NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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mercoledì 30 novembre 2022

La resurrezione. III. Il 1968. Eeva Vuortama, prima parte

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A Debrecen nel luglio del ’68  dunque ritrovai  gli amici del 66, con gioia, quella mia gioia che era ed è comunque una cosa seria, siccome nata dall’avere capito le cause di una crisi dolorosissima, quasi mortale, e di averla superata
: "ta; dev moi paqhvmata ejovnta ajcavrita maqhvmata gevgone"[1]
C’erano, ancora due dei tre contubernali del ’66 e se ne era aggiunto uno nuovo.
Ne sentirete parlare più avanti.
 Una settimana dopo essere arrivato con una mini minor verde, in compagnia di Fulvio raccolto alla stazione di Ravenna, mi innamorai di una ragazza di Helsinki, la prima del ciclo finnico, non la prima delle amanti finlandesi però. Non posso scrivere purtroppo - ejprvacqh ta; mevgista [2] . Non me lo concesse. Con rimpianto. Mio di sicuro.
Questa si chiamava Eeva Vuortama, aveva ventun anni, era bionda come è il grano poco prima di venire falciato nei giorni più belli dell’anno quando il sole ci dona benigno la sua luce già prossima al culmine e cominciamo a presoffrire il declino.
 Eva aveva gli occhi celesti, un viso bello assai, intelligente espressivo, ma di corpo non era del tutto irreprensibile. Non contraccambiava il mio amore, non veniva a letto con me nella solita camera numero 4 del primo collegio dove dormivo con Fulvio, Danilo e Claudio, il contubernale nuovo, un ragazzo di valore anche lui.

Eva dunque non mi amava, tuttavia usciva con me quasi ogni sera. Diceva che mi trovava simpatico, gentile, gradevole.
Sono apprezzamenti non sufficienti per fare l’amore e non soddisfacenti, per chi è innamorato e vorrebbe farlo. Mi dispiaceva assai quel suo sostanziale diniego della mia persona intera, ciò nondimeno la frequentavo assiduamente siccome sentivo di non perdere tempo in quanto da lei imparavo, come Odisseo dalle Sirene, pur costretto anche  lui  a non chinarsi su quelle bocche dalle voci soavi, su quelle lingue fatate. Mentre la osservavo e ascoltavo, pur inceppato dal divieto di fare l’amore, vedevo immagini necessarie alla mia crescita. Mi sentivo sollevato sulla pianura della Verità quando potevo starle vicino. Le idee che questa finnica impersonava e interpretava erano quelle del buon gusto e dell’arte. Mi educava con l’eleganza del suo stile.
Migliorai in tutto durante quel mese grazie a lei. Feci progressi perfino nel mio inglese studiato a scuola solo fino alla quinta ginnasio, come usava in quel tempo. Noi Italiani eravamo, con i Francesi, i meno capaci di parlare altra lingua che quella materna nell’università ungherese frequentata da studenti di quasi tutto il continente eurasiatico. Da Eva imparai a capire e a parlare la lingua di Shakespeare, che al ginnasio sapevo solo tradurre.
Apprendevo  perché  ascoltavo tale maestra con enorme attenzione in quanto consideravo evangelica ogni parola sua e, se me ne sfuggiva anche una sola, me la facevo ripetere tutte le volte necessarie.
Noi umani siamo inclini ad amare chi ci rende migliori. Eva mi insegnò a correggere tanti difetti della mia educazione e del carattere: quell’estate avevo conquistato da poco un aspetto gradevole, e ne andavo fiero dandogli troppa importanza, come un pezzente arricchito sopravvaluta il denaro.
Mi sentivo attraente: già quasi snello e bello,  vestito bene, fornito dell’ automobile allora di moda e credevo, sbagliando, che questo bastasse ad affascinare e conquistare qualsiasi donna. In quel mese compresi che ciò non era sufficiente con una della levatura di Eva.

