C’erano, ancora due dei tre contubernali del ’66 e se ne era aggiunto uno nuovo.
Ne sentirete parlare più avanti.
Una settimana dopo essere arrivato con una mini minor verde, in compagnia di Fulvio raccolto alla stazione di Ravenna, mi innamorai di una ragazza di Helsinki, la prima del ciclo finnico, non la prima delle amanti finlandesi però. Non posso scrivere purtroppo - ejprvacqh ta; mevgista [2] . Non me lo concesse. Con rimpianto. Mio di sicuro.
Questa si chiamava Eeva Vuortama, aveva ventun anni, era bionda come è il grano poco prima di venire falciato nei giorni più belli dell’anno quando il sole ci dona benigno la sua luce già prossima al culmine e cominciamo a presoffrire il declino.
Eva aveva gli occhi celesti, un viso bello assai, intelligente espressivo, ma di corpo non era del tutto irreprensibile. Non contraccambiava il mio amore, non veniva a letto con me nella solita camera numero 4 del primo collegio dove dormivo con Fulvio, Danilo e Claudio, il contubernale nuovo, un ragazzo di valore anche lui.
Eva dunque non mi amava, tuttavia usciva con me quasi ogni sera. Diceva che mi trovava simpatico, gentile, gradevole.
Sono apprezzamenti non sufficienti per fare l’amore e non soddisfacenti, per chi è innamorato e vorrebbe farlo. Mi dispiaceva assai quel suo sostanziale diniego della mia persona intera, ciò nondimeno la frequentavo assiduamente siccome sentivo di non perdere tempo in quanto da lei imparavo, come Odisseo dalle Sirene, pur costretto anche lui a non chinarsi su quelle bocche dalle voci soavi, su quelle lingue fatate. Mentre la osservavo e ascoltavo, pur inceppato dal divieto di fare l’amore, vedevo immagini necessarie alla mia crescita. Mi sentivo sollevato sulla pianura della Verità quando potevo starle vicino. Le idee che questa finnica impersonava e interpretava erano quelle del buon gusto e dell’arte. Mi educava con l’eleganza del suo stile.
Migliorai in tutto durante quel mese grazie a lei. Feci progressi perfino nel mio inglese studiato a scuola solo fino alla quinta ginnasio, come usava in quel tempo. Noi Italiani eravamo, con i Francesi, i meno capaci di parlare altra lingua che quella materna nell’università ungherese frequentata da studenti di quasi tutto il continente eurasiatico. Da Eva imparai a capire e a parlare la lingua di Shakespeare, che al ginnasio sapevo solo tradurre.
Apprendevo perché ascoltavo tale maestra con enorme attenzione in quanto consideravo evangelica ogni parola sua e, se me ne sfuggiva anche una sola, me la facevo ripetere tutte le volte necessarie.
Noi umani siamo inclini ad amare chi ci rende migliori. Eva mi insegnò a correggere tanti difetti della mia educazione e del carattere: quell’estate avevo conquistato da poco un aspetto gradevole, e ne andavo fiero dandogli troppa importanza, come un pezzente arricchito sopravvaluta il denaro.
Mi sentivo attraente: già quasi snello e bello, vestito bene, fornito dell’ automobile allora di moda e credevo, sbagliando, che questo bastasse ad affascinare e conquistare qualsiasi donna. In quel mese compresi che ciò non era sufficiente con una della levatura di Eva.
Le sue parole e i suoi movimenti erano di luminosa chiarezza: sicuri, espressivi, pieni di significato. Volevo diventare come lei e la presi quale modello. Come avevo fatto con le miei consaguinee per gli aspetti che mi piacevano in ciascuna e mi si addicevano, come farò con le tre finniche degli anni seguenti .
Quando ballava e mi sorrideva, Eva, bionda di chioma, luminosa di occhi e bianca di pelle com’era, sembrava la luna circondata dalle stelle scoperte dai soffi del vento che spostava i rami frondosi della grande foresta e allontanava le grandi nuvole acquose, e mentre le nuvole e le foglie scosse dai soffi celesti lasciavano scorgere il cielo, vedevo la candida luna e le stelle lucenti danzare in sintonia con i disegni ballati da Eva vestita di nero e adorna di lunghi capelli che balzavano armonizzati con i suoi passi ed erano splendidi al pari dell’oro.
Quando il denso fogliame scuro o le nuvole inquiete nascondevano i tripudi degli astri, allora la finlandese aurichiomata si allontanava dalla terrazza e tornava il buio nel mondo, si spengeva ogni barlume per me.
Mentre la osservavo, per la prima volta capii che a questa mia vita mortale potevano dare motivi di gioia non il denaro, la carriera, il successo caro al volgo, ma l’amore e l’arte. Sentivo di essere potenzialmente della razza di Eva: quella dei vivi davvero: la stirpe degli artisti fiammeggianti di un fuoco che traspare dalle espressioni del volto e del corpo: il gevno" degli eterni ricercatori della bellezza. Di questa famiglia eletta faceva parte quella giovanissima donna: in lei anche il movimento di un dito era un’espressione non ordinaria. Avevo bisogno di tempo, di studio, forse di altro dolore che avrei attraversato senza sciuparmi, di gioia, di amore, poi sarei diventato un artista anche io. Lo volevo con tutte le forze per essere degno di Eva o almeno di una donna altrettanto dotata di quello stile dell’immortalità che a me ancora mancava.
Una per cui non sarebbe stata nemesi[3] patire a lungo il dolore di una nuova nascita.
Bologna 30 novembre 2022 ore 20, 03
giovanni ghiselli
p. s.
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