eternamente li copre, mandavano
bagliori azzurrini, gradevolmente freschi in quella illusione d'estate.
Bologna 21 giugno 2021 ore 8, 43
giovanni ghiselli
[1] Cfr. Don Giovanni di Mozart- Da
Ponte: “Quel casinetto è mio: soli saremo, /e là
gioiello mio, ci sposeremo./Là ci darem
la mano,/ là mi dirai di sì. Vedi non è lontano:/partiam, ben mio, di qui.’”
(I, 9).
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