Capii che mi mancavano competenze speciali, capacità egregie, uno stile non ordinario. Quella ragazza manifestava il suo stile da artista quando cantava o danzava meravigliosamente, e rivelava la sua intelligenza educata quando parlava facendomi vedere le idèe del bello con semplicità e del bene senza mollezza.
 Le sue parole e i suoi movimenti erano di luminosa chiarezza: sicuri, espressivi, pieni di significato. Volevo diventare come lei e la presi quale modello. Come avevo fatto con le miei consaguinee per gli aspetti che mi piacevano in ciascuna e mi si addicevano, come farò con le tre finniche degli anni seguenti .
Quando ballava e mi sorrideva, Eva, bionda di chioma, luminosa di occhi e bianca di pelle com’era, sembrava la luna circondata dalle stelle scoperte dai soffi del vento che spostava i rami frondosi della grande foresta e allontanava le grandi nuvole acquose, e mentre le nuvole e le foglie scosse dai soffi celesti lasciavano scorgere il cielo, vedevo la candida luna e le stelle lucenti danzare in sintonia con i disegni ballati da Eva vestita di nero e adorna di lunghi capelli che balzavano armonizzati con i suoi passi ed erano splendidi al pari dell’oro.
Quando il denso fogliame scuro o le nuvole inquiete nascondevano i tripudi degli astri, allora la finlandese aurichiomata si allontanava dalla terrazza e tornava il buio nel mondo, si spengeva ogni barlume per me.
Mentre la osservavo, per la prima volta  capii che a questa mia vita mortale potevano dare motivi di gioia non il denaro, la carriera, il successo caro al volgo, ma l’amore e l’arte. Sentivo di essere potenzialmente della razza di Eva: quella dei vivi davvero: la stirpe degli artisti fiammeggianti di un fuoco che traspare dalle espressioni del volto e del corpo: il gevno" degli eterni ricercatori della bellezza. Di questa famiglia eletta faceva parte quella giovanissima donna: in lei anche il movimento di un dito era un’espressione non ordinaria. Avevo bisogno di tempo, di studio, forse di altro dolore che avrei attraversato senza sciuparmi, di gioia, di amore, poi sarei diventato un artista anche io. Lo volevo con tutte le forze per essere degno di Eva o almeno di una donna altrettanto dotata di quello stile dell’immortalità che a me ancora mancava.
Una per cui non sarebbe stata nemesi[3] patire a lungo il dolore di una nuova nascita.


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Bologna 30 novembre 2022 ore 20, 03
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E adesso? Voglia di correre, voglia di correre. Non mi tiene nessuno!
 
 

[1] Le mie sofferenze che sono state spiacevoli, sono diventate apprendimenti (Erodoto, I,207).
[2] Teocrito, Farmakeuvtriai, le Incantatrici, II idillio, v 143
[3] Cfr. Omero Iliade, III, 156

martedì 29 novembre 2022

Orsini, Innaro e Lupi

Si sono visti a Carta Bianca tre personaggi: Orsini, lo studioso abbastanza informato e alquanto obiettivo; Innaro, il giornalista presente sul luogo dove è nata la crisi, uno che parla in seguito ad autopsia dunque,  e ha ricordato che,  durante gli otto anni precedenti l’invasione russa, nel Donbass erano stati ammazzati 15 mila Russi dalle truppe  ucraine di estrema destra, mentre soldati occidentali  ne ammaestravan altre; poi il deputato “moderato” Lupi, che non studia, non legge e non ha visto niente con i suoi occhi, ma ripete a memoria gli slogan bugiardi che i suoi padroni gli hanno ordinato. In cambio gli hanno assicurato un posto nella greppia o mangiatoia che comunque non è certamente quella dove è venuto alla luce Gesù bambino 2022 anni fa, quasi compiuti.

Slogan detti e ripetuti a lungo da quelli come Lupi per prolungare la guerra e il massacro di soldati ucraini e russi non senza l’uccisione di tanti civili ucraini, bambini compresi.

Noi  italiani siamo in maggioranza contrari alla prosecuzione di questa guerra già da tempo e saremo sempre  più numerosi.

Lupi mi ha fatto venire in mente Mussolini con il suo “la parola d’ordine è vincere!” quando fece entrare in guerra l’Italia nel giugno del 1940.

La canaglia lo approvò, poi non mancarono quelli che gliela fecero pagare.


Bologna 29 novembre 2022 giovanni ghiselli

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Il centrodesta pacifista!!!

Titolo del quotidiano “la Repubblica” di oggi

Politica

L’Italia in difesa di Kiev

Armi all’Ucraina per tutto il 2023

morma unitaria del centrodestra (pagina 12)

Commento: almeno un altro anno di guerra garantito.

Domanda: e i poveri italiani chi li difende?

 

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La resurrezione. II. Il 1968. Anno cruciale: prosegue lo schiodamento

Le notti della primavera del ’68 comprese tra il 10 e il 20 aprile, le passai in una stanza di un collegio di Praga facendo l’amore con Helena, la fanciulla onesta che mi donò tutta sé stessa senza chiedere nulla in cambio: non dico soldi o regali, ma nemmeno alcun impegno o rinuncia. Pur troppo poco mi chiese quella ragazza che mi piacque assai e le volli anche un poco di bene, ma interessato com’ero alla rivoluzione del nostro mondo e della mia persona, alla diciottenne in quel tempo non diedi tutta l’importanza che aveva e avrebbe avuto più tardi,  beninteso per me. La ripensai e l’ho riconosciuta soltanto alcuni anni dopo, riconsiderandola e rimpiangendola, invano, quando tornai a Praga, per cercarla, nella primavera piovosa del ’72.
 Nel frattempo in Italia erano cominciate le stragi di Stato.
Quando le telefonai, Helena, rimasta onesta, mi tenne lontano poiché nel frattempo aveva stretto un legame con un compagno di università.
La indico quale modello a quante fanno mercato della loro gioventù, oppure, dopo avere preso un impegno con un uomo, appena questo si volta, si intrigano con altri che sanno lusingarle suscitando nelle labili menti vani sogni, folli speranze, morbosi ricordi. Oppure una libidine pazza. Meno riprovevoli queste. Agiscono male,  sed non propter nummos , ma non per i miseri quattrini né per il  potere fallace.
 
Helena Schejbalova mi ha aiutato a uscire del tutto dall’abisso di vuoto identitario in cui ero caduto dopo il liceo.
Non meno  importante allora fu  la rivoluzione spirituale del 1968. Un evento mondiale che mi aiutò a riconoscere e approvare del tutto  gli aspetti migliori del mio carattere e ad assumere i tratti decisivi del mio stile di insegnante: non demagogicamente permissivo come furono molti durante l’auge del movimento studentesco, né, tanto meno, dispotico come altri, o magari gli stessi sono diventati nella fase regressiva della restaurazione iniziata alla fine del ’69 in concomitanza con la pima delle stragi di Stato.
 Allora cominciavo a insegnare e volevo diventare un educatore interessato alla crescita umana e culturale degli studenti. Sarebbe stata parallela alla mia.
“L’umanità visse allora-scrive Benedetto Croce- uno di quei rari momenti nei quali la lieta fiducia di sé stessa e del suo avvenire tutta la riempie, e ampliandosi nella purezza di questa gioia, essa si fa buona e generosa, e vede attorno a sé fratelli e ama”[1]
Cito queste parole riferendole al momento di lieta fiducia della mia generazione.
Da questo movimento studentesco dunque,  e pure da Helena, presi la fiducia di poter ridurre lo squilibrio che ancora sentivo tra la mia vita e i miei sogni, tra le mie capacità e i miei atti.
 
In luglio tornai a Debrecen, sempre con la speranza di trovare l’amore.
Ritrovai alcuni dei compagni del 1966, ancora giovani molto, sebbene non più proprio ragazzi. Fulvio e Danilo, oltre me, rano studenti in uscita dalle aule universitarie, già alle prese con la tesi di laurea.
 
Fulvio cantava spesso mettendo in lingua umana i versi delle pernici e Danilo seguitava a bere, ebrius et ructabundus. Ma era anche un serio studioso. Ha fatto più carriera di me nella scuola.
 Comunque eravamo amici e insieme si giocava, si chiacchierava si cercavano le femmine umane. Finché mi innamorai di una ragazza di Helsinki, la prima del ciclo finnico: Eeva Vuortama.


Bologna 29 novembre ore 14, 38
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[1] Bnedetto Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, capitolo sesto.

La resurrezione. I. L’estate del 1967 sul Ponto Eusino. Helena di Praga

Tornai a Debecen nel luglio del ’68, l’anno della svolta dei costumi.
 Nel frattempo avevo dato tutti gli esami e mi ero liberato da diversi contagi contratti prima: non disprezzavo più me stesso e non temevo le donne dopo che alcune ragazze erano state carine con me. Stavo via via ritrovando le mete cui indirizzare le forze mentali e corporee liberate dalla corda attorcigliata attorno all’anima mia e tanto stretta che l’aveva quasi soffocata. Il nodo era quello dei pregiudizi, delle superstizioni, dei luoghi comuni ripetuti come dogmi da ogni ignorante.
Scioglierlo non era possibile: dall’Alessandro Magno di Curzio Rufo, Plutarco e Arriano avevo imparato che dovevo tagliarlo. “Nihil interest quomodo solvatur” mi dissi 1, e mi diedi a reciderlo.
Dopo l’estate benefica del 1966 mi ero rimesso a studiare con interesse personale, non solo a memoria dico, e non tanto per gli esami, quanto per la mia liberazione. Avevo ripreso sul serio anche gli altri due pilastri della mia identità: la bicicletta e la corsa, riducendo l’adipe e annullando i doloretti cardiaci sentiti quando ero sprofondato nell’angoscia più cupa. Li avevo creduti preannunzi di morte precoce, mentre erano sintomi di malessere mentale profondo.

A mano a mano che i ceppi con i quali avevo bloccato la mia persona si allentavano, ritrovavo le forze.
Prima di tutte quella di evitare quanti non mi rispettavano compiutamente: avevo capito che se qualcuno cercava di infliggermi ingiustizia o anche soltanto scortesia, non io ero in difetto, ma quel tale individuo.
Un poco alla volta rivalutavo le deficienze di cui mi avevano incolpato. Mi convincevo che non fumare, per esempio, favoriva la vita quindi non era un difetto.
 Dovevo evitare i malevoli. Tagliare ogni ramo secco. Quindi non mi assoggettavo più ai giudizi sprezzanti, come negli anni della putredine e del disperato disgusto di tutto, compreso me stesso. Avevo cessato di considerare prossimo mio chi provava a offendermi: era feccia da lasciare nei bassi fondi dove si trovava.

Durante l’estate del ’67 amoreggiai con diverse ragazze nel corso di una vacanza sull’Adriatico, in Jugoslavia, poi sul mar Nero. Facevo il viaggio con due studenti di ingegneria miei vicini di tavola nel collegio Irnerio di Bologna dove eravamo alloggiati. Due ragazzi marchigiani, Mario Brodolini di Recanati e Andrea Gentili di Tolentino. Spero che siano vivi e stiano bene. Mi piacerebbe ritrovarli. Mario era nipote di un ministro galantuomo.
Ricordo le loro persone e i loro nomi con affetto perché erano probi, onesti e autentici. 
Una autenticità che spesso anche nei meno artefatti di noi letterati viene incrostata, se non addirittura contraffatta, da un qualche sapere che spesso non diventa sapienza, non arriva a essere cultura umana, ad associarsi alla vita, a capirla, a potenziarla, e non aiuta a vivere umanamente, ma si ferma allo stipendio, o arriva solo all’esibizione, alla scena artificiosa, oppure perviene malignamente all’ironia denigratrice del prossimo, dei sentimenti veri, della infelicità umana. L’ironia non risolve difficoltà e angosce: tuttalpiù le nasconde. Il principe santamente e genialmente idiota di Dostoevskij non ne era capace.

Del viaggio di quell’estate remota voglio ricordare un episodio già menzionato nella storia di Helena Sarjantola.
Una mattina di sole mi svegliai nella spiaggia di Varna dove eravamo attendati. Non era presto e gli amici contubernali erano già usciti dalla tenda - dormitorio. Sicché andai da solo in un bar per bere il primo caffè.
Non lontano da me era seduta una ragazza bionda, giovane assai, ben giovane, dagli occhi azzurri, bellina. La guardai direttamente e le rivolsi un sorriso che mi contraccambiò apertamente. “Il mare ospitale - pensai - non è un eufemismo 2. Ecco l’eterno richiamo dei sessi”. Stavo imparando a darlo e a riceverlo. Quella fanciulla non solo contribuì alla mia emancipazione dal male infondendomi ulteriore ottimismo nel bar sul Ponto Eusino dove ero stato, temevo, abbandonato dai due amici con i quali avevo questionato la sera prima, non senza mia colpa, ma seppe anche darmi un esempio di comportamento chiaro e onesto: lì sul mar Nero, dopo un paio di baci, disse apertamente che se desideravo una donna, dovevo cercarmi un’adulta, siccome lei non si sentiva iam matura viro 3, disse proprio così. "Ho ancora 17 anni", aggiunse. Bellina!

Per giunta era già sulla via del ritorno a Praga dove studiava al liceo.
Un fatto che accrebbe il mio interesse per lei.
Del resto anche noi tre stavamo per tornare in Italia, nelle nostre amate Marche, poi a Bologna. L'estate era quasi finita. Helena dunque mi congedò senza umiliarmi né umiliare se stessa: mi diede una carezza dicendo che comunque le ero piaciuto e mi aveva stimato per la mia sensibilità delicata, disse.
“Anche io ho amato la tua gentilezza generosa - risposi - e spero di rivederti più avanti da qualche parte. I hope to see you later, somewhere”.
 Parole che si dicono quasi sempre dopo un approccio gradevole e possono sembrare formulari, oppure l’espressione di un desiderio irrealizzabile; invece in dicembre mi scrisse pauca sed bona dicta 4: stava preparando l'esame di maturità e si sentiva maturare in tanti sensi. Mi invitò a Praga: aveva tante cose belle da raccontarmi e voleva sentire le mie. Bellina!
Ci andrai in aprile, per le vacanze di Pasqua. Era la Primavera di Praga.
 

Bologna 29 novembre 2022-
Oggi il tempo è davvero triste. E’ il terzo martedì di seguito che piove. Sarà impossibile pedalare, colpevole mangiare più di un boccone. Altrimenti sarebbe ybris. Dovrò andare a fare lezione in autobus. Sarà comunque una bella lezione tenuta a persone interessate e sintonizzate.

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1 Cfr. Curzio Rufo Historia Alexandri Magni, III, 1, 18
2 Il Mar Nero veniva chiamato il Mare Ospitale (per esempio da Erodoto in I, 6:" ej" to;n Eu[xeinon kaleovmenon povnton"), con un eufemismo, come ne fu constatata l'inospitalità a causa delle tribù selvagge della costa. Seneca nella Fedra (vv. 715 - 716) menziona la palude Meotide (ora si chiama Mar d'Azov) che incombe con onde barbare sul Mar Nero (barbaris...undis Pontico incumbens mari
3 Virgilio Eneide, VII, 53.
4 Cfr. Catullo 11, 15 e 16

 

L’apprendistato di giovanni ghiselli. XXXI. Il ritorno in Italia

Il beneficio più grande di queste prima esperienza nell’università estiva di Debrecen fu che, tornato a Pesaro poi a Bologna, mi sentii meno insicuro e infelice di quando ero partito in cerca di liberazione. Il viaggio di ritorno lo feci con Fulvio nella Seicento; veramente questa arrivò soltanto a Lova di Campagna Luppia, e di lì dovemmo proseguire in corriera fino alla stazione di Bologna, quindi prendemmo strade diverse per tornare alle case materne, ciascuno alla sua. L’automobile  decrepita, dopo averci preannunciato la propria morte ansimando sfinita sulle rampe del Tarvisio, aveva fatto altri duecento chilometri aiutata dalla strada in discesa, poi verso sera era spirata, lì, al confine tra la laguna veneta e la grande pianura padana, dove vedemmo tramontare un sole esausto, offuscato dai moscerini e dalle brume dell’estate morente anche lei.

Mi venne in mente, e ricordo anche oggi,  quanto mi cantava la mamma alla fine degli anni Quaranta: “triste tempo, l’alberello senza foglie resterà, ed il pover giannettello solo solo che farà?”
Invece non ero più solo e desolato come alla partenza: avevo conosciuto ragazze e ragazzi, anche persone buone, e avevo trovato un amico.
Rimasti appiedati a qualche centinaio di chilometri da casa, non potevamo chiedere aiuto perché il “maledetto e abominoso ordigno” che detesto, ossia il cellulare, ancora non esisteva, sicchè passammo la notte in una locanda campagnola scambiandoci impressioni e riflessioni sul mese passato insieme e sulle persone conosciute. Se ci fosse stato il telefonino e uno di noi , letterati ipotecnologici lo avesse avuto, avremmo perduto un simposio e uno scambio proficuo di pensieri non volgari né banali, anzi ricchi di pathos e di logos. Contento di ciò, mangiai appena un boccone.
L’anticena rispetto a quella dell’arrivo all Hungaria di Debrecen.
Mi ero già avviato sulla strada della resurrezione.  
La fine della vecchia automobile ebbe una conseguenza positiva siccome il male viene per giovare quando il destino prende il verso giusto, quello che favorisce la vita.
Poco tempo dopo infatti la zia Rina mi regalò la Mini Minor da cui trassi altra libertà e altro coraggio.

Salutati l’amico che non avrei più perduto, nemmeno dopo la sua morte avvenuta diversi decenni più tardi, e, terminato il viaggio sapendo più cose di me stesso e del prossimo, mi ritrovai a Pesaro già piuttosto cambiato, e non in peggio: avevo smesso di pensare che la mia vita sarebbe trascorsa tutta tra sconfitte, umiliazioni, dolore e odio come era caduta di degradazione in degradazione da quando avevo finito il liceo: fino a quella bassa età  del ferro nella quale aveva trionfato la brutalità calpestandomi il cuore e il cervello, l’anima intera. Fino a rinnegarla.

A Debrecen avevo incontrato ragazzi buoni che mi chiamavano per nome, non con epiteti carichi di ludibrio, mi parlavano senza insultarmi e mi ascoltavano con attenzione; poi avevo trovato giovani donne che mi avevano sorriso e si erano lasciate avvicinare in vari modi; avevo conosciuto persone che avevano riso e scherzato con me, non di me, e mi ero convinto che quel rispetto era giusto siccome io non ero stupido, ignorante e cattivo: lo erano piuttosto  quanti mi avevano maltrattato dopo il liceo per risentimento del mio essere stato egregio nelle scuole pesaresi  e per  la soddisfazione di vedermi smarrito, disorientato, abbattuto avere perduto il ruolo di primo delle classi che non c’erano più.
Avevo del resto capito che quel rancore era stato scatenato non solo dal mio essere bravo ma anche dal narcisismo egoista con cui mi presentavo. Dovevo dunque tornare a primeggiare, ma per vantarmene bensì per fare del bene: il mio bene e quello degli altri, insomma volevo diventare benefico con l’aiuto di amici e ancor più di una donna del mio stampo, della mia levatura, della mia razza spirituale. Ma questa dovevo incontrarla. Un grande aiuto mi verrà dal movimento studentesco dei due anni seguenti. Sarà l'argomento dei prossimi capitoli.


Bologna 29 novembre 2022- ore 11
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La Parodo delle Baccanti e la commedia di Bernard Shaw Maggiore Barbara.


 

Dodds vede in Euripide addirittura “il principale rappresentante dell’irrazionalismo del V secolo   : “Euripides remains for us the chief representative of fifth-century irrationalism; and herein, quite apart from his greatness as a dramatist, lies his importance for the history of Greek thought[1],  e in questo, del tutto a parte dalla sua grandezza come drammaturgo, sta la sua importanza per il pensiero greco.

 

La Parodo delle Baccanti  (vv. 64-167) rende un'idea del dionisiaco, della rinuncia alla identità personale, dell'alternativa all'apollineo come principium individuationis e volontà di potenza, dà un’idea del tuffarsi nei flutti del misticismo  ed entrare in comunione con la natura, imitando Dioniso. “Così come c’è una Imitazione di Cristo, ci fu anche una imitazione di Dioniso, che venne chiamata letteralmente “imitazione”-oJmoivwsi~ pro;~ to;n qeovn-, la quale consisteva nel “perdere la testa”, dimenarsi, ammattire: maivnesqai, bakceuvein[2].   

 

 

Parodo delle Baccanti

Parodo vv. 64-169.

 

vv. 64-71. Proodo.  “Il canto della parodo viene introdotto dal proodo, secondo un modulo già utilizzato da Euripide nella parodo della Medea (vv. 131 sgg.) e in quella dell’Elena (vv. 164-166: qui il proodo è eseguito dall’attore)”[3]. Nel proodo prevalgono i dimetri e i trimetri ionici.

“La tradizione ci ha conservato più di una tragedia in cui il coro aveva un ruolo essenziale…il coro delle menadi lidie è, nelle Baccanti, il simbolo stesso della nuova religione che Dioniso cerca di introdurre a Tebe”[4].

La Parodo delle Baccanti costituisce “una sorta di catechismo dionisiaco”[5].

"Dalla terra d'Asia

lasciato il sacro Tmolo metto in rapido movimento 65

 per Bromio una fatica dolce e uno sforzo che dà forza,

 celebrando Bacco con grida di evoè.

 Chi è per strada, chi è per strada, chi?

Stia in casa fuori da questo luogo, e ognuno

 Consacri la bocca che serba religioso silenzio: 70

io infatti celebrerò Dioniso

secondo il rito in uso, sempre.

 

vv. 72-87=88-104 prima strofe-prima antistrofe.

“La strofe e l’antistrofe sono in responsione, hanno cioè la medesima struttura metrica. Questa corrispondenza doveva non solo trovare fondamento nella ripetizione di una stessa partitura musicale, ma tradursi spesso anche nella iterazione dei medesimi movimenti orchestici da parte dei coreuti. Appunto a ciò sembra alludere la stessa nomenclatura in uso presso le nostre fonti: durante la strofe i coreuti avrebbero volto i loro passi in una direzione (strevfein= “volgere”) , durante l'antistrofe nella direzione opposta (ajntistrevfein= "volgere in senso contrario"). Non di rado alla coppia strofe-antistrofe si aggiungeva una sezione complementare, l'epodo": si realizzava così la struttura triadica. In alcune tragedie la coppia strofica appare preceduta da un "proodo" : un sistema anapestico affidato al recitativo del corifeo oppure una strofe lirica cantata dal coro o da un attore, o realizzata da entrambi attraverso un duetto"[6].

Qui prevalgono il dimetro ionico e il dimetro coriambico.

Str a. O

 beato colui che  va d’accordo con se stesso

e conoscendo i misteri degli dèi

santifica la vita e

entra nel tiaso con l'anima, 75

baccheggiando nei monti

con sacre purificazioni,

e celebrando secondo il rito

il culto  della grande madre Cibele

alto scuotendo il tirso, 80

e incoronato di edera

venera Dioniso.

 

 

  

Andate Baccanti, andate Baccanti,

a ricondurre Dioniso

il dio Bromio figlio di dio 85

dai monti Frigi

 alle contrade dagli ampi

spazi dell'Ellade, il Bromio;

 

 

ant a. lui che

un giorno la madre nelle dolorose

 necessità del parto

mentre volava il fragore di Zeus 90

  generò espulso dal ventre

lasciando la vita per un colpo del fulmine;

ma subito lo accolse

nei talami puerperali Zeus Cronide, 95

e celatolo nella coscia

lo tiene stretto con fibbie d’oro

nascoltolo a Era. 98

 

 

-E lo diede alla luce, quando le Moire

lo ebbero compiuto, il dio dalle corna di toro, 100

e lo incoronò con corone

di serpenti, per cui le menadi

intrecciano ai ricci

la preda selvaggia.

 

 

vv. 105-119= 120-134: seconda strofe-seconda antistrofe.

 Il dimetro coriambico prevale ma si alterna con gliconei e dattili: “the last-named describe the rush of the dancers to the mountains (116-7); and in general the excited and swiftly changig rhythms seem to reflect, as Deichgräber observes, the Dionysiac unrest”[7],  questi  (i dattili) descrivono il movimento precipitoso dei danzatori verso il monte (116-7) e in generale i ritmi eccitati che cambiano rapodamente  sembrano riflettere, come osserva Deichgräber, l’agitazione dionisiaca

 

Str. b O Tebe nutrice di

Semele, incorònati di edera; 106

pullula, pullula di verdeggiante

smilace dal bel frutto

e baccheggia con i rami

di quercia o di abete, 110

e adorna l'indumento delle

nebridi screziate con ciocche di ricci

dal bianco pelo; e intorno ai tirsi violenti,

santìfìcati: presto tutta la terra danzerà.

 

 

Bromio è chiunque guidi i tiasi. 115

Verso il monte verso il monte, dove aspetta

la turba delle donne

lontana da telai, via  da spole

rese furiose dall’assillo di Dioniso. 119

 

ant b. O sede riposta dei Cureti

e sacrosanta dimora

di Creta dove nacque Zeus,

dove i Coribanti dal triplice cimiero

negli antri inventarono per me 125

 questo cerchio di pelle tesa;

e nell'orgia bacchica lo mescolarono

al soffio concorde dal dolce suono

dei flauti frigi, e lo misero in mano

della madre Rea, fragoroso accompagnamento alle grida delle menadi;

e Satiri frenetici 130

lo ottennero dalla dea madre,

e lo congiunsero alle danze

delle feste biennali,

delle quali gioisce Dioniso.

 

Epodo. vv-135-169.

 Dodds segnala la difficile definizione del metro, specie nella prima parte . “Poi i ritmi del gliconeo (154-156) avviano al galoppo finale senza respiro dei peoni (- + + + ) e dattili nei quali è descritta la corsa impetuosa delle menadi”[8].

 

 E’ cosa dolce nei monti, quando dai tiasi in corsa

si cade a terra, indossando 136

il sacro indumento della nebride, cacciando

il sangue del capro ucciso, gioia di mangiare la carne cruda, lanciandosi sui monti frigi, lidi, e il capo è Dioniso, 140

 evoè.

Scorre di latte il suolo, scorre di vino, scorre del nettare

delle api.

Bacco sollevando 145

la fiamma ardente

dalla torcia di pino

come fumo di incenso di Siria

si slancia con la corsa e

con danze eccitando le erranti

e con grida spingendole,

e scagliando nell'aria la molle chioma. 150

 

E insieme con urla di evoè grida così:

"O andate Baccanti,

 andate Baccanti,

con lo splendore dello Tmolo aurifluente,

cantate Dioniso 155

al suono dei timpani dal cupo tono,

celebrando con urla di evoè il dio dell'evoè

tra grida e strepiti frigi

quando il sacro flauto melodioso 160

freme sacre canzoni giocose, accordati

alle erranti verso il  monte, verso il monte: felice 165

allora, come puledra con la madre

al pascolo, muove il piede rapido, a balzi, la baccante

 

Il suono cupo di questi strumenti delle Baccanti:  i tuvmpana baruvbroma (v. 156) i tamburi dal suono cupo e i lwtoiv  i flauti (v. 160)  eccitava i sensi; non  aveva intervalli regolari come quello degli strumenti a corde che invece stimolava la riflessione. 

 

Il suono del tamburo è considerato centrale anche dal professore di greco Adolph Cusins, il fidanzato di Barbara, maggiore dell’esercito della salvezza nella commedia di Bernard Shaw Maggiore Barbara. Egli dice al futuro suocero, il padre di Barbara, ricchissimo fabbricante di armi: “You do not understand the Salvation Army. It is te army of joy, of love, of courage…It takes the poor professor of Greek, the most artificial and self-suppressed of human creatures, from his meal of roots, and lets loose the rhapsodist in him; reveals the true worship of Dionysos to him; sends him down the public street drumming dithyrambs[9], Tu non capisci l’Esercito della Salvezza. E’ l’esercito della gioia, dell’amore, del coraggio…Porta via il povero professore di Greco, la più artificiale e autorepressa delle creature dal suo pasto di radici, e libera il rapsodo che è in lui; rivela in lui il vero cultore di Dioniso; lo manda nella pubblica strada a tambureggiare ditirambi.   

 

 

 Lo sviluppo dell'arte ellenica è legato alla duplicità di questi due istinti artistici, alla loro tensione dialettica e alla loro sintesi nella tragedia. Nietzsche divide la cultura greca antica in  grandi periodi artistici determinati dalla lotta di questi due principi avversi:"dall'età del bronzo, con le sue titanomachie e la sua aspra filosofia popolare si sviluppò, sotto il dominio dell'istinto di bellezza apollineo, il mondo omerico", poi "questa magnificenza "ingenua" venne di nuovo inghiottita dal fiume irrompente del dionisiaco", quindi "di fronte a questa nuova potenza l'apollineo si elevò alla rigida maestà dell'arte dorica e della visione dorica del mondo".

  Infine abbiamo la tragedia attica "come la meta comune dei due istinti, il cui misterioso connubio si è glorificato, dopo una lunga lotta precedente, in una tale creatura che è insieme Antigone e Cassandra"[10].

 Le Baccanti hanno avuto interpretazioni contrastanti: secondo alcuni sono la palinodia dell'autore che torna alla religione dopo il razionalismo e per la stanchezza postfilosofica; secondo altri costituiscono un'ulteriore condanna della religione.

 La prima lettura si fonda in buona parte sui versi del primo  Stasimo (vv. 370-432). Sembra una scelta delle credenze popolari, contro il reo dolor che pensa, i sofismi e il pretenzioso sapere degli intellettuali  (386-402)

Vediamo la prima antistrofe

Ant. a Di bocche senza freno

di  follia senza misura

il termine è sventura;

mentre la vita

della tranquillità e il comprendere 390

rimangono al riparo dai flutti

e tengono unite le case: da lontano infatti i celesti,

pur abitando l’etere,

vedono comunque gli atti dei mortali.

Il sapere non è sapienza 395

né avere la pretesa di comprendere fatti non mortali.

Breve è la vita: per questo

uno che insegue grandi fantasie

non può conseguire quello che c’è. Questa 400

è la direzione, almeno  secondo me, di uomini

dissennati e sconsigliati.    

 

Bologna 29 novembre 2022 ore  10, 16

 giovanni ghiselli

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[1] Dodds, Euripides the irrationalist in  The ancient concept of progress, p. 90.

[2] J. Ortega y Gasset, Idea del teatro, p. 86.

[3] Di Benedetto, Op. cit., p. 507.

[4] Di Marco, Op. cit., p. 176.

[5] G. Guidorizzi,  Euripide Baccanti, p. 18

[6] Di marco, Op. cit., p. 173.

[7] Dodds, Op. cit., p 73.

[8] Dodds, Op. cit., p 73.

[9] Major Barbara, Act II rappresentata la prima volta nel 1905.

[10] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 39.